Intervista a Jennifer Lawrence
Non so bene per quale misterioso motivo Flipboard mi abbia indirizzato ad una intervista a Jennifer Lawrence su Rolling Stone vecchia ormai di più di un anno, ma mi sono molto divertito a leggerla e ho trovato molto simpatica la Lawrence, che nel frattempo ha vinto un Oscar (e durante la cerimonia ha fatto un tombolo sulle scale: a quanto pare le capitano spesso episodi sfortunati in pubblico, visto che durante i Golden Globes le si era stracciata la gonna) ed è ormai lanciatissima fra le attrici giovani di Hollywood.
Può darsi, in effetti, che noi cinquantenni ci sentiamo inclini a trovare degne di attenzione giovani attrici graziose che hanno la sfortuna di continui incidenti in pubblico, soprattutto se sono eventi che le portano a scoprire le gambe (e che gambe), ma la Lawrence è davvero simpatica e la sua immagine di casinista di talento (che spero autentica, per quanto possono essere autentiche queste figure hollywodiane) “prende”: dopotutto il mondo del cinema attuale non offre molte attrici capaci di recitare ruoli drammatici (Un gelido inverno e Il lato positivo) o alternativamente mettersi il giubottino di cuoio e condurre rivoluzioni a colpi di arco e frecce (Hunger Games, ma ha anche recitato in un film degli X-men) e, fuori dello schermo, fare il dito ai fotografi dopo essere ruzzolate giù dalle scale dell’Oscar.
Insomma: c’era questa intervista a un personaggio interessante, che mi aveva divertito, e volevo farla leggere a mia nipote Michela, che è appassionata di Hunger Games; credevo che Rolling Stone la proponesse anche in italiano ma da nessuna parte sono riuscito a trovare la traduzione, così ho deciso di tradurla io, anche se è un po’ diversa dalle solite cose di questo blog – ma leggetela, merita (l’articolo originale è di Josh Eells: mentre traducevo l’intervista Eels ne ha fatto una simile a Miley Cyrus riciclando un po’ di cliché e contenuti, il che mi ha fatto scendere un po’ sia Eels che la Lawrence che la Cyrus. Ma Jennifer mi rimane simpatica e rimane l’attrice preferita di Michela, quindi ho finito la traduzione).
Jennifer Lawrence: la fidanzata (con gli artigli) d’America
Come la star degli Hunger Games è diventata la pollastra più di tendenza di Hollywood
«Amico!» dice Jennifer Lawrence al cellulare. «Mi sono fottutamente perduta! Sto girando in tondo da, tipo, dieci minuti. Dove cavolo è questo posto?». Sta cercando un allevamento di cavalli. Abbiamo progettato di fare una gita a cavallo nei canyon sopra Malibù, ma nessuno di noi due riesce a trovare il posto. Le dico di accostare e io la verrò a prendere.
La più talentuosa attrice giovane d’America è ferma in macchina in una stradina laterale sulla sua Volkswagen bianca, in jeans, una maglietta grigia e occhiali scuri di marca. I suoi capelli biondi (naturali) sono raccolti in una coda di cavallo approssimativa, e i gomiti spuntano dal finestrino aperto.
È famosa per interpretare giovani donne vulnerabili con volontà d’acciaio, come il suo ruolo in Un gelido inverno che le è valso una nomination all’Oscar, o come la Katniss Everdeen con arco e frecce in mano in Hunger Games, appena uscito. In questo momento la sua faccia è serissima.
«Ho un bisogno disperato di fare pipì».
Facciamo un po’ più di strada e troviamo la stalla, che, scopriamo, non è una stalla, ma solo un parcheggio in polvere rossa in cui è sistemato un rimorchio per il trasporto di cavalli. Lawrence salta fuori della VW e sparisce in un lampo, di corsa lungo la pista alla ricerca di un cespuglio. Due bellezze più o meno ventenni che stanno facendo hike in occhiali da sole e reggiseni sportivi, stra-tiro da podismo Sud California, hanno un sobbalzo mentre passa oltre. Non era…
Lawrence, ventunenne, ha uno stile tutto suo nel presentarsi. Woody Harrelson, il suo coprotagonista in Hunger Games, ricorda ancora il loro primo incontro. «Ero nella mia casa mobile», dice, «e nella mia casa mobile ho un’altalena per fare yoga. Jennifer arriva, e fa: «Ciao, Woody, io sono… ma quella è un’altalena per fare sesso?». Le sue prime parole con me».
