La guerra delle mutande
La settimana scorsa Victoria’s Secret è stata oggetto di una campagna di sabotaggio sul web molto ben concertata e di grande interesse, a opera di un gruppo di femministe americane.
L’oggetto del contendere la linea di intimo indirizzata alle giovanissime, PINK, che è caratterizzata da una serie di scritte che rappresentano un velato invito sessuale, sulla linea però del dico-non dico e che perciò costituiscono, questa l’accusa, un invito a una iniziativa maschile potenzialmente violenta, lasciando alla donna il solo ruolo di frutto da “cogliere”. La parodia messa in giro, con vere modelle, veri fotografi e un aspetto molto professionale, presentava una linea di mutande che invece portava stampati messaggi che inneggiavano alla ricerca del consenso della partner e al rispetto della volontà della donna.
Ora, io appartengo probabilmente a una generazione e una cultura per la quale quando si è in grado di leggere le scritte sulle mutande la situazione si è probabilmente già chiarita (e mi pare curiosa l’idea di uscire di casa la mattina con le mutande già predisposte all’evenienza – si vede che ho avuto una vita poco avventurosa), ma trovo comunque la campagna un buon esempio di comunicazione social sulla rete, non solo perché ha utilizzato largamente meccaniche virali, ma anche per il tipo di contenuto veicolato. È interessante anche la reazione rabbiosa di Victoria’s Secret, che la pone fra quelle aziende che rifiutano di ascoltare i propri consumatori (sul tema spero di recensire presto un libro interessante). E in ogni caso se è vero che lo stupro è un problema endemico nelle scuole e università americane e che una donna su quattro vi viene molestata, come ho letto su uno dei siti legati alla campagna, la parodia esce dal campo degli scherzi e il tema del consenso diventa una questione cruciale.
Per questi motivi mi è sembrato interessante descrivere la genesi e lo sviluppo della campagna come è stata raccontata su un sito di Baltimora, traducendovi qui sotto l’intervista, mentre vi consiglio anche di visitare il sito dell’organizzazione.
A corredo dell’articolo foto della campagna finta e della campagna vera. Le differenze, mi pare, si notano. Ho mantenuto i link citati nell’articolo originale, anche se fanno riferimento a siti in inglese. E ora, l’intervista…
La settimana scorsa internet ha scoperto con sconcerto e piacere che Victoria’ Secret aveva lanciato una nuova linea di intimo legato al tema del consenso. Invece di un tanga con la scritta “Botta sicura” (seguendo il titolo di un vecchio film traduco così l’inglese sure thing, che gergalmente allude alla certezza che una ragazza “ci sta”, NdRufus) le mutande recavano espressioni come: «no vuol dire no» e «prima chiedi». Cosa ancora più notevole la modella che le indossava era una donna di colore splendidamente morbida. «Io sono il primo a proclamare quanto odi VS, ma questo è fantastico», ha scritto un blogger – un sentimento ripetuto attraverso tutta la Tumblr/Facebook/Twitto-sfera. Ben presto, tuttavia, si è scoperto che la campagna era una sofisticata beffa architettata da un gruppo di femministe radicali di Baltimora. BFB (un giornale online di Baltimora, NdRufus) ha intervistato le nostre concittadine Hannah Brancato e Rebecca Nagle riguardo alle loro intenzioni e piani futuri – e riguardo alla reazione furente di Victoria’ Secret:
Questa intervista è stata corretta e riassunta (nota originale dell’intervistatore, NdRufus)
Come vi è venuta l’idea, e come l’avete realizzata?
Upsetting rape culture (Sconvolgere la cultura dello stupro, l’organizzazione a cui appartengono le due attiviste, NdRufus) è nato in realtà a Baltimora come una mostra di opere d’arte nel 2010. Dopo di quella volevamo continuare a impegnarci, così la cosa successiva che abbiamo fatto è stata una linea di intimo che si chiamava Il consenso è sexy. Finimmo per produrre una confezione da tre mutandine con un esemplare “No”, uno con “Si” e uno con “Forse”, che ci sembrava un modo simpatico di indossare ciò che corrispondeva al tuo sentimento del momento. Circa un mese dopo Victoria’s Secret lanciò una mutandina che riportava: “Si, no, forse”, ma tutto sullo stesso indumento. Invece di dire di si, di no oppure forse – e: «Decido io cosa avviene al mio corpo» – era qualcosa sul genere: «Si, no, forse, non saprei».
