Quello che ho detto all’Assemblea del GIT di Sassari
Mercoledì scorso sono andato a Sassari con Gaetano Lauta, coordinatore dei soci di Banca Etica della Sardegna meridionale, all’assemblea dei cugini soci della Sardegna settentrionale.
È stata un’Assemblea molto bella e piuttosto intensa e, naturalmente, a un certo punto mi hanno fatto parlare. Ne ho approfittato per dire un paio delle cose che penso in questo momento sulla Banca, la vita, l’Universo e tutto quanto, cose che cerco di riportare qui più o meno come me le ricordo (ho parlato a braccio). Diciamo che vi risparmio ciò che ho detto per presentarmi (e per raccontare come funziona l’organizzazione dei soci di Banca Etica) e i saluti e parto dal primo punto importante:
Come vi è stato già detto la vostra Assemblea cade nell’anno in cui la Banca festeggia i suoi quindici anni di vita. Vorrei approfittarne per parlare non tanto delle cose che abbiamo fatto, quanto delle cose che ci stanno davanti, anche per dare una possibile prospettiva di lavoro alle persone che oggi eleggerete nel vostro gruppo di coordinamento.
Io credo che la sfida per noi sia, sempre più, quella di ridefinire l’identità della Banca non tanto nei termini della sua missione generale quanto dal punto di vista delle persone con cui concretamente ci relazioniamo per offrire l’accesso al credito.
Quando la Banca è stata fondata, ormai vent’anni fa, la sua identità doveva essere quella di una “banca del Terzo Settore”, o “dell’economia sociale” – ci sono sempre state nel nostro mondo discussioni sul modo corretto di autodefinirsi. Ci rivolgevamo cioè a tutto quel mondo che in buona parte era rappresentato dalle grandi organizzazioni fondatrici: cooperazione sociale, associazionismo, cooperazione nord-sud e così via.
A quindici anni di distanza ci rendiamo conto che quella identità ci va sempre più stretta.
Non solo perché nel mondo dell’economia sociale parecchia acqua è passata sotto i ponti, e vediamo che ci sono cooperative sociali e cooperative sociali, ONG e ONG: ci sono cooperative sociali che continuano a sputare sangue sui confini dell’emarginazione sociale e cooperative sociali che gestiscono i CIE, ONG che continuano a sputare sangue nelle situazioni più impervie del Sud del mondo e ONG che si fanno ruota di scorta di politiche di sfruttamento globale. Ci rendiamo conto cioè che la semplice “identità giuridica” – l’essere parte del no-profit, sostanzialmente – non è più una categoria sufficiente per identificare coloro che sono i destinatari della nostra collaborazione e che garantiscono i nostri risparmiatori sull’utilizzo etico del loro denaro e che è pertanto necessario spostarci sempre più dal finanziamento del Terzo Settore in quanto tale al finanziamento di una “economia civile” caratterizzata più che da una identità giuridica da un impatto sociale, ambientale o culturale positivo del proprio lavoro. Potremo in futuro lavorare sempre di più anche con realtà che giuridicamente sono a fine di lucro, a condizione che contribuiscano a creare ricchezza sociale, e potremo lavorare meno con realtà che sono magari no-profit per pure ragioni di convenienza fiscale.
Non si tratta però solo di questo: il tema è anche che è lo stesso modello del Terzo Settore ad essere stato messo in difficoltà e forse addirittura superato dalla crisi. L’idea di un “privato sociale” che si ponesse fra i servizi pubblici erogati dallo Stato e il cittadino, per fornire autonomamente ma sostanzialmente grazie a fondi pubblici servizi che garantissero i diritti fondamentali della persona mostra segni di cedimento nel momento in cui gli enti pubblici stanno, sostanzialmente, tagliando i fondi (il che, incidentalmente, dà un po’ di ragione a quanti, anche nella Banca, temevano che l’ascesa del Terzo Settore coincidesse con una esternalizzazione dei servizi pubblici foriera, potenzialmente, di un abbassamento della qualità e quantità dei servizi stessi). E, d’altra parte, andando avanti la storia il fulcro dell’innovazione sociale si sposta inevitabilmente altrove: ce ne rendiamo conto anche quando vediamo che termini che un tempo erano chiaramente “rivoluzionari” o controcorrente, come “ambiente” o “solidarietà” o “volontariato” o “sostenibilità” sono spesso oggi impiegati senza troppa difficoltà proprio da quelle realtà – grandi aziende, governi, gruppi di potere – che certamente non sono a favore dell’innovazione sociale, dei diritti umani, della giustizia. Anche in questo senso ci rendiamo conto che ila situazione sta cambiando, nel nostro mondo di riferimento, e che dobbiamo chiederci, come Banca, chi è che oggi sta sulla frontiera, chi lavora in maniera innovativa per costruire un’economia giusta e ha bisogno di accesso al credito, per imparare a lavorare con questi, senza abbandonare i vecchi, ma spostando avanti il confine del nostro lavoro. Potranno essere i GAS, le reti di economia solidale o il co-housing, per dire, o più probabilmente altri settori e gruppi di attività ancora poco conosciuti.
