Genitori efficaci
Sto leggendo La pattuglia dell’alba di Don Winslow (Einaudi 2010, € 13) e lo trovo molto divertente – anzi divertentissimo – ma un po’ acerbo e non all’altezza dei precedenti Il potere del cane e L’inverno di Frankie Machine e del successivo Le belve.
C’è però un pezzo di gran classe che mette insieme in modo elegante la costruzione del personaggio principale e la sua caratterizzazione, la presentazione dell’ambiente che lo circonda e… la pedagogia, ed è per quest’ultimo aspetto che ve lo presento (e anche perché è una di quelle parti nelle quali la prosa di Winslow scintilla e il carico degli stereotipi e delle cose fuori dalle righe che altrove appesantiscono il libro non emerge).
Avete presente quelle future madri che passano il tempo ad ascoltare Mozart così da instillare nel proprio pargoletto il gusto delle cose belle della vita? La madre di Boone, Dee, andava a sedersi sulla spiaggia e si accarezzava il ventre al ritmo delle onde.
Prima di venire al mondo, Boone non poteva certo distinguere l’oceano dal battito del cuore di sua madre. Hang Twelve può anche riferirsi al mare come «Madre Oceano» ma per Boone lo è davvero. E, prima che il figlio toccasse il micidiale spartiacque dei due anni, Brett Daniels aveva già iniziato a piazzarselo davanti su una longboard per poi cavalcare l’onda dopo esserselo issato sulla spalla. A chi capitava di vederli per puro caso – ai turisti, per esempio – tutto questo faceva un effetto sconcertante, seguito il più delle volte dalla fatidica domanda: – E se ti cade?
– Ma neanche per sogno, – rispondeva Brett, padre di Boone.
Fino ai tre anni, beninteso, quando Brett iniziò volutamente a lasciarlo cadere in acqua – quella bassa e bianca di schiuma – per fargli prendere l’abitudine, per mettergli in testa che, a parte qualche bollicina dentro il naso, non poteva succedergli niente di male. Il bambino tornava a galla, ridacchiava come un matto e chiedeva al padre «di farlo di nuovo».
Di quando in quando, saltava fuori qualche rompiscatole a minacciare l’intervento della Protezione per l’Infanzia, ma Dee ribatteva: – Perché, cos’è che sta facendo mio marito, se non proteggere suo figlio?
Era la sacrosanta verità.
Se tiri su un bambino a Pacific Beach, e sai bene che il suo DNA lo spingerà prima o poi a salire su una tavola, tanto vale che gli insegni fin da subito di cosa è capace l’oceano. Meglio che glielo dici tu, come si fa a vivere – non certo a morire – nell’acqua, e meglio se glielo dici quand’è ancora piccolo. Se gli parli di frangenti di marea e di correnti di ritorno, se gli spieghi come non farsi prendere dal panico.
Proteggere suo figlio?
State a sentire. Quando Brett e Dee davano delle feste di compleanno nel giardino condominiale per tutti gli amichetti di Boone, Brett Daniels si piazzava a sedere sul bordo della piscina e diceva agli altri genitori: – Senza offesa, divertitevi, mangiate e bevete a volontà, ma io resto qui e non dico una parola a nessuno.
Così faceva, appostato sull’orlo della vasca piena di bambini, senza mai togliere gli occhi dal fondo della piscina, neanche per una frazione di secondo, perché sapeva benissimo che in superficie non sarebbe mai successo niente di grave, mentre i bambini sono capaci di annegare sul fondo di una vasca quando nessuno sta guardando.
E Brett guardava, altro che. Restava seduto lì per tutta la durata della festa, concentrato come un maestro Zen, fin quando anche l’ultimo bambino non era uscito tremante dall’acqua per avvolgersi in un asciugamano e precipitarsi a ingollare fette di pizza e bibite gassate. Soltanto allora se ne andava anche lui a mangiare qualcosa e a far salotto con gli altri genitori. In questo modo a quelle feste non vi furono mai tragedie irreparabili, né rimpianti destinati a durare in eterno («Ho voltato la schiena solo per qualche istante»).
La prima volta che Brett e Dee permisero al loro figlioletto (sette anni) di pagaiare da solo su una spiaggetta riparata e dal fondale sabbioso, passarono tutto il tempo col cuore in gola a occhieggiare come falchi, anche se sapevano che ogni bagnino sulla spiaggia e ogni surfista in acqua aveva gli occhi puntati sul giovane Boone Daniels, e che se qualcosa fosse andato storto un’intera squadra di soccorritori si sarebbe precipitata a tirarlo fuori dalla brodaglia.
Fu un momentaccio, ma Brett e Dee rimasero imperterriti a guardare Boone che si tirava su e cadeva, si rialzava e cadeva, si rimetteva in piedi e cadeva… poi si sdraiava sulla tavola per tornare indietro, ripartiva alla carica e tentava di nuovo e di nuovo fin quando non riuscì ad alzarsi una volta per tutte e non cadere più e cavalcare l’onda, mentre un’intera spiaggia faceva finta di essere lì per caso e di non accorgersi di nulla.
Fu ancora più tosta quando Boone raggiunse l’età – all’incirca sui dieci anni – in cui iniziò a volersi recare in spiaggia con i suoi amici ma senza mamma e papà a metterlo in imbarazzo. Non fu semplice lasciarlo andare e restare a casa a preoccuparsi, ma anche questo significava proteggere un figlio: proteggerlo da un’eterna fanciullezza, convincersi di aver fatto tutto il possibile, di avergli insegnato quel che era necessario sapere.
Per uscire anche dalla lacrimuccia, vi segnalo che prosegue:
Così, allo scoccare degli undici anni, Boone era diventato un classico gremmie.
Un gremmie è la vendetta della Natura.
Un gremmie, altrimenti detto grom, è un piccolo surfista dai capelli lunghi, scolorito dal sole, superabbronzato, preadolescente, nato per vivere in acqua, ma soprattutto un vero rompicoglioni.
L’immagine di copertina non è di Boone Daniels, ma di Patxi Babel, il protagonista dell’omonimo (ottimo) fumetto francese di Georges Abolin e Pierre Boisserie: ma si sa che i surfisti, nell’immaginario, si assomigliano tutti.
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