Per NON parlare di Lipperini-Manni
Se non sapete niente della storia Lipperini-Manni, cercate su Google o guardate qui oppure qui per delle introduzioni che reputo mediamente equilibrate. Se ne è parlato anche su Anobii su qualche gruppo dedicato al fantasy; siccome il tema mi stimolava ma non volevo entrare nel pro/contro, ho aperto una discussione per conto mio, di cui questo è il post introduttivo. L’argomento è abbastanza settoriale (politiche editoriali nel fantasy italiano) ma ci sono alcune cose più generali. L’articolo fa riferimento a quanto scritto nei suddetti gruppi dedicati al fantasy, ma si capisce il contesto; l’unica cosa poco chiara è il “bollino SIAE”, ma è spiegato in uno dei link postati sopra.
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Vorrei provare a proporre alcune riflessioni su tutta la vicenda, spero in modo pacato. Se sarò bravissimo riuscirò anche a non citare mai direttamente né la Manni né la Lipperini: infatti non ho mai letto la prima e molto poco la seconda e non è tanto il caso diretto a interessarmi, quanto che cosa possa indicare in termini generali di mercato editoriale, rapporti sui social network, il destino della rete, l’Universo e tutto quanto. Mi scuso se sarò lungo: probabilmente Anobii non è proprio il luogo più adatto per un certo tipo di articoli, ma d’altra parte la discussione… è iniziata qui, e non ho altro posto dove scrivere.
Sono stato anche stimolato da diverse argomentazioni presentate nel thread originale, e partirò proprio da una di queste.
«C’è chi legge libri e chi i bollini SIAE»
A un primo livello elementare di fruizione la lettura di un libro non richiede affatto la conoscenza di chi sia l’autore, né di quale sia la sua storia, le sue motivazioni o le condizioni storiche o sociali in cui ha vissuto la sua vita. Qualche informazione in merito può emergere dal testo stesso, oppure no, ma comunque non è questo il punto: una volta che il libro è consegnato al lettore la “voce” che parla attraverso il testo è una voce che dialoga con lui autonomamente, e si propone esclusivamente per ciò che emerge dal testo. Per dire, ci sono stati autori maschi che hanno scritto libri Harmony celandosi dietro pseudonimi femminili, e questo non ha impedito loro di essere apprezzati e anche di avere, in certi casi, successi significativi. Quindi il nome dell’autore è un puro attributo del libro, che è quello che veramente conta, giusto?
Mica tanto. Prima di tutto perché probabilmente questo vale per casi, come gli Harmony, in cui il “prodotto libro” è di tipo ripetitivo e di bassa qualità, e perciò l’autore conta comunque poco. Poi perché la cosa è contraria all’esperienza comune: ciascuno di noi si abitua a riconoscere la voce dell’autore e a cercarla; ciascuno di noi dice: «Mi sono comprato l’ultimo libro di Pratchett», non «… l’ultimo libro del Mondo Disco». Ciascuno di noi, almeno, confronta il libro dell’autore con gli altri scritti da lui, e dice: «Questo è migliore… questo è peggiore… Martin allunga il brodo e mi ha stufato».
L’accoppiata libro/autore ha nel lettore una risonanza molto più forte che non il libro da solo. Vero. Però questo non risolve la questione: perché anche ammettendolo la conoscenza della biografia di un autore è un passo in più, che forse si potrebbe ritenere non necessario: supponiamo che io legga prima il David Copperfield e poi l’Oliver Twist ma sia informato che uno è di Dickens e l’altro di un autore X: probabilmente resterò perplesso, perché avrò magari riconosciuto la voce dell’autore, la similitudine delle tematiche trattate, e così via, ma disporrò di una informazione contraria (“sono autori diversi”); sapere invece che l’autore è lo stesso migliora la mia qualità di lettura, perché mi fa uscire dalla perplessità e mi dà la possibilità di usufruire di livelli di comprensione del testo più ampi: potrò meglio ricercare continuità e differenze, confrontare i personaggi, e così via. Però questo non comporta che mi serva conoscere la biografia di Dickens, e sapere quanto c’è di veramente autobiografico nel David Copperfield e quanto no: il libro rimane un fortissimo romanzo di formazione in ogni caso, autobiografico o no, la biografia di Dickens è un sovrappiù inutile.