Josh Hutcherson, anche lui in Hunger Games: «Quando sono stato accolto nel cast, mi ha chiamato per una di quelle telefonate da cinque minuti: «Molto lieta di lavorare con te blah blah blah». La conversazione è iniziata con lei che diveva: «Immaginati un catetere che… ahia!» e si è trasformata in una tirata di tre quarti d’ora sugli zombie e l’apocalisse».
E poi c’è Zoë Kravitz, che è comparsa con Lawrence in X-Men – L’inizio e che è una delle sue migliori amiche: «L’avevo incontrata un paio di volte, e lei era della serie: «Dovresti venire da me e così stiamo un po’ insieme in giro». Così vado a casa sua e lei apre la porta avvolta in un asciugamano. Ed è sul genere: «Vieni, scusa, sei in anticipo, stavo per fare la doccia». E molla l’asciugamano, entra nella doccia e comincia a radersi le gambe, completamente nuda. Lei era tipo: «Ci siamo ancora? Tutto a posto?» ed io ero più o meno: «Credo che ci siamo!» ».
Lawrence finisce di fare pipì a tempo di record («Sono la più veloce di sempre a fare pipì», mi dirà poi. «Sono famosa per questo») e comincia a dirigersi di nuovo giù per la pista. Ha avuto appena il tempo di abbottonarsi i jeans che le due escursioniste la fermano. «Mi dispiace disturbarla», dice una, «ma potrei avere il suo autografo? Mia nipote ha quindici anni. Sarebbe la cosa migliore di tutto l’anno per lei».
Le nipotine di quindici anni sono il debole di Lawrence in questo momento. La trilogia degli Hunger Games è la più grossa corazzata per adolescenti dai tempi di Twilight, con ventiquattro milioni di copie pubblicate. E siccome questa storia d’amore post-apocalittica piena d’azione piace sia ai ragazzi che alle ragazze gli esperti prevedono che il film farà approssimativamente un gazilione di dollari, con tre seguiti già in preparazione.
Di ritorno nel parcheggio incontriamo la nostra guida, Jasmin, che ci presenta le nostre cavalcature per la giornata. A Lawrence tocca una giumenta bianca che ha per nome Nay-Nay, che secondo Jasmin ha fatto un’apparizione in Band of brothers della HBO. «Oh!», le dice Lawrence accarezzandole il naso. «Sei famosa!».
Jasmin consegna assunzioni di responsabilità – Lawrence indica sua madre come contatto di emergenza – e caschetti, e io evoco l’immagine terrorizzante del fulcro dell’ultima impresa miliardaria di Hollywood che finisce a testa in giù in un crepaccio. Ma sparisce appena lei infila lo stivale nella staffa e, con un unico fluido movimento, salta in sella come una professionista.
La famiglia di Lawrence possedeva un allevamento di cavalli quando lei era ragazzina. Il suo primo cavallo è stato un pony femmina di nome Muffin: «Era carina», dice Lawrence, «ma era una piccola stronza cattiva». Dopo di lei fu promossa a una coppia di maschi, Dan e Brumby. «Quei due si odiavano l’un l’altro, ma poi un giorno ci fu una grande tempesta e passarono la notte stipati insieme nel granaio, e improvvisamente erano diventati inseparabili. La tensione sessuale infine si era sciolta». E infine venne Brandy. «Così tamarra», dice Lawrence, «è stato durante la mia fase bustino smanicato».
Iniziamo a risalire la pista, un’ascesa di seicento metri per le pendici delle montagne Santa Monica. Cavalchiamo oltre querce e salici e macchioni di arbusti costieri. Lawrence mi dice che non riesce spesso ad andare a cavallo a L.A. «Sono andata a cavallo una volta, in una qualche arena». Le chiedo come fosse. «Una specie di grande edificio», sogghigna, «con un tetto?». Saliamo un altro po’. «Vedo il culo del tuo cavallo», mi dice. «È sudato. Posso vedere gocciolare il sedere».
Parla molto del vomitare. Da poco è tornata a casa in Kentucky e ha preso una brutta influenza. «Ho vomitato dappertutto». Ha anche un ricordo vivido della volta che ha mangiato del salmone andato a male. «Ho vomitato per qualcosa come due giorni. Adesso ho una faida col salmone». Ma non vomita per il bere, almeno non più. «Lì ho imparato la mia lezione. Adesso mi fermo prima di svenire. In ogni caso quando è stata l’ultima volta che tu hai cacciato?».
