Passeggiando passo passo
O meglio: passillendi passu passu. Anzi: con Passu Passu
È passato più di un mese da quando ho fatto una delle passeggiate esplorative in giro per Cagliari proposte da Passu Passu: non sono mai riuscito sinora a trovare il tempo di mettere giù delle osservazioni su questa attività, ma nell’occasione ho imparato molto e perciò ci tengo a parlarne, anche se molto in ritardo.
Non ho intenzione di fare una vera e propria recensione dell’evento: vorrei piuttosto condividere alcune impressioni su questa metodologia di lavoro e naturalmente raccontare quello che nell’occasione ho scoperto su Cagliari.
Non trattandosi di una recensione non farò nemmeno la cronaca di tutto quello che è successo, ma mi sembra il caso almeno di dire quale sia stato l’itinerario, perché altrimenti temo che tante cose non si capiscano (la mappa del percorso è disponibile – e modificabile – online).
E quindi sappiate che, essendoci dati appuntamento in piazza Matteotti, dopo aver gironzolato nei pressi della Stazione ci siamo inoltrati per viale La Plaia con una serie di vari andirivieni per poi entrare decisamente nell’area ferroviaria ed emergerne dalla nuova Stazione di via Santa Gilla, dietro la sede dell’Unione Sarda, per raggiungere da lì piazzale Trento. Dopo una (lunga) sosta nel parcheggio ci siamo rimessi in moto lungo tutto viale Sant’Avendrace per raggiungere, superato il cavalcavia, il parcheggio dell’Auchan. Da lì, superato un pericolante ponticello di legno, abbiamo costeggiato la laguna all’indietro fino al ponte della Scafa. Arrivati là, siccome evidentemente non bastava, ci siamo fatti tutto il molo di Ponente fino al faro avanti e indietro, quindi di nuovo viale La Plaia fino a piazza Matteotti, saluti e baci.
Come si vede il percorso era piuttosto lungo (e reso impegnativo per il caldo) mentre in realtà l’area interessata non è grandissima: consiste grosso modo nel confine occidentale della città storica e dei suoi sobborghi, percorso in fondo più e più volte avanti e indietro a modo di caracollo, cioè di lumaca.
Le cose che ho scoperto
Camminando a passo leggero per la città, tanto più per strade che normalmente non si fanno, si scoprono ovviamente un sacco di cose: dove porta quella famosa stradina che si vede sempre ma in cui non si entra mai, com’è il caffè in un bar sconosciuto o il fatto che lì all’angolo ha aperto un nuovo negozio. Altre cose sono meno innocenti: per esempio io – e altri – non sapevamo che dentro ai vagoni merci abbandonati nell’area ferroviaria ci vive della gente.
Queste sono tutte, in un modo o nell’altro, osservazioni puntuali, come scatti di una macchina fotografica mentre passi per strada. Oltre a queste si scoprono, in maniera più complessiva, delle visioni della città, delle impressioni non puntuali ma generali, che naturalmente sono più importanti e nella memoria si dispongono sul fondo, sedimentando e facendo da fondale rispetto a tutta l’esperienza vissuta.
Confini
Se dovessi dire quali di queste impressioni più generali mi ha lasciato la nostra marcia ne indicherei tre. La prima è l’idea di una città limitata: una percezione che andando in macchina lungo vie obbligate ma scorrevoli e veloci non cogliamo, ma che c’è: nella zona che abbiamo percorso ci sono due grosse aree complessivamente invalicabili, che determinano sia le direttrici degli spostamenti possibili che soprattutto le direzioni possibili d sviluppo urbanistico, incanalando entrambe in certe direzioni e opponendosi in tutti gli altri casi. Una di queste barriere è naturale ed è la laguna, l’altra è artificiale ed è l’area ferroviaria (una terza barriera, in realtà, è l’asse viario, difficilmente traversabile per i pedoni, da via San Paolo verso l’Iglesiente). Non ho fatto la passeggiata della settimana prima, quella lungo il litorale orientale, ma credo che alcune impressioni possano essere state simili, magari con le aree militari al posto della ferrovia e l’Asse Mediano al posto dell’Iglesiente.
Naturalmente mi si potrebbe dire che vivo a Cagliari da cinquant’anni e non mi sono mai accorto che c’è la laguna: cosa sono, cieco? È chiaro che non è così: ma prendere sovrappensiero una strada per andare da qui a là e nel frattempo guardare con soddisfazione il panorama e i fenicotteri non è come percorrere un argine e sentire che qualunque sia la tua volontà hai solo due direzioni a disposizione, ed entrambe obbligate. E se la laguna è comunque certamente ben visibile l’area ferroviaria è una terra incognita nella quale nessuno è mai entrato e che davvero nelle mappe potrebbe essere rappresentata da un’area bianca con la scritta hic sunt ferrovieros.
