Fabbricarsi gli strumenti
Dopo il seminario primaverile sto cercando di approfondire il tema dei rapporti fra etica e videogame, anche dandomi a letture filosofiche che mi aiutino a sistematizzare le mie competenze sull’etica. È un tema al quale anche ai Fabbricastorie piacerebbe dare più spazio e magari inserire nel novero dei nostri interessi e attività principali, tanto più ora che parte il nostro Centro di sperimentazione di arti ludiche.
Come dite, non lo sapevate? Sapevatelo.
Però del Centro vi parlerò fra poco, quando staremo per aprire. Nel frattempo, dicevo, etica e videogame.
Il problema nel quale mi sono imbattuto è che più ci ragiono sopra e più mi rendo conto che si tratta di un campo nel quale non sono sicuro che quello che io considererei etico sia quello che altri si aspetterebbero che io pensassi (a scanso di equivoci, la mia posizione è sempre quella del seminario, con un po’ di enfasi in più sulle molestie sul luogo di lavoro e in generale nell’ambiente).
Una certa differenza di opinioni sui temi etici è normale e si può aspettarsela, però trovo che qui ci sia qualcosa di più. Intanto, mi trovo a disagio in un dibattito estremamente ideologicizzato, oltre ogni accettabilità. Per spiegarmi, e per proteggere gli innocenti, non parlerò direttamente di videogame ma userò la famosa storia del McDonald che vende il caffè tiepido per mettersi al riparo da possibili istanze di risarcimento nel caso che uno se lo rovesci addosso e si ustioni (non mi interessa se è vero o falso, mi serve per spiegarmi).
Ecco, entrare nel dibattito seguendo l’impostazione attuale vuol dire schierarsi obbligatoriamente o con quelli che non solo vogliono che il caffè sia una brodaglia tiepida, ma possibilmente anche decaffeinato, anzi meglio se orzo che non fa male al cuore, anzi forse ancora meglio il tasinanta nepalese dalle antiche proprietà curative, oppure in alternativa entrare nel branco di quelli che non solo vogliono potersi ustionare, se così gli va, ma troverebbero fantastico se col caffè invece del muffin ti dessero un fucile a pompa e, già che ci sei, lo potessi usare immediatamente per sparare al primo negro che passa.
A me invece piacerebbe poter parlare di etica come di un caffè caffè, fatto con tutti i crismi, da bere in un posto sano, pulito e giusto. È una posizione, temo, che nell’esempio che stiamo facendo non troverebbe d’accordo né gli uni né gli altri.
Oltretutto, in queste situazioni, vedo un sacco di gente accogliere senza nessun senso critico posizioni preconfezionate che passano di bocca in bocca e che vengono ripetute non solo per dimostrare di essere molto saputi, ma anche per certificare la propria appartenenza al gruppo. Siccome io sono un cane vecchio e continuo a ritenere corretto l’avvertimento di Brecht
Al momento di marciare
molti non sanno
che alla loro testa marcia il nemico
preferisco non mettermi a marciare dietro a nessun ideologo, che poi non sai mai dove finisce per portarti.
Oltretutto non è mai una buona cosa quando si confonde l’etica con l’ideologia perché si finisce per fare cattiva etica, e l’impressione è che nel settore i pozzi siano stati in buona parte avvelenati.
D’altra parte il problema, a chi si mette a ragionarci sopra da una visuale europea, è che il dibattito ideologico è totalmente americano, ed è influenzato da guerre culturali i cui confini spesso ci sembrano bizzarri o non del tutto comprensibili: gli americani dopotutto sono pur sempre quelli in grado di arrivare a litigare sulla Costituzione a partire da una cotoletta di pollo. E poi il nostro clima culturale inclina ancora, per esempio sul politicamente corretto, su posizioni mediane che in quel dibattito sono del tutto estromesse o silenti, per quanto probabilmente maggioritarie nel corpo sociale. Purtroppo, però, le dimensioni della presenza americana nell’industria e il ruolo in generale della cultura statunitense nel settore fa sì che sia praticamente impossibile astrarre da quelle posizioni e da quel complesso di impostazioni.
Per chi vuole ragionare sul rapporto fra etica e videogame si trovano in giro una quantità davvero enorme di casi concreti e di problemi reali che si propongono alla riflessione. Si trovano anche spezzoni interessanti di ragionamento. E zilioni di persone di buona volontà. Aldilà di questo, francamente, non mi sembra si possa andare.