Bradley Cooper, che ha finito da poco un film con Lawrence, dice che lei è «la persona che vuoi con te quando sei sul set alle quattro del mattino e stai per impazzire». «Può dire qualsiasi cosa», concorda Lenny Kravitz, co-protagonista di Hunger Games, «qualsiasi cosa» (racconta anche che lei insiste nel chiamarlo “signor Kravitz” perché è il papà di Zoë).
Lentamente ma sicuramente procediamo lungo una strada tortuosa fino alla cima del canyon. Adagiata davanti a noi c’è una vista in cinemascope dell’azzurro Pacifico, con le ville candide di Malibù sparse per le colline sotto di noi. Raggiungiamo un punto erboso e portiamo i cavalli al passo, e il mio inizia a brucare dell’erba. «Non lasciarglielo fare!», mi dice Lawrence. «Non gli fa bene, ha il morso in bocca».
Ma pochi minuti dopo mi volto e vedo Nay-Nay chinata, che mordicchia un cespuglio di salvia. Lawrence è adagiata sul suo collo, e le bisbiglia nell’orecchio.
«Ok», le dice. «Solo un pochino».
Una fredda mattina nel gennaio del 2011 Lawrence stava prendendo un tè in un elegante albergo di Manhattan. Mancavano pochi giorni al suo appuntamento con la cerimonia degli Oscar, ma era molto più interessata a un libro. «Sto leggendo The Hunger Games in questo momento», mi disse. Non vedeva l’ora di tornare nella sua stanza e finirlo. «Hanno intenzione di farne un adattamento», aggiunse. «Stanno per iniziare le audizioni e cose del genere».
Lawrence era appena arrivata da Londra, dove stava girando X-Men – L’inizio. Per il suo ruolo nei panni della mutante blu e talvolta-a-seno-nudo Mystique passava otto ore al giorno a farsi truccare e due a farsi struccare. Alla fine della produzione ha dovuto lottare per avere indietro la caparra del suo appartamento di Notting Hill perché aveva tinto di blu la vasca da bagno.
Non molto dopo ha incontrato per la prima volta il regista di Hunger Games Gary Ross. «Era vestita molto bene perché era la stagione degli Oscar», ricorda Ross. «È arrivata nel mio ufficio, con bicchieri di plastica e cartoni da asporto dappertutto, vestita da gran sera. Molte ragazze sarebbero state affascinate dall’idea di vestirsi per il ballo, ma Jen era più sul genere: «Puoi credere che mi tocchi mettermi quest’abito?». Le chiesi come stesse maneggiando il tutto. In tutta onestà mi rispose: «Mi sento come una bambola di stracci». Aveva addosso stilisti e truccatori dappertutto, che la infilavano in abiti strani e scarpe scomode. Era vicino alla perfezione, sembrò a Ross, perché per Katniss Everdeen è esattamente lo stesso.
Katiniss è l’eroina degli Hunger Games – una sedicenne decisa che è mortale con un arco in mano. Il libro è ambientato in un futuro distopico in cui l’America è stata sconvolta da ribellione e guerra, e dove ogni anno ventiquattro ragazzini da tutto il paese sono portati nella Capitale per competere in un reality. Gli vengono dati abiti sfarzosi e sono intervistati nell’ora di punta. E poi sono chiusi in un’arena e costretti a combattere fino alla morte.
Katiniss era il ruolo femminile a Hollywood più ricercato dai tempi di Lisbeth Salander di Uomini che odiano le donne (Lawrence ha fatto l’audizione anche per quello; ha ancora sul suo iPhone una foto di lei vestita in pelle coi piercing, «tutta darkeggiante al massimo»). Ma nella testa di Ross «non c’era molta competizione. Ricordo di avere lasciato l’appuntamento dicemdomi che sarei stato stupefatto se non avessi scelto quella ragazza».
