Fra Dashiell Hammett e la Rowlings…
… potrebbe esserci un ipotetico punto di equilibrio. Si potrebbe scrivere, cioè, un romanzo in cui un detective un po’ spiegazzato dalle vicende della vita, cinico e solitario, si aggira per la giungla d’asfalto, fra poliziotti tosti, criminali di mezza tacca, gangster pericolosi, biscazzieri e donne fatali, e risolve casi che, guarda guarda, non sono proprio normali ma sono… beh, mistici.
Se esiste al mondo uno scrittore capace di scrivere un romanzo del genere, e di scriverlo bene, questi non sembrerebbe essere Jim Butcher, almeno a giudicare da questo Storm Front.
Il problema mi pare questo: che occorrerebbe essere capaci di adottare uno stile di scrittura alla Hammett per raccontare una storia alla Harry Potter, mentre Butcher, per le storie del suo Harry Dresden, sceglie uno stile di scrittura come quello della Rowlings per raccontare una storia hard-boiled. E non è proprio la stessa cosa, proprio no.
Soprattutto nei primi capitoli Butcher tenta di adottare il tono autoironico, un po’ dolceamaro, che serve a definire il suo protagonista, il quale dopotutto è un eroe tradizionale, senza macchia e senza paura, ma non lo ammetterebbe mai e quindi si nasconde dietro una facciata di apparente cinismo. Ma il tono che Butcher riesce a realizzare vira pesantemente sul grottesco, e questo è un guaio.
Si potrebbe dire: «Ma che importa? Se il libro funziona, lo scrittore può adottare il tono che vuole, no?». No, non è così. Perché Storm Front fa del suo punto di forza il citazionismo. Come romanzo, non è originale, è tutto un rielaborare clichés strizzando l’occhio al lettore che dovrebbe riconoscere toni, personaggi e situazioni. In questo senso, se il tono è sbagliato, l’autore non sta mantenendo le premesse del gioco a cui ha invitato il lettore. Naturalmente, abbiamo il caso di Terry Pratchett, altro grande citazionista che del grottesco è un maestro ma i cui romanzi fantasy “funzionano” lo stesso; ma Pratchett è un caso diverso: dichiara di voler fare dell’ironia, e poi, piano piano, porta il lettore a riconoscere, dietro la facciata del grottesco, che i suoi personaggi non sono semplici burattini ma identità a tutto tondo, e, guarda caso, possono pure essere eroi e ci possiamo pure affezionare ad essi e tifare smodatamente per loro. Butcher, al contrario, il suo Harry Dresden, detective e mago praticante, lo tratta sul serio, terribilmente sul serio, fin dall’inizio. Quindi noi, seguendo il suggerimento dell’autore, vorremmo affezionarci e “credere” al personaggio, ma ne siamo trattenuti perché da come scrive proprio l’autore dimostra (dimostrerebbe), col tono narrativo che usa, che in fondo non è una cosa seria e non ci crede neppure lui.
C’è anche un altro problema: stiamo parlando di un romanzo fantasy, quindi un minimo di sospensione dell’incredulità è necessaria. Butcher evita (saggiamente) di dettagliare troppe cose sulla società magica di cui Harry Dresden fa parte. Meno cose si raccontano, meno domande si fa il lettore. Ma anche qui qualcosa stride nel tono del racconto, e rende un po’ più difficile lasciarsi trascinare dalla storia. In particolare è fastidioso l’episodio con il teschio/demone familiare di Harry; io onestamente non ho esperienza dell’essere un puro spirito rinchiuso per secoli in un vecchio teschio, ma avrei pensato a tratteggiare il demone in altro modo, e non come una barzelletta ambulante. Abbastanza simile è un lungo episodio di evocazione di un folletto (il detective della Continental pagava da bere ai suoi informatori, Harry usa le fate e paga… la pizza?!)
Se tutto questo è vero, perché gli ho dato comunque la sufficienza? Perché è una lettura leggera leggera, ma piacevole, e dalla metà del romanzo in poi, quando gli omicidi diventano più incalzanti, e Harry, come è richiesto dal genere, si trova circondato da tutte le parti e costretto a prendere su di sé il carico di una situazione che nessuno, né polizia umana, né il White Council che governa i maghi, possono e vogliono affrontare, il passo degli avvenimenti accelera e trascina il lettore con sé, aiutandolo a perdonare tanti difetti nell’attesa di vedere “come va a finire”, che è poi il piacere che tutti chiediamo a un romanzo come questo. La conclusione è bastevolmente pirotecnica e coinvolgente (più dalle parti del romanzo di avventura che del poliziesco, comunque) e quindi, tolta qualche macchinosità iniziale, alla fine la storia, bisogna dire, funziona.
Vorrei fare un’ultima considerazione su un mio vecchio pallino da commentatore del fantasy: è evidente che il pubblico a cui questo genere si rivolge sta attraversando l’ennesima mutazione genetica; dal giovane un po’ hippy del Signore degli Anelli ai giocatori di ruolo mediamente nerd della mia generazione (ebbene si) alle ragazzine innamorate dei vampiri come mia nipote. E beh, così scorre il fiume, oh to be young and playful again e così via. Comunque, in questa evoluzione genetica Butcher si schiera ancora con la posizione nerd tradizionale (il romanzo, comunque, è del 1998): un segno inequivocabile è che Harry si confronta non con una, non con due, ma con ben tre dark ladies, e una è anche una vampira (abbiamo poi la giornalista d’assalto col fisico da pin up e la… uhm, escort che durante l’interrogatorio lancia sottintesi sessuali con voce calda e insinuante). Il sogno di ogni adolescente della provincia americana, direi. Dice molto sulla convenzionalità di fondo di tutta l’operazione il fatto che tutte e tre siano brune (e, quindi, si suppone, peccaminose) mentre la dura poliziotta (anc’essa una sventola, parrebbe) affezionata e materna nei confronti di Harry sia bionda e molto wasp. Nel mondo di Harry Dresden, a quanto pare, gli uomini seducono le brune ma sposano le bionde.
Pubblicato su Anobii a ottobre 2010.