Gangster squad
Il giorno dopo aver visto Gangster squad ho fatto una prova con i Fabbricastorie: ho iniziato a raccontargli la storia e mi sono fermato al primo snodo importante. Ho chiesto secondo loro come proseguiva. Avuta la risposta (esatta) mi sono fermato al secondo snodo, con lo stesso tipo di domanda. Poi al terzo. Da lì in poi non ho avuto neanche bisogno di proseguire: mi hanno raccontato loro il film, senza averlo visto.
Dice: vabbe’, ma è un film di genere!
Si, però c’è un limite a tutto. Gangster squad è un remake non dichiarato di Gli intoccabili: una squadra speciale viene assemblata per incastrare un boss del crimine organizzato apparentemente intoccabile. Cambia il fondale (Los Angeles al posto di Chicago) e l’epoca (gli anni ’50 al posto degli anni ’20) ma il resto è identico, con l’abituale sequenza di costituzione della squadra, inizi disastrosi, ascesa e caduta e redenzione con regolamento di conti finale. E Sean Penn tenta di fare Mickey Cohen allo stesso modo di come De Niro faceva Capone, sopra le righe (e sbaglia clamorosamente: doveva farlo come faceva il gangster di Mystic River, lì davvero era indimenticabile).
Ha senso fare un film di questo tipo? Ma certo: dall’epoca del capolavoro di De Palma è cambiato il cinema, il linguaggio, il mondo, non è questo il problema. Il fatto è che Gangster squad non ha mai un guizzo, un attimo di personalità, un tocco individuale, e, nonostante il contributo di Gosling e Stapleton e, in misura minore, di Emma Stone, lievemente fuori parte, il film non decolla e non emoziona praticamente mai.
Persa la possibilità di concorrere per la categoria “filmone”, Gangster squad non riesce nemmeno a qualificarsi per quella “solido film di mestiere”, perché per questo ha troppe sbavature, abbondanza di buchi logici, un Brolin al cui confronto il volto di Clint Eastwood è un concentrato di mobilità espressiva e una sceneggiatura (di Will Beall, autore di Castle) veramente insufficiente, che sceglie di essere banale anche quando sarebbero disponibili soluzioni sì convenzionali ma almeno meno telefonate – il che condanna il film al girone infernale “occasioni sprecate”.
Considerato che mi pare una produzione di un certo peso, affidata alla stessa gente che ha fatto Sherlock Holmes, mi chiedo per quali misteri del sottobosco delle major succeda che un film che ha un cast di qualità e un evidente impegno economico venga affidato a un regista da videoclip come Fleischer e a uno sceneggiatore che non ha mai troppo frequentato questo genere. Misteri di Hollywood.
Così come è un mistero come in un ambiente produttivo da cui è uscito L.A. Confidential e in cui hanno lavorato o lavorano sceneggiatori come Ellroy, Chandler, Hammett o Winslow un film possa terminare con la frase: «E così fu che a Los Angeles non mise più piede la criminalità organizzata». Seee, come no.
Vedo su Wikipedia che Beall è lo sceneggiatore non di tutto Castle, ma delle varie puntate in cui si dipana la sottotrama dell’omicidio della madre di Beckett. Questo spiega molte cose! 😉
Leo Ortolani scrive una rece bellissima (che non dice poi cose diverse dalle mie)