Giusto? Forse no. Perché per esempio sapere che Manzoni ha riscritto i Promessi Sposi dopo aver “risciacquato i panni in Arno” mi fa apprezzare di più il lavoro di cura della lingua profuso nel testo e perciò mi fornisce un livello di godimento che altrimenti mi sarebbe precluso. Ma soprattutto perché è fin da Lord Byron, se non prima, che gli autori hanno scoperto che vendere il libro non è solo scrivere, e che l’acquirente compra, col testo, anche un pezzo della vita dello scrittore, la sua identità incorporata nel libro. Cinque minuti dopo averlo scoperto gli scrittori hanno deciso di gestire la propria identità nel processo di comunicazione coi lettori; sei minuti dopo questo rapporto è diventato manipolatorio (nei due sensi). E quindi il rapporto con il lettore potenziale da allora è, sempre, più ampio di quel che c’è nel testo, per abbracciare le vicende biografiche dello scrittore, le sue idee politiche, le sue opinioni e tutto il resto. Il dialogo fra autore e lettore si svolge, oggi, su una pluralità di piani, di cui il testo scritto è solo una dimensione (nel caso di alcuni, neanche quella più importante). Sostenere nel 2012 che sia possibile leggere un libro “senza leggere il bollino SIAE” (con tutto quel che è sottinteso) pecca della stessa ingenuità (o banalità) di quello che davanti a un pranzo raffinato in cui ogni portata è accuratamente legata alle altre dice: «Si, vabbé, tanto poi nello stomaco tutto si mischia».
Nick e fake
Dentro questo rapporto di gestione della propria identità proposta al lettore, pubblicare con uno pseudonimo è una pratica diffusissima e del tutto legittima. In particolare pubblicare con uno pseudonimo per tenere separati ambiti diversi della propria vita, o della propria attività di scrittore. Nel thread è stato già citato il caso Richard Bachmann/Stephen King, ma negli USA gli scrittori con più di un brand al proprio attivo sono tanti: solo nella mia libreria ho almeno una ventina di gialli scritti da un tizio che si chiama John Roswell Camp, firma da giornalista (e premio Pulitzer!) come John Camp e fa il giallista come John Sandford; ci sono anche casi buffi: la falsa identità di Nora Roberts (JD Robb) è così nota che ormai i suoi libri hanno in copertina: “Nora Roberts writing as JD Robb”. Chiaramente non è questo il punto su cui si può discutere.
Il problema è invece quando si attribuisce una falsa biografia allo pseudonimo? Si, ma con certe specificazioni. Perché il lettore deve sapere che non necessariamente la prima biografia, quella “vera”, è autentica. Come dice il mio amico Andrea, uno si aspetta che a casa sua Mick Jagger abbia tavoli ricoperti da giubbotti di cuoio, bottiglie di whisky e modelle nude: magari invece quando va a casa si mette la canottiera di lana e beve solo tisane di equiseto e verbena. Se fosse così, e Jagger un bel giorno cominciasse a pubblicare musica da meditazione sotto il nome di Sang Lama, non è che questa seconda identità sarebbe meno “vera” della prima.
