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Di parole mi occupo

La riflessione qui sotto è di Beniamino Sidoti, un amico mio e dei Fabbricastorie, scrittore, editore, autore di giochi, formatore, organizzatore, giornalista: insomma uno che in tante vesti e per diversi motivi si è misurato con gli effetti della politica culturale del nostro Paese.

È un testo che condivido e che secondo me potrebbe essere scritto, identico, anche sul versante dell’economia sociale, ma di questo magari scriverò nei commenti, per non togliere lo spazio qui a Beniamino.

Di parole mi occupo, una riflessione su precarietà e stabilità, e la mancanza spietata di politiche culturali

di Beniamino Sidoti

Di parole mi occupo, non di politica.

Però me ne occupo da tanto tempo che, le parole, quelle, ormai le conosco. So quando nascondono e quando coprono, quando sono dolorose o quando servono per rimuovere.

Mi fanno ridere, certe parole. Ridere disperatamente.

Per esempio, due parole mi paiono stare lì, nell’anticamera del futuro, curve su se stesse. E sono stabilità e precariato. Buffo: sono parenti, e sono l’una il contrario dell’altra. Ché un equilibro, per dire, o è stabile, o è precario. Oppure è indifferente, è statica, mica politica.

Ma non mi occupo di fisica, o di statica, di parole mi occupo.

Allora, le parole del nostro paese, quando parlano di cultura, da un po’ di tempo a questa parte, non rimandano a ideali: no, ammiccano a equilibri. Parole come “effimero”, “di lunga durata”, “decadenza”, loro, quelle parole, tutte nell’anticamera.

Ed è successa una cosa strana: quando si è iniziato a parlare di statica economica, di artifici contabili per migliorare il bilancio, si è introdotta la soluzione del precariato – il personale si trova per ogni progetto, ma non si assume; gli spazi culturali (i teatri, le biblioteche) si aprono, ma facendo appalti. Io mi occupo di parole: ma mi aspettavo che l’amministrazione “amministrasse”, che il governo “governasse”, che qualcuno insomma pensasse alla direzione che si stava prendendo. No, da un certo punto in poi i servizi non si sono più progettati, ma solo “erogati”.

Come se cose importanti, che una biblioteca è importante in un paese, è il granaio dove si tengono le riserve per gli inverni individuali e collettivi, dove si costruisce il nostro futuro, mica lo si aspetta in anticamera; che un teatro è importante, un museo, una compagnia di danza, un monumento, è importante; come se queste cose importanti, dicevo, non fossero da gestire, o da pensare: ma solo da erogare.

Di parole mi occupo: ma temo che queste parole sciatte, casuali, che paiono tecniche, queste parole, abbiamo iniziato a usarle. Ma senza sapere che pensiero c’era dietro.

Ci siamo rimboccati le maniche in tanti, perché c’era da fare, e c’erano da fare cose che avevamo a cuore. Precari, instabili, lavoravamo.

E a un certo punto, tutto il sistema culturale pubblico si basava su convenzioni, appalti, persone che erogavano servizi. Tutto, sì: da qualche parte di più, da qualche altra parte di meno. Però ovunque.

E poi arrivava il patto di stabilità, o qualche altra cosa prima, o qualcos’altro dopo. E i soldi (che quelli, sì, si erogano, almeno dove le parole fanno il loro lavoro a tempo indeterminato), non c’erano più, e arrivavano dopo. E alcune cooperative si consorziavano, altre si indebitavano in modo più o meno lecito e legittimo. E i lavoratori venivano pagati un po’ meno, un po’ meno regolarmente, tirando avanti, rimboccandosi le maniche, perché c’era da fare.

Questo meccanismo, perché è un meccanismo, si sta inceppando, ovunque: basta che da qualche parte saltino i pagamenti per un po’; o che si blocchi una gara; o che la conseguenza di scelte contabilmente illegittime arrivi a bilancio. Succede qualcosa e le cose si bloccano. Patto di stabilità, precario, l’equilibrio crolla.

Adesso, siamo qui. Possiamo rimboccarci ancora una volta le maniche, e fare cose che abbiamo a cuore, e andare avanti – qualcuno perderà il posto di lavoro, qualcuno perderà qualche diritto, ma andremo ancora un po’ avanti. Oppure, potremmo chiedere che l’amministrazione amministri, che il governo governi: che le cose si facciano ridando ai lavoratori la dignità del loro futuro, e ridando alle città e ai paesi la cultura, nelle sue varie forme. O che, se la si toglie, lo si faccia con coraggio, dicendo che non è un problema di cassa, ma che si ha in mente altro.

Però io non mi occupo di politica, mi occupo di parole.

Vorrei che ci fosse una politica, e sento solo parole. Usate male.

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