Cortesie impreviste sulle linee del CTM
Avviso: post ad alto contenuto di turpiloquio tipicamente cagliaritano.
No, il molente non compare. Ma è l’unico.
Cortesie mal comprese
L’altro giorno sono arrivato alla fermata dell’autobus per andare al lavoro senza avere fatto colazione. Vedo dalla paletta che mancano cinque minuti all’arrivo dell’8, mi tiro il paro e lo sparo come Montalbano, decido che il rischio di arrivare al lavoro senza caffè batte il rischio di perdere l’autobus e arrivare in ritardo e mi infilo nel bar a fianco alla fermata.
Quando esco, sazio e soddisfatto, vedo l’autobus già pronto a ripartire.
Merdamerdamerda.
Corro.
A dieci metri l’autista chiude la portina.
Nonononononononono. E sono solo a cinque metri, di slancio.
E la portina, miracolosamente, si riapre.
Salgo con un balzo e dico all’autista: «Grazie! Grazie tante!!».
Quello, che è girato a vedere se arrivano macchine mentre riparte, al suono della mia voce si volta di scatto e fa: «Cunnemammarua».
Io ci resto a bocca aperta, ovviamente. E non capisco questo suo strano sguardo che mi passa attraverso, come se fossi trasparente.
«Custa cazz’e portina, est’unavviia Crucis, esti. È sempre aperta». E molla una botta sul pulsante di chiusura della porta.
Io decido di fare lo splendido, anche perché penso che magari anche lui vuole uscire dall’imbarazzo per l’imprecazione. «Ah, quindi non ha riaperto per essere gentile con me, eh?», ridacchio con aria complice. «E io che l’ho anche ringraziata…». Eh eh, ammicco.
«‘ta cazzu gentile, sono sempre in ritardo con questa portina, vaffanculo».
Veri amici
Un paio di giorni dopo sono sul 5, immerso in This war of mine. Intorno e di fronte a me sono sedute un paio di persone anziane. Dietro di me, dall’altro lato del passaggio centrale, la periferia del mio cervello prende nota di un tizio che sta registrando a voce alta un messaggio vocale nel quale spiega che è praticamente scappato di casa perché c’ha gli operai che gli stanno scassando la cucina per una perdita d’acqua.
Vita dura. Così dura che evidentemente sente il bisogno di ripeterlo: dopo il messaggio vocale lo racconta in un’altra telefonata, e poi ancora. La cosa è così ripetuta che dalla periferia del cervello la sua voce si trasferisce direttamente in aperta campagna, molto molto lontano. Tanto il percorso del tubo è sempre quello.
Finché una sua bella risata, proprio di cuore, lo riporta alla mia coscienza. Intervallato da opportune pause per ascoltare l’interlocutore, il discorso fila via così:
«Ah, certo che la conosco».
«No, non è una delle mie amiche, per l’esattezza è amica dell’amica di una delle ragazze con cui vado a ballare».
«Ah, è così ti sei invaghito di Gaia?» (i nomi vengono cambiati per proteggere gli innocenti). E ride di cuore di nuovo.
A parte che ride, parla a voce altissima. Io e il signore anziano davanti a me teniamo risolutamente lo sguardo fisso, lui nel vuoto e io sul gioco. Altri due dall’altro lato sono impegnatissimi a guardarsi le mani.
«Cioè, non puoi capire: l’altra sera in discoteca come sono arrivato mi ha squadrato tutto dalla testa ai piedi».
«Cess, capito? Cioè, io ero anche ben messo, ero vestito così e cosà».
Avvincente, penso. Nel frattempo mi chiedo anche se Pavle potrà andare a cercare roba da mangiare all’incrocio dei cecchini. Non sono proprio concentrato. Però non possiamo non sentirlo.
«Allora me la sono portata nel privé, l’ho fatta bere e…».
Sguardi fissi nel vuoto, occupati a contare le dita o bloccati nel videogame rimangono accuratamente dove sono.
«… a un certo punto lei mi ha messo in mano…».
Ecco, meno male che non ha proseguito con: «l’ho fatta ubriacare» come temevo. Ma qui la trama si infittisce e mezzo autobus sta col fiato sospeso per quel che seguirà: cosa gli avrà mai messo in mano, lei, vecchi impiccioni che siamo?
«… il cellulare!».
Uff. Salvi.
«E mi ha detto: scrivimi il tuo numero di cellulare». E ride, felice.
Ok. Tutto regolare. Mezzo autobus trova di nuovo interessantissime le unghie, il vuoto e il videogame.
«Però non me la sono trombata, noooooo».
Il videogame mi aiuta, nell’occasione. Rimango immobile, falsamente indifferente. Giuro che invece i vecchietti si sono raddrizzati di scatto e che su di loro si è disegnata collettivamente una nuvoletta con scritto: «Ehilà, bonjour finesse».
Lui ride. «Nooooo, sono troppo inteulato, troppo. Cioè, al massimo le voglio troppo bene, come a un’amica, non fa».
«Ascolta, comunque ci vediamo, dai, assolutamente».
«Guarda, devi venire in discoteca una sera. Non sei mai venuto. Ti devo proprio portare in discoteca».
«Dai, davvero. Anzi, sai cosa ti dico? Magari quella sera organizzo con Mara e le dico di portare Gaia. Così magari te la fai tu, no?».