Lawrence si sottopose a mesi di allenamento intensivo per il ruolo, comprendendo arrampicata e combattimento a mani nude. Ha avuto anche un istruttore di tiro con l’arco, un quattro volte olimpionico della Georgia («quella Georgia, non la nostra Georgia»), di nome Khatuna. «È fastidioso quanto dovesse essere perfetto. Se sbagliavi una sola cosa, venivi frustato» (dalla corda dell’arco, non da Khatuna). Ma il lavoro ha pagato: mi dice che adesso su dieci frecce può fare quattro o cinque centri perfetti. Ha ancora qualche freccia nella sua macchina. «Vuoi fare una prova adesso adesso?», scherza, «mi trovi un covone?».
Il film è stato girato in quattro mesi nei boschi vicino a Asheville, nella Carolina del Nord. Era di base una specie di campo estivo: c’erano scherzi, dormite in comune, perfino un salvadanaio per le parolacce per gli adulti che si lasciavano andare davanti ai bambini (Ross calcola che Lawrence abbia contribuito almeno per la metà: «E fantastica, ma impreca come un marinaio»). Una notte Lawrence ha festeggiato il suo ventunesimo compleanno con la troupe in un bar locale; un’altra notte tutti hanno dormito nella camera d’albergo di Lenny Kravitz. «Eravamo tutti stipati là dentro, a metterci gli abiti di Lenny, divertendoci un sacco», dice Harrelson. (Vuoi dire il suo guardaroba o proprio i suoi abiti? Harrelson: «È un po’ difficile tracciare una distinzione»).
Il film è una condanna della violenza come forma di intrattenimento, e Lawrence eccelle come ci si poteva aspettare. «Ho lavorato con attori stupefacenti», dice Ross, «e non ho mai visto quancuno con tanto talento grezzo. C’è un bacino di potenza emozionale che è stupefacente. Certe volte mi veniva da dirle: «Ma da dove vieni?» e lei mi rispondeva: «Sai, davvero non lo so». ».
Lawrence è stata una sorpresa fin dal principio. «Non ho mai compreso perché il mio soprannome era Giocare col fuoco finché non sono diventata grande. Ma i miei genitori hanno giocato col fuoco, e si sono bruciati» («Pensavamo che non avremmo più avuto bambini», ammette la mamma. «Avevamo anche eliminato il lettino e tutto quanto»).
È cresciuta in un quartiere per bene alla periferia di Louisville, in Kentucky. Il babbo, Gary, aveva un’impresa edile; la mamma, Karen, conduceva una struttura per campeggi estivi di nome Hi-ho (in italiano: ciao ciao). Jennifer era la prima femmina nata nella famiglia di suo padre da cinquant’anni, e i genitori la crebbero esattamente nello stesso modo dei due fratelli più grandi. «Non volevo che fosse una principessina», dice Karen Lawrence. «Non mi importava che fosse seduttiva, fin tanto che era dura». Jennifer era così dura che all’asilo non le veniva permesso di giocare con le altre bambine perché era troppo manesca. «Lei non voleva fargli male», dice la mamma, «È solo che loro facevano solo i biscottini, e lei voleva giocare col pallone».
Lawrence ha giocato a softball, hockey su prato e basket nella squadra maschile di cui suo padre era l’allenatore. Ma è stata anche per diversi anni una cheerleader (Scuola Media Kammerer: Forza Cuccioli!). Le chiedo se ricorda qualcuna delle mosse. «Certo», dice, poi scuote la testa: «Assolutamente no».
Alza gli occhi al cielo e mette le mani sui fianchi. «Non c’è, no, paura! [batte le mani] La partita non è ancora finita! [batte le mani]». Fa anche le mosse con i pugni e tutto il resto.
Quando aveva nove anni, Lawrence fu inserita in una recita di chiesa basata sul libro di Giona. Faceva una prostituta di Ninive e eclissò il resto dello spettacolo. «Le altre bambine se ne stavano semplicemente lì col loro rossetto», racconta la mamma, «ma lei entrò ancheggiando e esibendo la mercanzia. I nostri amici ci dicevano: «Non sappiamo se dobbiamo congratularci con voi o meno, perché vostra figlia è un’ottima prostituta» ».
Lawrence spese qualche altro anno fra recite parrocchiali e musical scolastici. Poi arrivò l’incontro casuale che cambiò tutto. A quattordici anni lei e sua madre visitarono New York nelle vacanze pasquali. Stavano guardando i ballerini di break dance a Union Square quando un signore con una macchina fotografica si avvicinò, gli disse che si occupava di cercare nuove fotomodelle e se poteva scattare qualche foto a Jen. Sembrava qualcosa preso di peso da un telefilm – ma invece era vero. Ben presto Lawrence aveva un agente e veniva convocata per audizioni.