Nei primi anni della rete, la comunità digitale è stata capace di forgiarsi i propri strumenti interpretativi dell’esperienza che stava vivendo e di darsi criteri normativi per la convivenza: ha esplorato le esigenze di autoregolamentazione delle comunità, si è interrogata sull’identità digitale in rapporto alla vita reale, ha scoperto l’esistenza dei troll e gli ha dato un nome, ha inventato la netiquette, e così via. Dalla costruzione di queste letture della realtà sono emerse petizioni etiche che hanno retto, sostanzialmente, fino all’epoca dei social e che anche oggi ancora reggono: dalla libertà di accesso alla rete alla (non) regolamentazione delle forme di espressione, dalla accessibilità alla condivisione delle informazioni.
L’impressione che ho è che la crescita vigorosa della presenza dei videogame nel contesto culturale globale non sia stata accompagnata da una riflessione simile, ma si sia limitata a importare categorie (e linee di fissione) da altri spazi del dibattito culturale, spesso anche soffermandosi su dimensioni che non sono specifiche dei videogame. Per esempio, si possono certamente fare ragionamenti critici sulla presenza di stereotipi sessisti, ma è un tipo di critica che, in sé, è uguale a quella che si può fare per il cinema o la letteratura. Dal punto di vista di modelli interpretativi tipici dei giochi siamo sempre al livello delle estetiche. Ci sarà una riflessione etica che invece si può posizionare nella impostazione delle meccaniche e delle dinamiche del gioco? Per esempio nello scambio di potere fra progettista del gioco e giocatore? O nella riusabilità? Ci sono dimensioni etiche tipiche dei giochi multigiocatore, nei rapporti che si stabiliscono in una esperienza condivisa? Le riflessioni sulle identità di genere in contesti intereattivi possono usare davvero le stesse categorie dei contesti di fruizione passiva? Sono domande interessanti, credo.
E quindi mi sto convincendo che ragionare (e lavorare) su un tema come etica e videogame, se non si vuole stare lì a litigare sulla temperatura del caffè, vuol dire che prima ancora di iniziare a ragionare sulle categorie di giudizio etico occorre costruirsi dei criteri interpretativi della realtà. Dare un nome alle cose, in molti casi, sfuggendo a categorie insoddisfacenti che oltretutto sono ormai rese tossiche da furiose guerre culturali.
Metto qui sotto le cose che mi sto segnando, alla rinfusa. Per quanto una ventina d’anni di impegno sul campo nella finanza etica e una vita intera spesa a giocare mi mettano in una discreta posizione per ragionare sull’argomento, in molti casi si tratta di problemi ben al di là delle mie capacità intellettuali. Però me le appunto, se non altro sperando che magari qualcuno più bravo sia in grado di risolverle. E in ogni caso sono riflessioni che credo mi accompagneranno nei prossimi due o tre anni, quindi tanto vale segnare il punto di partenza, a futura memoria.
Uno. Intanto, io partirei giustappunto dalle guerre culturali. Sarà possibile un progresso nella riflessione etica sui videogame se si sviluppa una riflessione pacifista sulle guerre culturali? Dopo tutto, l’esperienza insegna che in guerra la prima vittima è la verità. Fermo restando che le minacce di morte, le molestie on line e nella vita reale e la violenza sono sempre oltre il limite (e dovrebbero essere prontamente spostate dal campo etico al campo della repressione del crimine), si possono fare altri passi avanti, per esempio adottando un approccio crtico a quel tipo d progressione che va da differenza di opinioni all’anatema reciproco, alla scomunica, al boicottaggio, alla richiesta di eliminazione della presenza digitale, l’estensione della guerra ai potenziali alleati, le crociate collettive e così via? Quali sono le condizioni per definire, come i teologi medievali, un concetto di guerra giusta? Quali sono le armi di distruzione di massa che andrebbero vietate? Come autoregolare il conflitto fra sottocomunità all’interno della comunità più ampia di attori dell’industria? Che nomi diamo a flame così collettive? Che nome diamo a quelle che oltrepassano il limite (già, e qual è il limite?)? Che nome diamo alle ritorsioni? Quando sono da considerarsi sproporzionate? Ci sarebbe spazio per pratiche nonviolente sullo stile del metodo del consenso? Per discussioni partecipative?
