So’ tutti d’accordo, signora mia…
Vedo su Slate un articoletto interessante che a partire da casi apparentemente minori racconta come funziona all’interno dei meccanismi pubblicitari on line delle grandi aziende il posizionamento sulle questioni sociali di attualità e la codipendenza (non c’è altra parola) fra indignazione, attacco, reazione e acquisto finale di visibilità fra gli attivisti on line e le varie marche.
L’articolo è secondo me interessante perché segnala il fenomeno anche per le aziende che propongono campagne di impatto sociale progressista, laddove chi si lamenta appartiene a frange per esempio conservatrici considerate minoritarie (il caso contrario, la ricerca di visibilità attraverso campagne di minoranza di tono provocatorio che fanno infuriare la maggioranza dell’opinione pubblica è più intuitivo e forse conosciuto).
Una sola nota di contesto. In questo articolo chi protesta on line è definito troll: è l’ennesimo esempio di una caricaturizzazione dell’avversario che prevede che tutti coloro che si lamentano a gran voce sul web siano troll. In realtà il troll è un provocatore e un teppista informatico, e col caso in questione non c’entra niente: uno può comodamente essere omofobo, sessista, razzista o reazionario (oppure anti-sistema, partigiano, hacktivista, contestatore) ma non essere un troll e, fatti salvi i casi di legge, ha diritto alla sua opinione (secondo me anche oltre i casi di legge, ma questo è un altro discorso).
Per comodità di comprensione ho tenuto le foto dell’articolo originale e, anche se sono in inglese, i link. L’articolo originale è del 17 maggio.
Come le marche traggono il massimo profitto dai troll
di Ruth Graham
Quando bigotti fuori di testa attaccano campagne pubblicitarie progressiste, tutti vincono
Qualche settimana fa, Old Navy si è trovata nel mezzo di una sgradevole storia di razzismo e teppismo on line – il genere di rissa che sembra seriamente incongrua per un’azienda che fondamentalmente vuole solo vendere-merce-più-economica-di-Gap [la casa madre di Old Navy nonché un’altra catena che vende abiti, NdRufus]. Tutto è iniziato quando l’account ufficiale del rivenditore ha twittato l’annuncio di una vendita con sconto del 30%:
Non era la prima volta che un messaggio pubblicitario della Old Navy presentava una coppia mista. Ma questo ha attirato l’attenzione di un gruppetto di troll razzisti che hanno replicato usando hashtag come #whitegenocide e #miscegenation [rispettivamente “genocidio bianco” e, boh, “imbastardimento” direi che rende abbastanza, NdRufus].
La reazione-contro-la-reazione ha avuto inizio quasi immediatamente, quando molti utenti hanno iniziato a twittare foto delle loro famiglie miste. Il figlio di John McCain ha inviato una sua foto con la moglie di colore, entrambi in uniforme, e ha scritto a chi manifestava il suo odio di “ciucciarsela”.
L’episodio era il riferimento naturale per quei siti che campano sull’indignazione virale e sulle fonti di ispirazione. Si è partiti con elementi emotivi e di superiorità morale: Guardate quegli sporchi razzisti! È seguita una consolante scena di impegno: brava gente che usa tweet che scaldano il cuore per contrapporsi alle brutture! Il lieto fine si riassume dall’hashtag che molti hanno usato nei loro tweet: #lovewins. La Old Navy apparentemente non aveva orchestrato tutto il can can – non era una campagna pubblicitaria completa, solo una foto – ma sono stati ben contenti di sfruttare il trovarsi al centro della ribalta: «Noi siamo una marca che ha una orgogliosa storia di militanza per la diversità e l’inclusione», ha detto la portavoce Debbie Felix in una dichiarazione. «In Old Navy, tutti sono benvenuti». L’annuncio di vendita è stato rilanciato più di settemila volte, a confronto dei soliti dieci o venti di altri tweet da quell’account. La risposta di Jack McCain, che opportunamente comprendeva l’hashtag #OldNavy, è stata anche più popolare.