Gruppi, società, rappresentanze
Già, i ferrovieri. O forse, più appropriatamente, gli ex ferrovieri, quelli che hanno popolato nei decenni scorsi tutta l’area fra via Sassari e viale La Plaia. La seconda cosa che mi ha fatto pensare è stato toccare con mano la grandissima quantità di beni immobili che negli anni si sono accumulati. Le case sono state costruite in edilizia popolare e ognuna, ormai, ha la sua storia indipendente. Ma guardi via Sassari e vedi il ristorante, dove andavi al Dopolavoro Ferroviario a giocare a scacchi. In affitto. Passi oltre e vedi la scuola infantile a la page, in quello che se non ricordi male era l’asilo dei ferrovieri e, ti immagini, in affitto. Vai oltre e arrivi ai campi sportivi (era lì che andavi a sentire Guccini e De André, a vent’anni?): un ambiente vasto, curato, pieno di risorse, in cui ti raccontano che presto monteranno un pallone protettivo e faranno ancora altri campi da tennis e da calcetto. Operosità, investimenti, progetti, relazioni. Denaro. Forse in quantità, se non ingenti, almeno significative. E ti rendi conto che in fondo mentre credi di sapere tutto su altri interessi cittadini di cui tutti i giorni si parla di questi non sai niente: per chi votano questi beni, questi investimenti, questi progetti? Che interessi hanno? A che rappresentanza politica e sociale aspirano? Andando via ti chiedi quante altre attività, gruppi sociali, imprenditori, gruppi ci saranno in città e dei quali non sai nulla. Se non ci avessi messo il naso non sapresti nulla neanche di questi.
Sul mare
La terza cosa che ho scoperto è il rapporto spicciolo della città col mare. Soprattutto, l’enorme quantità di pescatori che abbiamo incontrato a ogni pie’ sospinto, alla Scafa, al molo di Ponente, lungo l’argine di Santa Gilla. Una quantità enorme: un po’ per divertimento, un po’ molto per necessità – e fa impressione vedere bambini a bagno fino a mezza coscia a cercare patelle – e tanti altri hai l’impressione che stiano a metà, un po’ e un po’. Anche qui: non è che non so, in maniera razionale, che c’è gente che pesca; abito dietro Su Siccu e vedo passare qualcuno con la canna da pesca praticamente tutti i giorni, mattina e sera. Se passo di là in bicicletta ne vedo una mezza dozzina. Ma lungo la passeggiata ne ho visto decine, forse potrei dire centinaia, ed è una dimostrazione plastica di una relazione strettissima di una città col suo mare – c’è molto altro, ovviamente: mi dice un consigliere comunale: «Ormai nei quartieri popolari la gente povera ma per bene pesca cozze e ricci, non ha altro da fare se non spacciare» – alla quale non avevo mai fatto caso come quel giorno.
Il camminare come pratica politica
Più o meno alle otto di sera, sotto il faro del molo di Ponente, quando ormai non mi reggevo più in piedi e desideravo più di ogni altra cosa tornare a casa e levarmi le scarpe, il resto del gruppo ha pensato bene di fare assemblea e verificare l’esperienza.
Groan.
Non mi sto lamentando: che dopo una giornata estenuante un gruppo di ragazzi giovani, con una serietà straordinaria, si metta là a discutere del futuro del mondo e di come impegnarsi per Cagliari e dove ha più senso porre l’opera d’arte che suggellerà la conclusione dell’esperienza, ragionando dei poteri della città e di coinvolgimento della popolazione, dimostra che c’è ancora speranza per il mondo e noi cinquantenni sovrappeso coi piedi gonfi dovremmo ringraziare (e metterci a dieta), non lamentarci.
Atti politici
Ma non è di questo che voglio parlare (soprattutto: non della dieta, Dio liberi). Quello che mi ha colpito è che durante quell’assemblea improvvisata qualcuno ha definito l’attività della giornata una pratica politica, contrapponendola ad altre pratiche ormai sclerotizzate: lo sciopero studentesco, l’occupazione della scuola, la manifestazione, il concerto finale.
Sul fatto che quelle siano pratiche la cui la ripetitività rituale è ormai del tutto fuori controllo aveva naturalmente ragione. Sul fatto che una passeggiata esplorativa della città si potesse definire “pratica politica” ho avuto, sul momento, molte istintive perplessità.