Due. Un altro campo dove mancano i nomi adatti a definire le cose è quello della responsabilità. L’industria ha sostanzialmente importato la visione americana della corporate social responsibility, non solo nei contenuti (pari opportunità, ambiente, sostenibilità…), che pure peraltro spesso non sono adeguati a questo settore e, come dimostra il caso del crunch, magari tengono fuori della porta questioni molto importanti, ma soprattutto nella dimensione tipicamente americana della risarcibilità. La responsabilità è quando può esistere una chiamata di correo: in quel caso meglio troncare i rapporti per non essere trascinati in tribunale (o nei tribunali del popolo della rete), magari mettendo preventivamente un po’ di soldi benefici sul piatto. È una visione tutta giuridica della responsabilità che dal punto di vista etico (e spesso anche semplicemente morale) non è particolarmente soddisfacente. Ci sono assunzioni di responsabilità giuridiche che non sono etiche, e viceversa. Oltretutto, la sempre maggiore richiesta di assunzione di responsabilità sui contenuti dei giochi è un’arma controversa perché, come sappiamo, puzza di censura e rischia di essere a doppio taglio, dato che può comportare che prima o poi petizioni etiche di segno contrario vengano utilizzate per censurare contenuti, diciamo così, progressisti, oppure semplicemente controculturali: in un paese come l’Italia che ha sperimentato il massacro del contenuto culturale specifico dei cartoni animati giapponesi per proteggere i bambini da cattive influenze e che ha visto ultimamente trasformare le ONG da esempi di quasi-santità in trafficanti di schiavi, l’invito alla prudenza dovrebbe essere facilmente comprensibile.
Tre. Per togliere le pastoie alla riflessione etica, e sempre in tema di responsabilità, occorrerebbe anche fabbricarsi strumenti di giudizio sulla responsabilità nel campo della critica. La cornice, ovviamente, è che ognuno ha diritto di critica, che tutti i gusti sono gusti e che ognuno ha il diritto di mettere un cattivo giudizio (o anche uno buono) dappertutto. Dentro questa cornice, però, c’è differenza fra la critica professionale e quella dei semplici appassionati? Che responsabilità hanno gli uni e gli altri? Che riflessione si può fare sulle contiguità e sui potenziali conflitti di interesse? E andrebbe notato che ci sono possibili conflitti di intetesse non solo quando si è a favore, ma anche nelle contiguità che si costruiscono contro qualcuno. Oppure, per dire, se da una parte ci possono essere i grossi media del settore legati alle grandi case e quindi pregiudizialmente a favore delle triple A, magari c’è anche un’apertura di credito non giustificata a favore delle triple I. Non è che quello dei conflitti di interesse sia un campo inesplorato, tanto più per effetto del confronto con altri campi, ma ho l’impressione che nel settore se ne trovino in ambienti e situazioni piuttosto inaspettati. E, se è pacifico che la critica può tranquillamente arrivare alla stroncatura senza rimedio e magari anche alla flame, che giudizio dare delle situazioni nelle quali dalla stroncatura si passa alla proposta di eliminazione dal mercato dell’oggetto incriminato? Dovrebbe esserci una separazione fra chi fa critica e chi fa attivismo (o, nel caso di certe allegre teppe, squadrismo)? Oppure, è ammissibile che intere campagne critiche possano essere scatenate dall’unica critica dell’attivista Pinco Pallo? Premesso che non può essere che per giudicare un gioco debba servire la patente, che responsabilità etica c’è nell’atto di giudicare? Che differenza fra giudicare e accusare?
Quattro. Al fondo dietro questi primi tre punti c’è l’idea di chiedersi quando sia giusto entrare nello spazio altrui (probabilmente sempre) e quando sia corretto causare un danno (probabilmente mai). Per spiegarmi meglio: ho raccontato tempo fa la storia della telecamera di Shia LaBoeuf: se uno mette per strada una telecamera perché ci si possa andare e parlare male di Trump è perfettamente lecito andarci e parlarne bene; ma se insegui il povero Shia per mezza America per impedirgli di mettere la telecamera da qualunque parte, stai facendo squadrismo culturale. Per il mondo dei videogiochi vale lo stesso. Una buona riflessione etica aiuta a far crescere l’ambiente, a rafforzarlo, a renderlo più sano e a liberare spazi per tutti (meglio: per ciascuno), non a rendere l’ambiente tossico o invivibile per nessuno (o quasi nessuno). Vale per i comportamenti produttivi e aziendali, per le regole di relazione fra gli attori dell’ambiente, per i comportamenti nello varie comunità particolari e anche come giudizio sui giochi. Una buona critica etica del settore ha un giudizio negativo su tutte quelle situazioni che erigono steccati, che recintano ambienti, che facilitano espulsioni, che travalicano nel bigottismo, che rendono l’aria asfissiante. Giocare è, prima di tutto, un’esperienza appagante di tipo personale, ed è naturale che ciascuno cerchi di ripetere e incrementare quel tipo di appagamento, che non è necessariamente lo stesso per gli altri. Il problema è, come in altre situazioni, l’assolutizzazione del singolo punto di vista, che tende a ridurre gli spazi per i punti di vista altrui. Una buona etica, credo, deve avere una funzione liberante rispetto a tutto l’ambiente, nel senso che aiuta a scardinare le gabbie e a allargare gli spazi a disposizione, in modo che ce ne sia di più per tutti.