Per mesi Lawrence implorò i suoi genitori di permetterle di trasferirsi a New York per dare una possibilità seria al fare l’attrice. Alla fine accettarono di concederle sei settimane. Sua mamma doveva lavorare al campeggio così il fratello Blaine, di diciannove anni, andò con lei. La loro prima notte in città mangiarono da Applebee in Times Square. Un’altra notte Jen chiamò casa dal suo appartamento di midtown per raccontare di aver visto un ratto “grande come Ombra” (Ombra era il loro gatto) strisciare fuori della stufa. Ma quando iniziò a assicurarsi dei lavori la madre si trasferì a New York, e sei settimane divennero un anno.
All’inizio fu dura. «Non avevo nessun amico. Mi ricordo di essere stata piuttosto sola». Seguiva le lezioni online dal loro appartamento, e si ricorda che i suoi genitori litigavano spesso. «Avrebbe potuto essere un altro pianeta», dice Karen. «I nostri amici pensavano che fossimo matti. Noi pensavamo di essere matti. Ma i suoi fratelli ci dissero: «Questo è il suo campo da baseball. Dovete lasciarla giocare» ».
«E poi», dice Lawrence, «la palla ha iniziato ad andare sempre a segno». Si assicurò una pubblicità della Verizon e conobbe il tizio del «Adesso riesci a sentirmi?» («Ero così affascinata»). Interpretò la figlia di una vittima in Cold Case e una mascotte di scuola in Monk («Penso che fosse un orso o un coguaro. Ho molto rispetto per le mascotte»). Girò una puntata di prova che non venne mai messa in onda, Non un altro show scolastico, in cui crede che il suo personaggio fosse “la ragazza con le tette” («Dovevo indossare un push-up. Papà non era proprio felice»). La storia migliore è quella della volta che fece un servizio fotografico per Abercrombie & Fitch. «Nessuna delle mie foto venne usata, e quando mio padre chiamò per chiedere come mai, ci spedirono i negativi – come a dire: ecco perché».
Da quel che si vede pare che il fotografo abbia messo tutti i ragazzini sulla spiaggia, gli abbia tirato una palla e gli abbia detto di giocare. «Tutte le altre ragazze fanno le carine, in posa di giocatrici di football» dice Lawrence. «Io sono paonazza, ho le narici dilatate e sono a mezz’aria, pronta a placcare questa ragazza, tipo: «Groar!!». Non sto neanche guardando in camera. Le altre ragazze avevano l’aria: «Toglietecela di dosso!» ».
Lawrence ha dichiarato che se i suoi genitori avessero saputo che lei avrebbe avuto successo, non l’avrebbero mai lasciata andare. «Pensavamo che sarebbe andata a New York e le avrebbero detto: «Chiuda bene la porta quando esce», dice Karen. «Se non fosse per il suo agente che mi è letteralmente saltato al collo, dicendomi: «Non capite, non ho mai visto una quattordicenne come lei», non ce l’avremmo fatta».
Lawrence ha pagato pegno per un po’, recitando in ruoli secondari in cose che non avete probabilmente mai visto, come un film con Charlize Theron intitolato Il confine della solitudine e una brutta sitcom della TBS con Bill Engvall (ha fatto anche le audizioni per Bella in Twilight e per il ruolo di Emma Stone in Suxbad: Tre menti sopra il pelo). Ha sfondato con Un gelido inverno, una storia di un omicidio cruda, gotica, ambientata sugli Ozark in territorio di distillatori di metanfetamine, dove gli uomini dicono alle donne cose come: «Ti ho già detto una volta di chiudere il becco, con la mia bocca». Lawrence interpretava una protagonista di diciassette anni dura come l’acciaio che si prendeva cura di un fratellino e una sorellina. Karen aveva letto il libro e le aveva detto che sarebbe stata perfetta, ma il regista la riteneva troppo carina. Così Lawrence saltò su un volo del mattino per New York, si fece tredici isolati a piedi sotto il nevischio e si presentò con il naso gocciolante e i capelli che nona veva lavato per una settimana. Ebbe la parte.
