Storie che non capisco
Come molti appassionati di fumetti, ho aspettato con una certa trepidazione l’uscita della nuova collana Bonelli Le storie: alla gente della mia generazione fa effetto una pubblicità che annuncia che una nuova uscita si propone di raccogliere l’eredità di una serie ormai leggendaria come la collana Un uomo, un’avventura.
Territori già battuti
In realtà, credo che tutti sappiano che Un uomo, un’avventura è, semplicemente, irripetibile: perché negli anni ’70 la fantasia era molto più ingenua e l’idea salgariana di un lungo viaggio attorno al mondo e in tutte le epoche, in cui venisse proposta ogni volta la vicenda esemplare di un personaggio di fantasia collocato dentro eventi di grande portata, aveva un inimitabile fascino in sé. Oggi i territori della fantasia e dell’avventura sono stati ampiamente esplorati (e saccheggiati) in lungo e in largo, tutti siamo molto più scafati ed è molto più difficile proporre storie che aprano visuali inaspettate. Ma ugualmente l’idea di mettere 110 pagine a disposizione dei migliori disegnatori e sceneggiatori, non solo italiani, perché propongano una storia unica e (possibilmente) indimenticabile era di quelle da far venire l’acquolina in bocca.
Dubbi amletici
Dopo la seconda uscita delle Storie… sono perplesso.
Intendiamoci: non è il tarlo del dubbio che in fondo in fondo Saguaro sia una serie mediocre e tutto sommato una fregatura (che ci farei una malattia, se fosse così), né il dubbio che dietro la cura meticolosa della ricostruzione storica di Shangai Devil ci sia una storia che non va da nessuna parte e che si sistema solo con una bella battaglia finale. I primi due numeri delle Storie si collocano comunque in una fascia alta della produzione fumettistica. E però, per il momento, per me rimangono in fondo in fondo insoddifacenti, e insomma ho deciso di manifestare qui i miei dubbi per vedere se, fra un’altra mezza dozzina di numeri, potrò guardarmi indietro e pensare che ci avevo azzeccato oppure dichiarare l’errore e pentirmi amaramente della sottovalutazione.
Il boia di Parigi
E quindi dichiaro ufficialmente che l’albo di esordio, Il boia di Parigi, con protagonista il famoso boia della rivoluzione e del Terrore Sanson, ha un’idea di base della trama molto interessante (la sceneggiatura è di Paola Barbato) e alcune belle pennellate horror. Però, insomma, lo spunto è di quelli che negli anni ’80 della mia formazione fumettistica avrebbero costituito la base di un libero di Skorpio o Lanciostory: e lì sarebbe durato 16 tavole, non 110. È una misura della qualità della serie che in nessun momento della lettura si abbia la sensazione di un brodo allungato oltre misura, ma certo alla fine, apprezzata doverosamente la battuta e lo scioglimento finale, rimane una ben definita sensazione di incompletezza: E quindi? Tutto qui?! Sarà perché la parte horror e la parte politica non sono bene armonizzate fra loro, forse, e scivolano una da un lato e l’altra dall’altro, tenute insieme a fatica dal gigantesco (in tutti i sensi) personaggio del boia: del quale però, alla fine, sembra non rimanere nulla; oppure, detto in altro modo, la sua vendetta fa virare tutta la storia verso una riflessione su popoli ed eroi, governanti e potere, che non c’entra niente col fascino discreto della morte su cui si era ragionato fino a poche pagine prima.
O forse sono io che non sono all’altezza: lo dico seriamente, leggo recensioni entusiastiche da parte di appassionati ben più ferrati di me e rimango doppiamente perplesso. Non vorrei fare come quello che si era infilato contromano sull’autostrada, e credere che stanno sempre sbagliando gli altri. Però leggo che la resa grafica dell’albo, di Casertano (che è senz’altro un signor disegnatore e anche qui lo dimostra), è sontuosa, e continuo a rimanere perplesso: un paio di volte non sono riuscito a capire che un personaggio era lo stesso di un paio di pagine prima, il che non è mai un buon segno, e altre volte certe soluzioni non mi sono sembrate volutamente caricaturali, ma semplicemente poco riuscite. Sospetto che l’ansia di dare “colore” alla storia (vedi la tavola qui a fianco, molto forte), di enfatizzare il tono noir abbia portato a trascurare altri aspetti, altrettanto importanti. O forse la Barbato ha sbagliato a dare troppa lenza al disegnatore, e questi, nell’ansia di caricare la storia, ha occupato territori non suoi. O forse Barbato e Casertano si sono molto divertiti e entusiasmati e l’hanno voluto fare proprio così, e non si sono presi la briga di guardarsi dall’esterno. O forse sono io, davvero non so.
Citazionismo a go-go
Più sicuro mi sento sul giudizio su La redenzione del Samurai, di Roberto Recchioni (di cui spesso seguo il blog, trovandomi quasi sempre del tutto a metà d’accordo con lui) e disegnato da Andrea Accardi. Che è fuffa, disegnata magnificamente (qui non ho dubbi) e sceneggiata con piglio molto sicuro. Però fuffa: oltretutto tirata in lungo in maniera insopportabile: pagine di viaggi, pagine di combattimenti, pagine di dialoghi. Cioè, per carità: duelli, avventure, battaglie notturne, tradimenti eccetera eccetera. Una lettura piacevole. Solo che non c’è niente che non sia già visto, e si dimostra la verità del detto: copiare da uno è plagio, copiare da molti è… citare. Recchioni è un maestro del citazionismo, ma in John Doe, per esempio, lo trasformava in un modo intelligente per rileggere la letteratura popolare e altri media, dalla TV agli stessi fumetti, piazzandoci dei guizzi inaspettati e talvolta dei calci nello stomaco. Qui il citazionismo sfugge del tutto di mano, diventa fine a se stesso e alla fine onestamente il gioco non vale la candela – anche a me come a Recchioni piacciono i samurai, ma se devo farmi un’overdose tanto vale che mi legga o che mi riguardi gli originali. Che sarebbe gratis, oltretutto.
Ipotesi
Spero onestamente che Recchioni ci abbia guadagnato sontuosamente e che La redenzione del Samurai gli permetta di dedicarsi con più tranquillità a cose più personali come Asso (così come attendo con molta curiosità Davvero della Barbato).
Nel frattempo rimango moderatamente deluso dalle Storie: belle realizzazioni grafiche, storie zoppicanti. Può essere, ripeto per l’ennesima volta, che sia io ipercritico, però visto che ho iniziato a fare il saccente arrivo fino in fondo: secondo me il problema di queste due prime uscite è che, per quanto la cifra stilistica degli sceneggiatori sia evidente, sono troppo poco personali, troppo costruite a tavolino: come se la grande capacità della Bonelli di fare un lavoro professionale, di programmare e progettare giocasse contro di loro. Una collana come questa richiederebbe forse che ogni albo sia affidato a un unico autore – sceneggiatore e disegnatore insieme, per quanto sia una figura professionale sempre più rara – oppure a una accoppiata consolidata, alla Berardi & Milazzo dei bei tempi, non a due autori della scuderia accoppiati per l’occasione.
O forse vale il dubbio iniziale: i territori dell’avventura sono stati già tutti esplorati…
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