Cinque. Non ho usato l’aggettivo liberante, che mi appartiene per storia personale, a caso. Sto ragionando sul fatto che potrebbe essere un buon criterio di giudizio anche sulla stessa esperienza di gioco, sia in termini di gameplay che in termini più generali. L’esperienza di liberazione può essere di tanti tipi: dallo stress e dalle difficoltà della vita, come era abbastanza chiaro nel racconto dello sviluppatore di Crashlands, oppure dagli stereotipi e da esperienze limitate, o anche dai limiti – anche fisici – che magari ho finora sperimentato in altri giochi o dal fatto che sinora nessuno aveva raccontato in quel modo quella storia che non avevo mai potuto vivere. Il criterio della liberazione, vecchio cattocomunista che sono, mi sembra fruttuoso, ma certo declinarlo non è uno scherzo.
EDIT. Avevo deciso di non scrivere questo pezzo finale, ma poi ho cambiato idea.
Sei. Sette. Otto. Una cosa di cui mi sto convincendo abbastanza è che non si può lavorare su ragionamenti etici liberanti a proposito di videogame se non si mettono le mani in tre grovigli complicati.
Il primo è quello della cultura nerd. Ecco: finiamola con questa storia dei nerd. Davvero: basta. Un’operazione commerciale abilissima ha costruito (e falsificato) una intera realtà culturale dove prima non c’era costruendo recinti e appartenenze letteralmente dal nulla. Il problema è che ormai il concetto e tutto il vocabolario connesso è pervasivo e ha colonizzato l’immaginario, quindi siamo davvero nei guai. Ma dentro questo recinto manipolatorio e mercificante popolato di stereotipi e invenzioni pure e semplici non si possono fare ragionamenti etici, perché sono falsificati in partenza. Punto: non c’è altro da dire (e da fare), e quindi basta. Ribelliamoci. Smettiamola.
Secondo: occorrerà fare i conti con la totale mancanza di educazione sentimentale di almeno un paio di generazioni di giovani americani (e di molti europei), che rende ogni discussione che entri nel campo della sessualità, comprese quelle sugli abusi e le molestie, estremamente scivolosa. Tempo fa ho tradotto un articolo del New York Times che riportava una serie di racconti di studenti universitari su sesso e consenso. Chi lo legge si rende conto che è impossibile tagliare con l’accetta la nebbia (spesso alcolica). Eppure il tema, sia riguardo ai comportamenti personali degli attori dell’industria sia riguardo ai contenuti veicolati, è pervasivo ed è pervasiva la richiesta, in questa nebbia, di lavorare come se parlassimo di verità scolpite sulla pietra.
Terzo: magari prima o poi a sinistra andrà fatta anche una riflessione sull’antifascismo, e su come sia scivolato da un valore storicamente necessario ma non sufficiente (anche i badogliani erano antifascisti) a unica prospettiva politica. Prima che me lo diciate: bitch, please, so tutto sull’abbandono sostanziale della petizione antifascista da parte di larghi settori della DC nel dopoguerra, le peripezie dell’arco costituzionale, gli sdoganamenti di Berlusconi e quelli ultimi, che passo dopo passo hanno fatto sì che quello che è valore fondante della Repubblica sia rimasto, sostanzialmente, patrimonio di pochi (anche io) e quindi tanto più tenacemente attaccati al valore in una dimensione polarizzata, ma non è questo il punto. Va benissimo (cioè: è necessario) che alcuni scelgano l’antifascismo come punto centrale della loro azione culturale, come fa l’ANPI, altrimenti tutti gli altri potrebbero dimenticarsi del valore. Può essere necessario condurre una guerra informatica difensiva contro l’alt-right (anche se doxxing e schedature di massa pongono problemi etici non da poco). Ma poi, occorre una parte costruens, cioè una proposta politica con dei contenuti, un modello di società, delle proposte legislative, dei movimenti organizzati, e così via. Il problema è che una rappresentanza politica per quest’area, fuori della dimensione difensiva, non c’è o è debolissima, e in mancanza di pratiche vissute è debole anche la dimensione di elaborazione culturale, che spesso si agita dentro mentalità colonizzate esattamente dagli avversari e si accoda a processi politico-culturali eterodiretti: si parla ogni tanto – non so quanto a sproposito – del fascismo degli antifascisti, ma qualche volta dovremmo dirci che c’è anche un capitalismo degli anticapitalisti e chi segue gli ambienti della sinistra radicale se ne rende conto facilmente (non chevil comodo rifugio nel veteromarxismo di facciata sia meglio). Il tema mi appassiona da un punto di vista politico, com’è evidente, ma nell’ambito del punto specifico di questo articolo il problema mi pare che c’è nell’ambiente dichiaratamente antifascista una petizione etica fortissima rispetto ai giochi, alla quale poi però manca l’ossigeno e che finisce per chiudersi in dimensioni asfittiche (e talvolta asfissianti).