Fatti coraggio, Moretti!
Mia madre (Nanni Moretti, Italia/Francia 2015)
Mentre guardavo Mia madre di Moretti mi chiedevo quando mai fosse diventato, Nanni, il cantore del disfacimento del tutto, il regista che gira e rigira intorno al senso di morte opprimente come metafora di un momento storico e del tramonto di un’epoca, di una cultura.
Non me n’ero in fondo mai accorto, ma dall’orgogliosa e fiduciosa rivendicazione: «Sono uno splendido quarantenne» a oggi (e, direi, dai girotondi in poi) qualcosa deve essersi rotto, perché Moretti si è messo a raccontare qualcos’altro.
Qui, svanito il senso finale di serena ricomposizione de La stanza del figlio, sparita la rivincita vitalistica di Caos calmo e anche i teneri cardinali di Habemus Papam non sembra proprio restare la minima traccia di apertura al futuro: si continua a vivere perché vivere si deve, immagazzinando man mano dolori e gioie, ma nulla sembra attenderci alla fine della strada: ci saranno momenti in cui si starà un po’ meglio, altri in cui si starà un po’ peggio e alla fine tutto passerà. Quel che conta, al limite, è fare la strada preservando quel tanto di dignità e di integrità personale che è possibile.
E quindi la prima riflessione che mi porta via da Mia madre è che il Moretti combattivo degli schiaffoni non esiste più:
Mi direte: ben arrivato, Roberto. Io comunque me ne sono accorto adesso, scusate. E adesso che ci penso, in mezzo agli altri film c’era anche Il caimano, e pure quello finiva piuttosto male.
In Mia madre una sceneggiatura a prova di bomba accompagna lo spettatore attraverso la malattia di Ada, un’anziana insegnante di latino e greco in pensione. La accudiscono i figli Giovanni e Margherita (che fa la regista ed è un alter ego appena mascherato di Moretti stesso) e la nipote Livia, ma tutto il film è visto principalmente attraverso gli occhi di Margherita. Sotto questo punto di vista il film non è tanto la storia della malattia di Ada quanto della crisi di Margherita, presa all’incrocio fra un film che non riesce a farsi, la malattia della madre, la recente separazione dal compagno e il fatto che la figlia attraversa un momento di sbandamento a scuola e non solo.
Mia madre medita dolorosamente sulla dissoluzione del mondo di due generazioni successive: nulla resterà probabilmente del latino – e con esso del tipo di sapere – che Ada ha coraggiosamente insegnato per anni e anni, se non forse nel ricordo degli ex alunni di un’insegnante attenta, comprensiva, e saggia; e molto poco sembra avere la possibilità di restare del cinema di impegno sociale di Margherita, attaccato dalla vuota retorica dei falsi amici e sempre più lontano dalla realtà che pretende invece di rappresentare con esattezza. Assente – o chiusa in un cinismo feroce – la generazione degli attori giovani con cui Margherita lavora resterebbe solo la generazione di Livia, ancora pura, si, ma che non sembra ancora pronta a prendersi carico di nulla.
Gira gira il film finisce quindi per ritornare, gioco forza, sulla malattia di Ada, che si fa metafora di ogni cosa e il cui racconto è la cosa migliore del film, grazie anche alla finezza di interpretazione di Giulia Lazzarini e alla cura dei particolari della sceneggiatura, che continuamente parla a chi ha vissuto situazioni simili e fa ricordare con immediatezza momenti, particolari e perfino odori e sapori. E tuttavia, per un film così carico di dolore inespresso, così fortemente metaforico e così problematico è sorprendente che non ci si commuova per davvero quasi mai. So di amici che si sono stancati, o si sono sentiti respinti: a me non è capitato e il film mi è rimasto dentro anche nei giorni successivi, ma mi rendo conto che se ne La stanza del figlio c’era una tensione trattenuta che aveva parecchi meriti artistici e che esprimeva anche una apprezzabile sobrietà nella trattazione del dolore, qui rimane invece l’impressione che manchi qualcosa, come una capacità di chiudere il cerchio e mettere in maniera appropriata la chiave di volta su tutta la costruzione: quasi che in fondo la decadenza non si possa nemmeno raccontare.