Così il “no”, invece di essere un modo per le ragazze di fissare un confine, era un modo di flirtare, cosa che ritengo faccia parte di quella comprensione che noi abbiamo nella nostra cultura che crea e perpetua lo stupro. Così per noi era qualcosa di, accidenti, terribilmente problematico. Così ci venne l’idea di fare una parodia della linea PINK di Victoria’s Secret e decidemmo di farla in contemporanea con la settimana della moda. Il modo adatto era usare i social media, dato che come individui questo era il modo migliore per ottenere un effetto massiccio e raggiungere molte persone.
Abbiamo lavorato con un meraviglioso web designer di nome Dan Staples, un fantastico fotografo come Philip Laubner (che ha anche fatto le foto della nostra linea SI, il consenso è sexy), un magnifico gruppo di modelle che sostengono il consenso e il progetto, due stilisti che si chiamano Michelle Faulkner e Darian Gavin, e qualche meraviglioso volontario. In aggiunta abbiamo reclutato un gruppo di circa cento persone che erano a conoscenza della beffa e che ci hanno aiutato a diffonderla su Twitter, Tumblr e Facebook. È stato assolutamente un lavoro di gruppo!
Perché Victoria’s Secret?
Combattere gli stupri sarebbe un riposizionamento importante per Victoria’s Secret. Sebbene siano un’azienda rivolta principalmente alle donne, non hanno mai preso posizione su nessun argomento di interesse femminile.
Di fatto il loro stile attuale sembra inclinare maggiormente verso la cultura dello stupro che verso il consenso. La loro linea PINK, indirizzata a ragazze di età scolare e universitaria, esibisce tanga con lo slogan “Botta sicura” stampato sul pube. Ci sono ragazze in tutto il paese che indossano mutandine con “botta sicura” letteralmente stampato sulla vagina. A noi viene in mente un caso in cui una vagina è trattata come una “botta sicura”: lo stupro.
PINK è specificamente indirizzato a ragazze via via più giovani, e come il resto di Victoria’s Secret, PINK vende un tipo preciso di sessualità. Esso ha cooptato l’idea di libertà sessuale e l’ha pervertita in un modello di sessualità in cui la donna (o ragazza) non ha effettivamente controllo. L’intimo “Botta sicura”, “Si, no, forse” o “Non sbirciare” promuove l’idea di una disponibilità senza limiti, oppure quella di lasciare la scelta al partner (presumibilmente maschio). La marca insegna alle ragazze a essere civettuole invece che esplicite e le fa sembrare poco alla moda e poco sexy se dicono di no con chiarezza. Rinforzando l’idea che il sesso è una questione di immagine, che apparire bene è meglio di sentirsi bene, PINK promuove la cultura dello stupro.
Che reazione vi aspettavate?
Avevamo pianificato strategicamente la campagna perché diventasse virale sui social media, e sapevamo che ci sarebbero state reazioni sia fra le ragazze che sono acquirenti di PINK e di prodotti simili e fra le femministe/attiviste che appoggiano l’interesse per il tema del consenso. Sapevamo che la base di consumatrici di PINK sarebbe stata colpita dal vedere una simile discussione vivace e reale sul sesso. Eravamo certe che molte donne sarebbero state colpite dal vedere promosso uno stile di sessualità differente e non remissivo. E lo sono state!
Sono sicura che molte persone che sono state contente di vedere la discussione svilupparsi in rete troveranno altri modi di continuare a parlarne e di promuovere il consenso. C’è stata una lunga discussione sul nostro diario di Facebook, man mano che qualcuno tentava di capire se il progetto era realmente di Victoria’s Secret, e si concludeva con: «Bene, se Victoria’s Secret non lo sta producendo e FORCE (l’organizzazione di riferimento di Upsetting rape culture, NdRufus) nemmeno, non ci rimane che produrcelo da sole!» e questa è la reazione migliore, e questo deriva dal fatto che questa è una campagna basata sui social media, dal basso. Con questa tattica un piccolo gruppo di artisti è stato capace di aprire questa discussione, e altri che ne avevano bisogno e l’hanno apprezzata troveranno il modo di mandare avanti la rivoluzione del consenso.
