Io, papà e il calcio
Preavviso: roba totalmente personale,
L’altro giorno, guardando una delle partite del Mondiale (non saprei quale, sto seguendo la competizione a sprazzi), ho visto un contropiede e ho pensato: «Mi sa mi sa che con questi contropiedi poi li fregano». E ho sorriso.
Non perché il pensiero fosse particolarmente intelligente o l’azione di gran classe, ma perché è una frase di mio padre che corrisponde a un vecchio ricordo che ho di lui: è il ’68 o il ’69, siamo seduti sul divano di casa nostra davanti alla TV in bianco e nero e Facchetti ha appena orchestrato un contropiede, arenatosi ai confini dell’area di rigore. Il ricordo che ho da ragazzino, prima dei Mondiali del ’70, è che l’Italia di solito partiva sfavorita e ogni partita era una battaglia in condizioni improbe: il contrattacco bloccato era, per quel bambino, la prova di una inferiorità da cui non si riusciva ad uscire. E invece mio padre mi disse: «Sai invece che ti dico? Mi sa mi sa che l’Italia con questi contropiedi poi alla fine li frega». Aveva ragione, l’Italia vinse ed è un episodio che mi è rimasto impresso e certe volte, come l’altro giorno, lo cito a me stesso.
Sono, tacitamente, lezioni di vita che i padri danno ai figli e che ogni tanto ti ricordi, ma non è di questo che voglio parlare. Il fatto è che ricordando l’episodio mi è venuto in mente che è certamente un ricordo molto vecchio che ho di mio padre – dovevo avere cinque o sei anni – e da lì mi è venuto un pensiero traditore e un po’ amaro, e cioè di quante volte papà mi abbia parlato di calcio.
Naturalmente io e papà abbiamo avuto il calcio come passione in comune per molto tempo: ho fatto in tempo a vedere Riva all’Amsicora, quindi dovevo essere piccolino…
… questo articolo mi sta giocando scherzi alla memoria, vivificandola: ho improvvisamente il ricordo di finestrelle nel muro esterno dell’Amsicora da cui chi era rimasto chiuso fuori sbirciava la partita, e io sulle spalle di papà senza vederci nulla, e anche me stesso a casa di nonna che scrive su un quadernino la formazione del Cagliari dello scudetto…
… dicevo, l’Amsicora, il Cagliari, Gigi Riva, il signore col vino nella zucchetta che mi abbraccia e bacia nell’appena inaugurato Sant’Elia – toh, piccioccheddu – subito dopo un gol. La gente che grida arbitro cornuto, come raccontai tutto orgoglioso una volta tornato a casa. Non so quante volte sia andato effettivamente allo stadio – nella memoria sembra che fosse sempre – però ci andavo.
Ma quello che improvvisamente mi è venuto in mente è che papà mi parlava di calcio, anche più tardi. Un solo ricordo ne ha aperto moltissimi altri: per esempio, mi ricordo che vide di notte la partita inaugurale dei Mondiali in Argentina – era tardi, io dormivo – e la mattina dopo a colazione subito mi volle raccontare di quanto si fossero menati in campo. Quando l’Italia esordì contro la Francia io ero a casa e lui da mia nonna e dopo il primo gol francese mi telefonò apposta per annunciare la goleada – poi si sa come finì quell’anno. Ricordo una volta, credo al rientro in serie A del Cagliari, che si premurò di dirmi come aveva trovato ben organizzata la squadra vista in televisione – era il turno di una partita del Cagliari a andare in onda in TV, erano tempi diversi – e come sapesse uscire elegantemente dalla difesa. Un’altra volta insistette perché guardassi di sera tardi il replay del Milan di Sacchi e quel modo nuovo di giocare, di gestire le ripartenze. Ci sono anche altri episodi e insomma mi sono reso conto che non è solo che in casa si guardasse insieme il calcio, che è normale, ma che appunto mio padre, in tante occasioni, mi parlava di calcio.
È chiaro che ho tantissimi ricordi di mio padre, fra i quali questi del calcio sono una minoranza. I ricordi di cose che mio padre mi ha detto, però, soprattutto di cose che voleva dirmi, in realtà sono molti meno, e fra questi ho constatato con stupore che quelli del calcio non sono più tanto minoranza.
Ci sono rimasto male. Per esempio mi sono chiesto quanto a papà piacesse il calcio, e non lo so. Lo immagino, ma non ne abbiamo mai parlato specificamente, soprattutto perché gli piacesse, quanto ci fosse di immaginazioni, di sogni, di applicazioni alla vita. È la percezione dolceamara – qualche volta più amara che dolce, come in questo caso – delle persone che non ci sono più e alle quali non puoi più chiedere certe cose. Peggio, però, è che mi sono chiesto se quelle battute, ricorrenti lungo gli anni – il Milan di Sacchi è del 1987, io avevo già ventitré anni e non ero più un ragazzino – non fosse anche una strategia comunicativa, un modo per tenere aperto il dialogo con un figlio che, in fondo, in famiglia e con lui parlava sempre meno: un dubbio doloroso e, soprattutto, ormai irrisolvibile.