Non possiamo cioè rischiare di rimanere ancorati al passato e tesi a finanziare un modello di intervento sociale che è magari destinato a ridursi sempre più, a rischio di trascurare la possibilità di costruire rapporti con realtà che in futuro avranno un ruolo economico e sociale sempre maggiore. Non solo per motivi banalmente commerciali, cioè rischiare di offrire linee di servizi che avranno in futuro sempre meno importanza, ma proprio perché al Banca è nata per servire l’innovazione sociale e se restasse ferma finirebbe inevitabilmente per snaturarsi.
Individuare e definire questi settori di intervento nuovi e questi interlocutori nuovi, immaginare questi scenari è certo compito delle strutture operative della Banca ma è anche prima di tutto compito dei soci, soprattutto di quelli più attivi e impegnati nei vari organismi dell’organizzazione territoriale dei soci e per questo mi sembrava importante nel momento in cui il gruppo dei soci di Sassari comincia a darsi dei nuovi impegni descrivervi questo scenario.
Mi sembra anche importante, parallelamente, dire tre possibili livelli di attività dei soci che permetterebbero alla Banca – e al gruppo dei soci – di raggiungere questo obiettivo.
Il primo compito importante è quello, scusate la terminologia militare, di “presidiare la piazza” in termini di presenza politica e culturale. Io e Carlo (Carlo Usai, il nostro banchiere ambulante, NdRufus) ci arrabbiamo sempre quando vediamo che in Sardegna si fanno convegni sulla finanza etica e chiamano la qualunque a parlarne, tutti tranne noi che finanza etica ne facciamo davvero. Non è perché ci teniamo a parlare in pubblico o perché vogliamo per forza mettere il bollino di Banca Etica nella locandina dei convegni. È perché siamo sensibili, come dicevo prima, al rischio dello svuotamento di significato delle nostre parole e alla possibilità che se ne impadroniscano altri che le travisano, per esempio istituti di credito molto poco raccomandabili che amano presentare benevole facce benefiche nelle occasioni pubbliche. È un tipo di travisamento dei termini che non si può permettere ed è necessario che i soci, anche a costo di apparire rompiscatole sul territorio, interpretino questo ruolo di contraddizione, di contrappunto politico alle varie celte che gli attori sociali compiono: il GAS che si costituisce, la MAG, dove tengono i loro soldi? Nella Banca col pelo sullo stomaco? Complimenti! E che senso ha? Quelli che fanno i convegni sull’economia verde, sulla sostenibilità… hanno davvero a cuore l’ambiente? O stanno facendo furbesche operazioni di greenwashing? Se è così, qualcuno lo deve dire pubblicamente… E anche loro, se sono sinceri, dove tengono i loro soldi? In una banca che finanzia magari produzioni non sostenibili, l’energia da combustibili fossili, i pesticidi?
Non si tratta di fare i Pierini o i primi della classe, ma di lavorare per ridare alle parole il loro senso onesto. Non è d’altra parte un compito che ci si deve assumere da soli, anzi – ed è questo il secondo livello di lavoro dei soci sul territorio – fa parte di un lavoro più ampio di costruzione di reti e di prospettive di collaborazione, anche per dare testimonianza della peculiarità della Banca, che fin dalla sua fondazione è una dimensione trasversale e di collaborazione fra realtà diverse. In questo senso ha ragione Antonello (Sechi, NdRufus) quando dice che ci sono tanti comitati di difesa del territorio da speculazioni e abusi, tante esperienze nascenti di economia di giustizia con cui dovremmo collaborare. Quel che temo però è che ciascuno di questi comitati o di esperienze si chiuda nella propria specifica esigenza: sono un comitato contro le trivelle, ma non mi preoccupo di sostenere i produttori biologici locali; sono un GAS, ma quel che mi interessa è una spesa più economica, l’uso che si fa dei miei soldi non mi riguarda; sono una MAG, e i soldi del mio fondo costitutivo li tengo alle Poste… certe volte l’assolutizzazione delle proprie posizioni, delle proprie esigenze che c’è nel nostro mondo mi fa pensare che oggi, al contrario di quindici anni fa, se dovessimo farla adesso la Banca non la faremmo, perché mancherebbe quella capacità di comprendere la necessità di mettersi assieme, quel senso della sfida oltre il mio particolare, quel senso di innovazione che ha portato a far nascere Banca Etica. Stringere legami, costruire i rapporti, superare i confini è invece l’alternativa, e se non lo fanno per primi i soci di Banca Etica, che provengono da tanti mondi diversi, chi lo deve fare?
Il terzo livello…
E qui mi sono reso conto che ero stato fin troppo prolisso e ho chiuso. Avrei parlato di coprogettazione, ma sarà per un’altra volta.
P.S. Le foto a commento di questo articolo risalgono a momenti diversi della vita della Banca, non all’assemblea della settimana scorsa.