Quali sono state le vostre reazioni o risposte preferite?
Quando abbiamo lanciato la campagna e Jezebel non aveva ancora postato il suo articolo la pagina Facebook di Victoria’s Secret è stata invasa da messaggi con Io amo il consenso, giornalisti entusiasti nei campus hanno rilanciato pinklovesconsent.com e i “cuori rosa” di pinknation.com hanno dichiarato il loro apprezzamento per un “parlare esplicitamente di sesso”. Un impiegato ha mandato un tweet: «Sono così felice di lavorare per un’azienda che sta dalla parte di qualcosa di così bello!! @AmoIlConsenso #victoriassecret #amoilconsenso». Degli studenti delle superiori hanno twittato: «Mi piace il nuovo @AmoIlConsenso! Victoria’s Secret è diventata femminista!».
Una studentessa ha eloquentemente scritto sul suo blog: «Questa roba di PINK che sostiene il consenso mi fa impazzire. E le persone dicono che nulla può cambiare, che discutere e insegnare non ha effetto. Guardate quante persone riconsiderano le loro azioni quando un’azienda importante sostiene una causa. È maledettamente fantastico».
Come descrivereste la cultura dello stupro a qualcuno che non abbia mai sentito l’espressione prima?
La cultura dello stupro è costituita da quegli elementi che fanno sembrare lo stupro normale e che impediscono alle vittime di potersi esprimere. La cultura dello stupro è zittire. In una cultura dello stupro le persone sono circondate da immagini, linguaggi, leggi, e altri elementi quotidiani che convalidano e perpetuano lo stupro. Comprende le barzellette, la TV, la musica, la pubblicità, il gergo legale, le leggi, le parole e le immagini che rendono la violenza contro le donne e la coercizione sessuale sembrare così normali da far credere alla gente che lo stupro è inevitabile. Piuttosto che considerare la cultura dello stupro un problema da risolvere, le persone immerse in essa pensano che la persistenza dello stupro sia “giusto il modo come vanno le cose”.
È importante che i piccoli gruppi, i gruppi dal basso, alzino la voce e dicano ciò che li preoccupa. Quando le persone vedono immagini come quelle di Rape is rape (lo stupro è stupro, una campagna di pressione sull’FBI perché modifichi la sua definizione procedurale di stupro, NdRufus) o di PINK ama il consenso su un mezzo di comunicazione importante come Facebook, anche se non restano a lungo sull’immagine, questo li può aiutare a intuire la presenza della cultura dello stupro laddove era precedentemente invisibile. O li potrà ispirare a trasformare un’immagine, un’idea, in realtà. È roba importante perché dimostra che per quanto grandi siano le multinazionali, particolarmente nell’era di internet e dei social media, le persone hanno il potere di farsi sentire e di cambiare ciò che le opprime usando gli stessi strumenti. E possiamo addirittura essere più efficaci di loro.
Qual è stata la risposta di Victoria’s Secret?
Victoria’s Secret ha chiesto la chiusura del sito. Hanno contattato il nostro server, non noi direttamente. Questo è parte di quanto hanno scritto: «I registratari stanno usando i marchi Victoria’s Secret, PINK e il logo del cuore senza permesso, per creare confusione e promuovere i siti non a noi associati e non autorizzati pinklovesconsent.com e partywithpink.com». Il sito adesso è di nuovo visibile. È sicuramente nel nostro diritto, secondo il criterio dell’uso leale, poiché non stiamo vendendo niente e la campagna è una critica del marchio Victoria’s Secret. Sebbene sia stato spento brevemente giovedì notte, il sito è ancora in funzione!