È un’obiezione molto interessante. Però tutti capiamo che “firmare” come Sang Lama non è la stessa cosa che aprire anche un sito in cui si danno consigli sulla meditazione, ci si propone come maestri di saggezza orientale, si dispensano consigli di vita e magari si attacca l’oppressione cinese sul Tibet o si pontifica su quali sono le migliori scuole di spiritualità buddista. Non è un tema morale: è che costruendo questa falsa identità la si veicola per forza nella musica che si vende; non c’è nel contratto di acquisto il fatto che l’ascoltatore con quella musica compra anche l’esperienza di vita di un autentico lama tibetano, ma certo se un bel giorno si scoprisse che Sang è in realtà un cantante rock maledetto gli acquirenti avrebbero motivo di sentirsi truffati – anche gli amanti del rock avrebbero diritto a qualche motivo di perplessità, e chi sulla parola di Sang Lama avesse firmato appelli a favore del Tibet indipendente avrebbe tutti i motivi per incazzarsi direttamente, per non parlare dei veri lama tibetani.
Del resto, il paragone con la musica (o con l’industria cinematografica) non è peregrino. Tutti sappiamo, e abbiamo imparato a riconoscere, che ci sono operazioni con cui certi cantanti o gruppi sono costruiti a tavolino, e sappiamo che i flirt fra attori hollywoodiani servono ad avere spazio pubblicitario gratis. Sapendo questo, sappiamo anche incorporare queste informazioni per evitare bufale, o mettere le cose nella giusta prospettiva. Se di un film si dice soprattutto che è stata l’occasione in cui Scarlett Johnsson ha cornificato Tom Travel con Brad Holee, probabilmente quel film non vale granché, così come è difficile credere che il mio concittadino Marco Carta sia un grande cantante. Non solo: questo si traduce anche in una possibilità di caratterizzare con precisione gli altri amanti del cinema o della musica e il loro interesse per me: se conosco una, e mi dice che ascolta solo Marco Carta, probabilmente non mi fiderò quando mi consiglierà di comprare l’ultimo CD di Gigi D’Alessio. Nell’editoria questo capita meno, chissà perché.
Tre o quattro cose da discutere
Già, perché? Questo mi sembra un elemento interessante da discutere. Com’è che il mercato editoriale, anche e soprattutto quello del nostro genere preferito, è così infestato da materiale di scarsissima qualità? Da cosa dipende? Eppure i blog e i siti di recensioni e commenti non mancano. Come mai non fanno del tutto opinione? Ci sono dei meccanismi che favoriscono il farsi impollare da abili gestori di politiche promozionali editoriali? C’entra il fatto che un numero spropositato di recensori e blogger sono anche autori, in atto o potenziali? Dipenderà da questo il livello di aggressività e soprattutto partigianeria dimostrato anche nel thread originale?
Il che ci porta a un’altra domanda, che riguarda, diciamo così, la netizenship. La maggior parte di noi frequenta la rete e sa come muovercisi. Un certo numero di fake e di troll è fisiologico. Una certa quantità di viral marketing fa parte delle regole del gioco. Molti di noi però sono anche, diciamo così, “attivisti” della rete: teniamo blog, amministriamo siti, siamo utenti “forti”. Come tali fra noi e troll, fake e pratiche eccessive di marketing c’è un conflitto di interesse, così come non possono andare d’accordo quelli che vanno sulla spiaggia per fare il bagno e quelli che la notte ci fanno i festini, lasciando le bottiglie vuote e i resti sparsi dappertutto. Quand’è che si passa il limite? Non parlo di un limite giuridico/legale o morale, parlo di un limite politico: quand’è che si dice: «Ok, se questo diventasse la regola la rete (o un suo pezzo) diventerebbe invivibile?». (Hint: per me siamo già quasi oltre).
Un discorso analogo andrebbe fatto per il rapporto fra autori e lettori, e fra recensori e lettori, nel momento in cui i blog e social network permettono una relazione infinitamente più stretta rispetto al passato. È un rapporto effimero, legato solo a contatti sporadici sulla rete? A vedere i blog non si direbbe. È un rapporto come gli altri, che prescinde dal fatto che chi tiene il blog sia anche un autore? L’importanza attribuita al caso da cui siamo partiti sembra dimostrare il contrario. Qual è il minimo di fiducia richiesto da queste relazioni? Quanto contano, ancora una volta, le informazioni sull’autore incorporate nel blog? Se si scoprisse che Gamberetta in realtà è un marinaio tatuato, cambierebbe qualcosa per gli utenti? Probabilmente no. Ma se fosse Umberto Eco?
