Cose interessanti (e meno) a “Leggendo Metropolitano” (di festival – 3)
Sono tornato ieri con Maria Bonaria a Leggendo Metropolitano, dove l’anno scorso avevo sentito Bruce Sterling e Paolo Nespoli.
L’anno scorso c’ero capitato per caso, quest’anno mi sono studiato il programma in anticipo (e ne ho pure parlato nell’ultima puntata di Oggi parliamo di libri, che non ho però ancora pubblicato qui sul blog) e mi sono segnato un paio di cose interessanti.
Un elemento di attrazione aggiuntivo per me è rappresentato, quest’anno, dal fatto che il festival è dedicato, apparentemente, al tema del gioco. In realtà leggendo il programma ho l’impressione che la conoscenza e la comprensione del tema del gioco non sia proprio nelle corde degli organizzatori, e quindi di pertinente c’è abbastanza poco: ma l’ospite centrale di domenica è Stefano Bartezzaghi e già non è poco (8 giugno alle 22 al Bastione St. Remy, peccato che io sia impegnato con la mia festa di compleanno!).
Incontri consigliati dallo zio Rufus
Fra le altre cose che mi sono segnato e che mi sembra giusto segnalare (cercherò anch’io di farci un salto) c’è l’incontro col premio Nobel per l’economia Robert J. Aumann intervistato da Vittorio Pelligra (oggi 5 giugno al Teatro Civico di Castello alle 21), Fulvio Ervas il 6 giugno alle 18.30 al Chiostro della Facoltà di Architettura e Claudio Fava, purtroppo intervistato da Giorgio Pisano, alle ore 21.30 dello stesso giorno al Teatro Civico di Castello.
Di Bartezzaghi ho già detto, mentre sono combattuto se andare all’evento Imparare fuori dai canoni (anche) con il gioco (sabato 7 alle ore 18 al Chiostro di Architettura) e al successivo Playground! Perché giocare insieme salverà le città, a cui partecipa un componente di Stalker/Osservatorio nomade: a prescindere dall’interesse degli argomenti temo che l’impostazione con cui viene inteso il gioco possa non essere proprio la mia e temo di arrabbiarmi inutilmente.
Cosa è successo ieri
Ieri c’era l’evento di inaugurazione, un’intervista incrociata fra la scrittrice sudafricana Liesl Jobson e Alessando Diablo Spedicati dei Sikitikis, condotta da Anna Folli, una delle giornaliste col birignao più pronunciato che io abbia mai sentito parlare.
Forse influenzato dal tono della Folli, forse perché il gioco interno all’intervista prevedeva che la Jobson suonasse dei pezzi di Bach al controfagotto, forse perché il taglio dell’intervista – o l’accoppiamento un po’ peregrino degli ospiti – non andava mai a fondo, un po’ per mille altri motivi l’evento mi è parso confermare cose che già avevo creduto di Leggendo Metropolitano l’anno scorso: c’era un giro di persone che normalmente non attraversa la mia vita e che ti chiedi da dove salti fuori ed era tutto mooooolto colto, così colto che ti chiedi dove sia la vita vera e quando gli ospiti siano usciti dalla realtà a favore del recitare un personaggio precostituito: non che la Jobson non sembrasse disposta a ritornare in mezzo all’umanità – per esempio quando ha accennato al Sudafrica, ma non c’era mai una domanda che zavorrasse lei e Spedicati giù dall’iperuranio (e peraltro abbiamo anche sentito la Jobson dire che lo scrittore è tramite inconsapevole di ciò che scrive: la narrazione sceglie misteriosamente il narratore, che davvero conclusasi l’epoca romantica duecento anni fa sono cose che non si possono sentire).
E poi è arrivato Stefano Rumundu Cucca.
Stefano era arrivato a Cagliari di mattina, al termine del suo giro del mondo in bicicletta, e il festival con molta intelligenza ha offerto a chi c’era all’inaugurazione la possibilità di un incontro con lui come fuori programma.
Ricordo una volta di avere sentito qualcuno (forse Dario Fo) dire di Benigni agli inizi della carriera che la cosa straordinaria era come, semplicemente essendo se stesso, senza quasi dare l’aria di stare interpretando un personaggio, pure aveva un effetto straordinario. «Lui sta lì, quasi non apre bocca e l’architettura che lo circonda va in pezzi: una battuta e va giù un muro, una frasetta e casca un idolo sino a quel momento solidamente collocato sul piedistallo. E lui al centro della pioggia di rovine, come se nulla fosse».
Mentre ascoltavo Rumundu – in un’intervista anch’essa non impeccabile, forse perché messa su in fretta – riflettevo su un effetto uguale ma contrario: con estrema naturalezza Stefano raccontava della sua impresa (che è davvero straordinaria), come a dire: «Non è nulla». Ma mentre parlava la sua voce erigeva – come dire? – architetture possenti, archi di trionfo, strutture epiche. Un dono, credo, un incrocio notevole fra modestia e consapevolezza, o fra naturalezza e straordinarietà, molto più significativo delle cose, pure interessanti, che diceva sulla sostenibilità o sulla sua concezione di vita: un esempio interessante del prevalere della testimonianza sulla teoria, insomma.