In che modo gli strumenti legati ai social media aiutano (o danneggiano) campagne come la vostra? (e anche: perché/come mai Twitter ha bloccato @loveconsent – è legale?)
Durante la settimana della moda il riferimento Twitter della campagna, @loveconsent , è stato sospeso. L’utente è ancora bloccato e i suoi tweet sono scomparsi dai flussi di Twitter, compresi #loveconsent e #victoriassecret. In aggiunta un collegamento predisposto a pinklovesconsent.com per permettere ai visitatori di twittare: «Cara #victoriassecret io #amoilconsenso perché… è stato bloccato per la maggior parte della settimana. Twitter è stato contattato martedì notte da FORCE riguardo alla sospensione ma deve ancora rispondere. Gli organizzatori non sanno perché il loro account è stato sospeso. Il riferimento @loveconsent otteneva molti retweet e tweet popolari per l’hashtag #victoriassecret. Forse [Victoria’s Secret] si è lamentata. Abbiamo anche avuto notizia che non si può cercare la pagina su Facebook, che la si può solo trovare con un indirizzo diretto (facebook.com/heartconsent). Ci rendiamo conto che si tratta di un campo minato perché inizialmente noi fingevamo di essere Victoria’s Secret. Ma ora la cosa è allo scoperto. Su tutti i nostri account abbiamo twittato e scritto che si tratta di una parodia.
Nonostante i blocchi, sospensioni, tweet mancanti e ricerche a vuoto #loveconsent è diventato virale. Internet è piena di risposte positive e di sostegno per PINK ama il consenso. Forse la rivoluzione del consenso è iniziata, anche se è partita da una parodia e dalle mutande.
Il progetto si affidava completamente ai social media per diffondere il messaggio e aprire una discussione. Non avremmo mai potuto condurre questo progetto senza i social media; tuttavia la campagna avrebbe avrebbe potuto raggiungere ancora più persone se i nostri account non fossero stati bloccati. Sebbene l’idea dei social media sia radicalmente legata al concetto di diffusione e direzione da e per la gente, i network non sono del tutto liberi e neutrali.
Che cosa avete pianificato per il futuro?
Abbiamo qualche idea in testa, ma dovrete rimanere sintonizzati per saperne di più! Sicuramente penseremo di più ai ruoli di genere e giocheremo con modi diversi di diffondere le nostre idee nella sfera pubblica.
Come possono fare le persone a contattarvi?
Mandateci una mail e seguite online i nostri sforzi!
Avete in progetto di produrre o vendere realmente il vostro intimo?
Abbiamo effettivamente prodotto alcune mutandine per le sedute fotografiche e per una campagna nazionale di “sgancia le mutande” (panty drop, nello slang americano riferito a una canzone o un uomo di eccezionale bellezza, tale da sedurre immediatamente qualunque donna presente; sospetto nel caso specifico che sia una qualche forma di flashmob satirico, ma non ho avuto il tempo di approfondire; drop è anche il lancio col paracadute, NdRufus) che si sta svolgendo questa settimana. Sul nostro diario di Facebook segnaleremo ogni volta che un nuovo pacco sarà sganciato in una nuova città. Chi cerca trova!
Man mano che la campagna progrediva nella scorsa settimana, ci siamo chiesti: perché così tante donne amano una cosa che sanno che non è reale? FORCE ha prodotto qualcosa che la gente voleva, ma che una compagnia come Victoria’s Secret non gli avrebbe dato mai. Immaginiamo come sarebbero differenti le nostre vite se noi potessimo dedicare altrettanto tempo e idee nel condividere idee come il consenso di quanto ne impieghiamo a vendere mutande.
Per questa campagna è importante che i nostri servizi nel promuovere il consenso siano gratis, che è una delle tante cose che ci distingue da Victoria’s Secret. Noi promuoviamo il consenso e una discussione nazionale sull’argomento, non un prodotto.
In conclusione, noi pensiamo che la campagna PINK ama il consenso sia solo uno dei modi che contribuiscono a far finire la cultura dello stupro – vogliamo anche intraprendere altri progetti per sconvolgere e distruggere la cultura dello stupro partendo da altri punti di vista.