Non presentarti in quelle condizioni!
Oggi, mentre pensavo a cosa dire a Iglesias sabato prossimo e alle cosiddette best practice, mi sono ricordato di Milan Vidmar.
Milan Vidmar è stato un forte giocatore di scacchi (su Chessbase c’è una selezione delle sue partite migliori), un Grande Maestro austro-ungarico e poi jugoslavo noto a un tempo per il suo equilibrio e il piglio da gentiluomo (in un’epoca in cui i gentiluomini abbondavano attorno alla scacchiera) e per la sua forza di gioco: non fu mai campione del mondo perché incapace di raccogliere la cifra richiesta per organizzare una sfida con Capablanca, il campione regnante, ma fu costantemente per oltre un quarto di secolo uno dei più forti scacchisti del mondo.
Dev’essere per questa combinazione, del resto, oltre che per la sua nazionalità, che Vidmar fu chiamato a arbitrare il campionato del mondo che assegnò il titolo nel 1948 dopo la morte di Alekhine, un piccolo torneo fra i tre più forti giocatori occidentali (Euwe, Reshevsky e Fine, che rinunciò) e i tre migliori sovietici (Botvinnik, Smyslov e Keres). A scacchi l’arbitro deve essere forte quanto i giocatori e Vidmar, un campione mondiale virtuale rispettato da tutti e appartenente a un paese intermedio come la Jugoslavia, era il soggetto ideale.
Già, ma che c’entra con le best practice?
Beh, c’entra nel senso che mi sono ricordato di un piccolo episodio raccontato da Vidmar nel suo libro di memorie, Tempi d’oro negli scacchi (Vidmar è stato anche uno scrittore di pregio, sia nel campo della memorialistica che nel suo specifico campo tecnico, l’ingegneria elettromeccanica, nella quale pure ottenne grandi risultati).
Dunque, la storiella è questa. Dopo la Grande Guerra Vidmar si era tuffato a corpo morto nel lavoro: insegnava all’università ma soprattutto trasformava in brevetti industriali il frutto dei suoi studi; non era quindi particolarmente interessato agli scacchi e aveva smesso di allenarsi e di partecipare a tornei: del resto rimase un dilettante per tutta la sua vita. Non leggeva più nemmeno le riviste scacchistiche. Senonché gli giunse inaspettato l’invito a partecipare al torneo di Londra del 1922 e, così stimolato, decise di andare.
Poco dopo gli giunse una lettera dal suo amico Géza Maróczy, un altro Grande Maestro, un altro ingegnere, un altro ex suddito austro-ungarico, di origine ungherese.
Maróczy era un grande difensore (alcune sue partite su Chessbase), un ottimo insegnante e dopo essere stato ai vertici del mondo scacchistico nel primo decennio del XX secolo si era poi ritirato dalle competizioni per dedicarsi alla professione e, brevemente, alla politica. Agli inizi degli anni ’20 si stava riaffacciando anch’esso alle competizioni.
I due avevano molte cose in comune, erano amici e Maróczy era anch’egli in viaggio per Londra: il suo percorso passava per la Lubiana di Vidmar e chiese all’amico il permesso d visitarlo.
Dopo i consueti saluti e salamelecchi i due, essendo quello che erano, si misero a giocare a scacchi.
Vidmar aprì, come suo solito, muovendo di due passi il pedone davanti alla regina:
1. d2-d4
Maróczy rispose muovendo il cavallo dal lato di re:
1. … Cg8-f6
Qualunque scacchista moderno riconosce questa mossa come l’inizio di una difesa “indiana”, una famiglia di strategie di difesa del Nero di tipo posizionale, in cui le mosse di pedone vengono effettuate in un secondo tempo. A quel tempo le difese indiane erano venute di moda solo di recente e Maróczy che era un giocatore meticoloso doveva averle accuratamente studiate per il torneo.
Ma Vidmar, che non sapeva nulla, prese il cavallo, lo rimise al suo posto con una risata come se Maróczy avesse fatto una battuta, con uno sguardo che voleva dire: «Dai, Géza, molto spiritoso. Però adesso giochiamo seriamente, su».
Invece Maróczy cadde dalle nuvole. Rifece la mossa. E Vidmar iniziò a offendersi: «Mi prendete sotto gamba? Credete di potermi battere facendo mosse a caso?!».
Maróczy non credeva alle sue orecchie: “mosse a caso” le sue strategie accuratamente preparate? Nelle parole di Vidmar:
… si mise a urlare: «Dunque lei non conosce la nuova difesa nel gioco del pedone di regina?» mi domandò. E siccome io risposi che non la conoscevo, egli mi fece questa seconda domanda: «Insomma, non conosce nemmeno la difesa Alekhine?». Io confessai la mia ignoranza in proposito. Allora Maróczy: «E con queste nozioni di apertura lei intende andare a uno dei più importanti e difficili tornei di tutti i tempi, a Londra?». Stava letteralmente tuonando.
E già. Vidmar intendeva andarci. Non solo: ci andò e arrivò terzo nel torneo, che fu vinto dal campione mondiale Capablanca, il cubano, davanti al suo rivale principale, Alekhine. Vidmar giocò ottimamente e si piazzò subito dopo di loro (nel 1925, d’altra parte, arrivò primo ex aequo con Alekhine ad Hastings, ma forse nel frattempo aveva studiato le difese “indiane”).
Non solo. Sempre nelle parole di Vidmar:
Devo ancora aggiungere che fra i premiati non comparve a nessun livello il mio vecchio amico Maróczy. Le aperture non sono l’unico elemento del gioco: ce ne sono altri come l’energia con cui si gioca, la volontà di combattere e l’inventiva.
Maróczy ebbe ancora, per la verità, diversi successi negli anni ’20: probabilmente più per il suo stile solido e accurato che non per le aperture.
Bene, ma che cosa ha a che fare Vidmar con le best practice in campo sociale o economico?
Secondo me è evidente, ma magari lo spiego meglio domani (e sabato a Iglesias).