Passò un mese a girare il film nel Missouri, mentre frequentava anche una famiglia locale e imparava a sparare col fucile e a spaccare legna (in realtà sapeva già spaccare la legna: «Ho avuto una fase di spaccaggio di legna quando avevo nove o dieci anni»). Si annullò nel personaggio: denti gialli, labbra screpolate, un sacco di indumenti pesanti due o tre taglie più grandi. In una scena l’attore John Hawkes, che interpreta il suo temibile zio Teardrop, doveva afferrarle i capelli e prenderla per il collo. «Avevo sempre paura di farle male», dice, «ma lei ogni volta mi diceva di darci dentro». La scena più chiacchierata è quella in cui Lawrence deve letteralmente eviscerare uno scoiattolo per cena («Dovrei dire che non era reale, per PETA», dice. «Ma fanculo PETA»). «Credo che abbia gridato piuttosto a voce alta alla fine», fa Hawkes, «qualcosa come: «Non mangerò più spaghetti in vita mia». Non so se lei davvero non conosca la paura – ma è brava a fartelo credere».
Il film rese Lawrence una stella, sebbene esitante. Il giorno che furono annunciate le nomination per l’Oscar qualcuno scattò una foto a lei e alla sua famiglia propio nell’istante in cui veniva letto il suo nome. Lei dice che aveva una faccia: «Come se mi stessero mandando in galera». Zoë Kravitz racconta che adorava prenderla in giro: «Sei in gara con Natalie Portman, non hai la minima possibilità». E lei replicava: «Hai ragione, nessuna!» (Lenny però racconta di averla sorpresa nella biblioteca della sua casa di Parigi, mentre stringeva uno dei suoi Grammy e si esercitava in un discorso di ringraziamento).
Alla fine, non aveva la minima possibilità (per quanto, diciamolo: potrebbe Natalie Portman afferrare una manciata di scoiattolo morto e pronunciare la frase: «Ragazzi, li volete fritti o stufati?»). Ma anche senza vincere Lawrence lasciò sicuramente il segno sul red carpet, in un vestito rosso da bonona che era metà alta moda e metà Baywatch (il suo stilista dichiarò che avevano «lanciato una crociata per far tornare al mondo i capezzoli»). Era l’opposto di Un gelido inverno – pretenzioso e sexy. La cosa migliore è che appena quindici minuti prima Lawrence era nella sua camera d’albergo, a trangugiare una bistecca al formaggio nella ricetta tipica di Philadelphia.
«Jennifer non ha la minima traccia di arroganza», dichiara Harrelson. «Non prova a darsi nessun tipo di aria o a essere qualcuno che non è. Lei è proprio così. È esattamente una incredibile pischella del Kentucky che ce l’ha fatta».
«Hai fame?», mi chiede Lawrence. «Pe-erché io ho una intera storia di hamburgher-papatine-Budweiser in pieno svolgimento nella mia testa».
Siamo a Santa Monica adesso, dove Lawrence vive nello stesso appartamento da due camere da letto che divideva con sua madre. Sua madre si è trasferita, ma Lawrence ha un sacco di raduni notturni. «Facciamo veramente le sceme – al livello di Beavis & Butt-head», racconta Zoë Kravitz. «Mangiamo robaccia e guardiamo schifezze alla TV» – come Scare Tactics o Bad Girls Club [il primo è una candid camera con scherzi terrificanti, e il secondo un reality che mette in scena i litigi di sette ragazze dall’equilibrio instabile, NdRufus] – «e poi lei semplicemente si butta sul letto e si rannicchia come un cucciolo». A Lawrence piace, qui. È a due minuti di macchina da Whole Foods [una catena di cibo biologico, NdRufus] quindici minuti di bicicletta dalla spiaggia. «Ma dovrei traslocare», mi fa notare, «Il mio indirizzo è su Internet». Quando tornerà dall’aver girato il suo prossimo film, pensa di comprarsi una casa. «E un grosso cane. E un fucile a canne mozze».
Non riusciamo a trovare un ristorante aperto che serva birra, quindi ci accontentiamo di uno con una veranda e limonata («Se c’è una cosa che le persone dovranno capire da questo articolo», mi dice Lawrence, «è la mancanza di sostegno a chi vuol bere durante il giorno a L.A.»). Lei ordina un hamburgher, cottura media, e un pentolino di the alla menta – si sente un raffreddore in arrivo, e non vuole ammalarsi prima del grande giro promozionale. «Stamattina ero della serie: «È un raffreddore da niente», ma penso che stia peggiorando. È arrivata addirittura a provare il suo primo succo alla Los Angeles, una specie di «beverone di spinaci, carote e cavolo nero. L’ho assaggiato appena e subito ci ho versato dentro un mucchio di zucchero».