E, infine, ci sono due questioni che riguardano le case editrici. Una riguarda temi affini a quelli della netizenship, solo che qui si chiamano, in maniera più appropriata, pratiche commerciali al limite della scorrettezza. L’altra riguarda la proposta di libri il cui motivo d’interesse è chi l’ha scritto, non cosa c’è dentro, cioè in cui l’identità dell’autore incorporata nel testo ha soffocato il testo stesso. E su queste le mie domande non sono tanto legate al giudizio sulle pratiche in sé, che è negativo, quanto sulla loro opportunità a lungo termine per il sistema editoriale nel suo complesso. Detto in altri termini, il mio libraio di fiducia sostiene che tutti quelli che non sono scrittori, cioè giornalisti, attori, mamme blogger eccetera, diciamo da Vespa in giù, semplicemente non dovrebbero essere pubblicati, anche se vendono: perché si tratta di una produzione di qualità cattiva che a lungo termine rovina il mercato; non conta, cioè, quello che vendi oggi, ma quello che non venderai domani. Mi chiedo se un discorso del genere non dovrebbe valere per il fantasy, e per il fantasy italiano in particolare: forse quelli che vengono dalle fanfic, i ragazzini prodigio, le autrici dalle identità misteriose e compagnia cantante, semplicemente, non dovrebbero essere pubblicati.
Pubblicato su Anobii e Facebook a giugno 2012
Visto che Lipperini è Manni e visto che ha recensito se stessa
visto che ha in altri tempi più volte fatto battaglie sulla trasparenza
contro l’editoria delle spintarelle
Visto che non ho personalmente nulla contro la Lipperini
Mi chiedo: La Lipperini fa le battaglie di facciata o ci crede?
Ha altri nick con cui circola in rete, fa promozione e fiancheggia le sue attività giornalistiche?
La cosa che credo offensiva per i lettori è che non ho trovato uno straccio di commento della lipperini.
Ho partecipato al dibattito perché la seguivo e leggevo le sue riflessioni.
Una battuta?
Un commento?
Una frase?
Che so: gente vi state sbagliando ecc ecc.
NIENTE!!!!!!!
NULLLLLLLLLA
Ma è giusto?
Non dovrebbe commentare questa situazione?
Lei che scrive in cento blog, in mille rivoli di parole non ha una parola per i suoi lettori?
Ripropongo la domanda?
Perché non ti esponi e non dici le cose come stanno?
Tutti possiamo sbagliare, io non so se hai sbagliato, ma se lo hai fatto perché non chiedi scusa ai giovani esordienti? Ai ragazzini di 16 anni che avevano mitizzato una ragazza e che invece leggevano di te?
In Italia abbiamo un problema: se c’è un problema i noti assumono un atteggiamento di basso profilo e invece dovrebbero affrontare la situazione de visu.
Sei tu una giornalista di Repubblica che fece per mesi una straordinaria e tenace battaglia (le domande a Noemi) perché non dai le risposte che noi tutti meritiamo?
Ho approvato il commento anche se il sito è ancora in costruzione; mi preme però dire due cose. La prima: a me francamente non risulta una recensione diretta della Lipperini ai libri di Lara Manni: tutto quel che si trova in rete in argomento è una citazione di una nuova uscita editoriale, nel caso specifico Esbat. Che poi ci siano una marea di relazioni indirette è un altro paio di maniche, ma nel momento in cui si chiede correttezza ad altri anche LC (ed io come proprietario del blog) è tenuto alla precisione. Secondo: ribadisco che non mi interessa parlare del caso specifico; l’ho detto nell’introduzione e lo ribadisco: quello che mi interessa sono le “tre o quattro cose di cui discutere” citate alla fine.
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