A questo punto si tratta di uno schema familiare: 1. Una marca dà implicitamente il proprio appoggio a una causa progressista di larga notorietà. 2. Piccole bande di mostri reagiscono in maniera prevedibile. 3. Gli Americani che la pensano come si deve si precipitano a stringersi attorno e difendere la marca. A volte il contraccolpo arriva da cretini allo sbando sui social media, altre volte da organizzazioni come il gruppo conservatore che si occupa di monitoraggio dei mezzi di comunicazione One million moms [“un milione di mamme”, una “organizzazione contro l’indecenza”, NdRufus], i cui sforzi recenti comprendono aver attaccato annuncio pubblicitari della zuppa Campbell e di Chobani per avere mostrato coppie gay. A prescindere da come si sviluppi il groviglio alla fine tutti vincono: i troll ottengono visibilità, quelli che rispondono ottengono la calda e morbida sensazione di combattere l’odio e la marca ne viene fuori con l’alone del combattente per la giustizia.
Quando i razzisti protestarono contro un delizioso video del 2013 dei Cheerios che presentava una famiglia mista, la marca chiuse la sezione dei commenti su YouTube per quanto erano sgradevoli le reazioni. Ma il passaparola fu senza alcun dubbio un vantaggio per la marca. Una ditta di marketing che analizzò le prestazioni on line della campagna scoprì che la visibilità complessiva on line dei Cheerios aumentò del 77% a seguito della polemica e che i Cheerios fecero a fettine gli avversari come gli Wheaties o i Rice Krispies in termini di visualizzazioni su YouTube, reti social e qualunque altra cosa sulla rete. Alla fine produssero uno spot pubblicitario con gli stessi attori per il Super Bowl che fece partire un ulteriore giro di reazioni positive.
Quando ho contattato una rappresentante dei Cheerios questa mi ha detto che non si aspettavano nessun contraccolpo, ma ha evitato di dire di più su come avevano progettato la campagna, si erano preparati per reazioni negative e orchestrato la loro risposta. Nel rispondere a sei domande per mail la rappresentante ha usato la frase: «Ci sono molti tipi di famiglie e noi rendiamo onore a tutte» per cinque volte. Sia messo agli atti che ci sono molti tipi di famiglie e Cheerios rende onore a tutte loro.
La vicenda dei Cheerios è di tre anni fa, ma sfida l’incredulità pensare che oggi i pubblicitari non si preparino a rispondere e a trarre ogni possibile vantaggio dagli attacchi dei troll alle loro campagne gentilmente progressiste. Nel 2014 la Honey Maid ha lanciato una intelligente campagna intitolata Questo è sano che presentava famiglie con due papà, una famiglia mista di militari e così via. «Non importa come cambiano le cose, ciò che ci rende sani non lo farà mai», diceva lo slogan. Puntate successive mostravano una famiglia allargata #nobroken [“intera”, ho tradotto con “allargata” il concetto di una famiglia con genitori con figli provenienti da precedenti matrimoni] e, questa primavera, una famiglia islamica che fa amicizia con i propri, inizialmente diffidenti, vicini non-islamici.
È facile provare un certo scetticismo circa il modo con il quale le marche stanno monetizzando e anche amplificando questi scoppi marginali della rete. Se il consiglio standard è quello di non dare da mangiare ai troll, perché dargli cereali e fette biscottate? Ma questo cinismo mancherebbe di cogliere un fatto sorprendente: è vantaggioso sostenere i matrimoni misti, l’amicizia interreligiosa o le coppie omosessuali. Pensate quanto sia radicale che le agenzie pubblicitarie principali – una roccaforte del conservatorismo nel vecchio senso della cautela – non solo non si traggano indietro dalla inclusione e dalla diversità, ma usino quei valori per vendere carabattole.
A proposito di campagne di questo tipo, questa notizia e’ di oggi, e coinvolge una azienda Italiana…
http://www.theguardian.com/world/2016/may/25/pegida-activists-protest-images-non-white-german-footballers-kinder
L’avevo vista e ho pensato lo stesso…