Divagazioni sul “Prigioniero di Zenda”
Ho letto da poco Il prigioniero di Zenda, un classico dei romanzi di cappa e spada di fine ‘800. È molto divertente e stra-consigliato, ma non ne faccio una recensione perché ho deciso che me la giocherò questo inverno alla radio. Però mentre leggevo mi è venuta in mente una riflessione che consente di fare un collegamento colto, coltissimo, che mi permette anche di consigliare altri tre libri e che perciò vi ripropongo. Potremmo chiamarla…
Il prigioniero di Zenda e la crisi dell’istituto monarchico
Holmes e gli infami clienti illustri
In una delle più famose avventure di Sherlock Holmes, A scandal in Bohemia, l’investigatore cava dagli impicci un monarca in incognito appartenente alla casa sovrana di un qualche paese centroeuropeo non meglio identificato.
Per come va l’avventura è chiaro che le preferenze di Holmes e Watson vanno piuttosto a favore dell’avversaria del Re, Irene Adler, e non solo perché si tratta di un’avventuriera così abile e spregiudicata da essere in grado di battere il grande Sherlock Holmes al suo stesso gioco. Il fatto è che, una volta pagato tutto il rispetto dovuto a un tale augusto personaggio, dal punto di vista personale il Re si rivela piuttosto meschino e incapace di comportarsi secondo quei dettami d’onore che un gentiluomo vittoriano doveva considerare imprescindibili.
Anche in altre avventure di Sherlock Holmes c’è la stessa ambivalenza: il detective è lusingato che i suoi servizi siano richiesti da un indirizzo che denota antica nobiltà, come Abbey Grange, o che il cliente sia illustre come il Duca di Holdernesse. Ma le vicende che vengono scoperte in questi casi suscitano la freddezza sua e di Watson: violenze domestiche, adulteri, figli non riconosciuti, segreti inconfessabili e comportamenti poco onorevoli. Secondo Conan Doyle, insomma, l’istituto illustre (e forse necessario) della nobiltà richiede che molta polvere sia spazzata sotto il tappeto.
(Uno scandalo in Boemia fa parte della prima raccolta di storie di Conan Doyle, Le avventure di Sherlock Holmes. L’avventura di Abbey Grange e L’avventura della scuola del priorato sono nella raccolta Il ritorno di Sherlock Holmes. Ci sono mille edizioni, quindi non vale la pena di indicarne specificamente una).
L’invenzione della tradizione
Sono convinto che questa ambiguità testimoniata da Conan Doyle dipenda da un paio di cose che ricordo di aver letto nella famosa raccolta di saggi curata da Hobsbawm, L’invenzione della tradizione, quella dove si dimostra che gli scozzesi non hanno mai portato il kilt (e dove, uhm, il racconto di come nel Galles si sia inventato da zero tutto un ambaradan di false tradizioni celtiche ricorda in maniera irresistibile i percorsi attuali dei nazionalisti sardi, ma su questo lasciamo perdere).
David Cannadine, nel suo saggio sulla trasformazione della monarchia inglese nel XIX secolo, fa notare che con la Regina Vittoria il sovrano inglese smette di essere una figura personalmente importante, un attore direttamente impegnato nella politica e nel governo, per assumere un mero ruolo di rappresentanza dell’istituzione monarchica, una istituzione considerata necessaria per il mantenimento dell’Impero e, in definitiva, per il benessere degli inglesi. Come tale la Regina poteva essere oggetto di vera e propria venerazione… purché se ne stesse buona buona da parte. Sospetto che dovesse esserci, in questo senso, una differenza sostanziale nell’atteggiamento deferente del popolano, che vedeva la Regina solo da lontano, in occasioni formali e nel pieno della sua maestà (carrozze, sfilate e cavalli), e il gentiluomo beneducato che magari poteva avere avuto occasione di conoscere direttamente la donnetta isterica, o di trattare con altri che ci avevano avuto direttamente a che fare.
Se vivente la Regina doveva prevalere in tutti il sentimento di rispetto, all’epoca di Conan Doyle la seconda sensazione doveva aver fatto più strada. È un po’ lo stesso atteggiamento di Holmes: grande rispetto per la nobiltà come istituzione, meno per i nobili in carne e ossa.
(L’invenzione della tradizione, a cura di Hobsbawm e Ranger, è pubblicato da Einaudi).