Più tardi facciamo una comparsa in un bar dall’altra parte della strada per una birra, e Lawrence fa un’altra incursione al gabinetto spaventosamente breve. Questa prende meno di un minuto. «Non faccio niente di extra», mi dice. «Non mi lavo le mani. Dopo la pipì? È un po’ melodrammatico». Si accalora molto su questo. «Alla scuola media ho condotto un esperimento su questo che quasi ha fatto chiudere la scuola. Avevo questa idea che il lavarsi le mani fosse sopravvalutato. Ed era vero: la porta del bagno aveva la stessa quantità di batteri del sedile del gabinetto, e il lavandino era la parte più sporca: era più sporco della maniglia del bagno! ne aveva un ammontare disgustoso».
Più tardi, Lawrence ha in progetto di cenare col suo ragazzo, il ventiduenne attore iglese Nicholas Hoult, conosciuto negli USA soprattutto per About a boy – Un ragazzo (faceva il ragazzo). Si sono incontrati sul set di X-Men, in cui Hoult interpretava la Bestia. Zoë Kravitz se ne accorse «un chilometro prima. Si competavano a vicenda nel modo più incredibile. Lei è pazza e impulsiva, e lui la tiene coi piedi per terra. E lei tiene lui in guardia ogni momento».
Jodie Foster, che ha diretto Lawrence in Mr. Beaver, fa notare che l’attrice è stata intelligente riguardo alla sua carriera. «Una delle grandi cose riguardo a Jen e che è stata molto selettiva», dice la Foster. «Di solito un ventunenne ottiene una parte e improvvisamente faranno qualunque filmaccio – una commedia romantica, un musical, una comparsata in un film di break dance. Non sanno ancora chi sono, così pensano di poter essere tutto. Ma lei è stata molto precisa riguardo a ciò che voleva fare».
Dopo gli Hunger Games Lawrence sarà la protagonista di una commedia nera intitolata Il lato positivo, diretta da David O. Russell. Interpreta l’innamorata di Bradley Cooper. «Era un ruolo molto ricercato», dice Cooper di un gruppo di finaliste che comprendeva Blake Lively, Kirsten Dunst, Rooney Mara e Anne Hathaway. «La chiamai e avemmo questa fantastica, del tutto lasciva. Pensai: «Oh, questa donna è perfetta» ». I due apprezzarono il lavorare insieme così tanto che hanno firmato isnieme per un altro film. Inizieranno a girarlo a Praga questo mese. Lawrence: «Conosco già una parola in ceco. Pivo – birra».
Lawrence sa che la sua vita sta per cambiare radicalmente. «Ho iniziato a sentire l’ansia, ultimamente», dice. «Ho iniziato a pulire come una matta. Sto subendo i miei primi paparazzi e roba del genere. L’altro giorno sono comparse qualcosa come ventincinque foto di me e Nick mentre giocavamo a pallacanestro, e mi sono detta: «Jennifer, devi cominciare a truccarti prima di andare a giocare a basket, perché sembri uno schifo». Da poco è stata anche avvicinata all’aereoporto da un fan particolarmente insistente che aveva guidato trecento miglia e comprato un biglietto d’aereo per la pura speranza di imbattersi in lei. Le ha detto: «Lo so che sembra pazzo». «Già», ha fatto lei, «lo sembri davvero. Ma ecco le tue foto».
Probabilmente diventerà sazia e annoiata, un giorno. Ma per il momento è ancora inebriata dalla sua vicinanza ai famosi, senza capire che lei stessa è famosa. Prendete Il lato positivo. Uno dei co-protagonisti di richiamo del film era Robert De Niro. L’ultimo giorno delle riprese voleva procurarsi un autografo per il padre, ma non sapeva bene come chiederlo. «Ero nella mia casa mobile, completamente disorientata: non volevo infastidirlo». Era stata lì seduta per un po’, in preda all’incertezza su cosa fare, quando improvvisamente bussano alla porta. Era la segretaria di De Niro. «Ti dispiacerebbe molto autografare un paio di cose per Bob?».
Pingback: Ringraziamenti annuali (i soliti, ma sinceri) | La casa di Roberto