Gentiluomini per educazione
Nella stessa raccolta di saggi ce n’è anche uno di Terence Ranger dedicato allo straordinario esperimento degli inglesi, che radunarono per anni nella scuola del King’s College sulla collina sacra dei Baganda i figli degli aristocartici africani loro soggetti per impartirgli un’educazione all’inglese e farne dei veri gentiluomini secondo il loro cuore – in modo che potessero trovare una propria posizione dentro il quadro imperiale, contribuendo al governo delle colonie. All’epoca di Jane Austen, agli inizi dell’800, la cosa sarebbe stata impensabile: allora la nobiltà, l’essere cioè dei “gentili uomini”, dipendeva totalmente da criteri di nascita – o eri un gentiluomo di sangue o, per dirla come Manzoni, eri un vile meccanico. Alla fine dell’800 però si andava sostituendo all’idea di una nobiltà basata sul sangue quello di una nobiltà basata sull’educazione: per dirla all’inglese dal concetto di well-born (nato bene) a quello di well-bred (ben allevato).
Ci saranno millanta libri in cui questa idea salta fuori con chiarezza, ma a me sembra esposta in maniera chiarissima in un altro piccolo classico dell’avventura, L’enigma delle sabbie di Erskine Childers, in cui due giovanotti inglesi, di nascita non nobile e non particolarmente benestanti ma che si sono conosciuti a Oxford, nel tempio per antonomasia della buona educazione, si trovano a vivere una complicata storia di spionaggio. Durante tutto il romanzo, che è del 1903 e quindi quasi coevo alle storie di Conan Doyle, quello che emerge è una solidarietà fra i due giovani che è basata sull’antico legame in comune di avere studiato insieme, pari, se non più forte, a quella che in altre epoche sarebbe stato un legame basato su alleanze familiari o geografiche. Del resto in mille film o romanzi abbiamo sentito il protagonista dire qualcosa come: «Ah, si, il piccolo Carruthers. Lo ricordo bene: era due anni dopo di me al college. Good chap».
(L’enigma delle sabbie, di Erskine Childers, è pubblicato dalla casa editrice Lantana. Se non vi basta la mia raccomandazione sappiate che Bjorn Larsson, quello de La vera storia del pirata Long John Silver, ne parla molto bene. Nel 1973 ne hanno anche tratto un bel film con Michael York).
Il prigioniero di Zenda
Alla fin fine cosa c’entra tutto questo con Il prigioniero di Zenda e col suo seguito Rupert di Hentzau?
Il fatto è che il romanzo, a parte le godibili vicende di cappa e spada e la presenza di un cattivo di grandissima qualità come Rupert di Hentzau, è tutto basato sul tema del doppio, Re Rudolf e il suo sosia inglese Rudolf Rassendyll – che è di antica nobiltà perché è richiesto dalla trama (ma è una nobiltà minore) ma soprattutto è innegabilmente un gentiluomo: per educazione, per sentimenti, per senso dell’onore. In questo gioco di specchi il Re, ancora una volta, si rivela più meschino, imbelle e sgradevole del suo corrispettivo – esattamente come il Re di Scandalo in Boemia.
Insomma, da assoluto dilettante, la mia teoria sarebbe che Conan Doyle e Anthony Hope ci rivelano, in mezzo alle vicende avventurose di cui scrivono, qualcosa di come i loro contemporanei consideravano l’istituto monarchico; e che una chiave interpretativa del genere di romanzi d’avventura ambientati in posti esotici come la Ruritania del Prigioniero di Zenda – genere che venne chiamato appunto Ruritarian romance – è quella che offrivano al pubblico, sotto la patina apparentemente rispettosa di storie in cui si combatte e si affrontano rischi per il bene della monarchia e la sacra persona del monarca, degli schemi interpretativi in cui si suggerisce che, insomma, forse ormai il sangue blu si è fatto troppo tenue e di tutta questa paccottiglia possiamo farne a meno. Non in Inghilterra, certo, ma in Ruritania, forse…
In realtà la cosa sarebbe un pochetto più complicata, perché in tutti questi romanzi c’è sempre un esponente della monarchia che rimane sempre al di sopra di ogni possibile critica, ed è, manco a dirlo, la principessa (nel Prigioniero di Zenda si chiama Flavia, è bella, buona e indurrebbe chiunque a dare la vita per lei e il bene della monarchia).
In un mondo di uomini come quelli che scrivevano questi romanzi, il robusto sangue plebeo può comunque aspirare a ottenere qualcosa, dalle esangui famiglie reali: la mano di una splendida principessa, sogno (quasi) irraggiungibile. O forse si può pensare che la monarchia in crisi può ancora recuperare un minimo di credibilità affidandosi alla figura affascinante della bella principessa. Carolina di Monaco, insomma, o Kate Middleton, a seconda di come si considera la faccenda. Comunque la si consideri, si vede che funziona: dopotutto mia nipote, più di cent’anni dopo la pubblicazione di questi libri, alla domanda: «Cosa vuoi fare da grande?», risponde: «La principessa».
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