A distanza di un mese, avendoci ponzato sopra abbastanza, credo che quel ragazzo avesse ragione. Prima di tutto c’era, in tutta la giornata e nell’attività, una intenzionalità, una volontà esplorativa, un desiderio di prendere contatto col territorio, che la distinguono da altre attività simili. Cinque amici che decidono di farsi un giro a zonzo non fanno una pratica politica; un gruppo di persone che intenzionalmente si mette a riconoscere un territorio, a farlo proprio, a ragionarci sopra, a mapparlo, a incontrarvi i testimoni che lo abitano compie, evidentemente, un atto politico: e il fatto che dichiarino tacitamente che quello è il loro modo di fare politica è un atto politico anch’esso.
Il metodo
Alla passeggiata era presente il gruppo La Pira al gran completo. Fra noi praticamente tutti hanno esperienza di organizzazione di attività sociali o politiche, e praticamente tutti abbiamo sofferto del fatto che l’attività fosse molto poco strutturata; forse abbiamo addirittura avuto l’impressione che fosse un po’, come dire, disorganizzata.
Riflettendoci mi sono reso conto che, in qualche misura, questa mancanza di strutturazione dell’attività (che comunque un suo scheletro ce l’ha: un percorso più o meno concordato, per esempio) è in realtà ciò che la distingue e che ne costituisce l’elemento distintivo: a differenza di un corteo o di una marcia, per esempio, ma anche a differenza di quelle attività superficialmente simili tipo trekking urbano: dove c’è un itinerario molto più rigido e, per esempio, delle guide, che alle varie tappe ti spiegano quel che vedi (quel che devi vedere?), ponendoti in posizione passiva. Mi pare di capire che in questa pratica invece la mancanza di strutturazione serve a garantire la possibilità per i partecipanti di essere attivi e di esercitare la propria curiosità.
La mappa e il territorio
So benissimo che, come nel gioco e in tutte le altre attività libere, la possibilità di trasformare l’esperienza fatta in contenuto condiviso richiede un momento di verifica: dopotutto il capitolo di Gioca la storia sul debriefing nei giochi educativi l’ho scritto quasi tutto io. Non avevo mai capito, però, che quando quelli di Stalker ponevano tanta attenzione sul redigere e pubblicare le mappe dei percorsi delle camminate e dei territori attraversati questo è perché il fare la mappa è esattamente il debriefing di questa attività: la rappresentazione plastica di ciò che si è fatto e contemporaneamente un metodo tecnico per rappresentare i territori che si sono attraversati e fatti propri. Mi sembrava un po’ un vezzo artistico e un po’ una cosa che ti viene naturale fare quando sei un architetto nomade, ma credevo che l’esperienza del camminare fosse molto più importante del fare la mappa: invece ho capito (molti giorni dopo, ben arrivato Roberto) che nel metodo l’una cosa non si dà senza l’altra.
La mappa delle tre camminate cagliaritane è stata fatta al porto ed è secondo me molto bella, se si vuole anche provocatoria, posta com’è davanti all’Info Point a rappresentare un’indicazione alternativa a chi vuole percorrere la città. Ma bellezza e provocazione non sono l’elemento più significativo, che è invece la pretesa di dire un’opinione sulla città (siamo sempre nel campo degli atti politici, come si vede).
Testimoni… inconsapevoli?
In realtà il metodo prevede un’altra sua strutturazione interna, nella misura in cui comprende anche l’incontro, a punti prefissati, con dei testimoni/narratori che a loro volta giocano un ruolo legato alla mappa: rappresentano degli elementi segnaletici, dei fari posti sul territorio a segnare l’emergenza di un elemento significativo, e infatti l’incontro con loro è sempre poi segnalato sulla mappa.
Non so bene come siano andate le cose nelle altre camminate: il nostro evento ha visto una dimensione non particolarmente soddisfacente nell’incontro con questi narratori e credo che questo abbia contribuito forse a dare ad alcuni di noi l’impressione di una certa incompiutezza dell’esperienza, come ho accennato poco fa.
In realtà anche la dimensione insoddisfacente di certi incontri è in sé rivelatrice: per esempio dice qualcosa sulla classe dirigente cagliaritana (includendo nella categoria anche le leadership di chi si pone in maniera antagonista) e sulla difficoltà, spesso, di avere in città qualcuno che possa essere riconosciuto come elemento di riferimento assoluto.
E poi in realtà la dimensione dell’incontro va oltre: uno dei momenti di maggiore rivelazione su tante cose della vita cittadina è stato l’incontro con l’arrotino: e durante il percorso tanti, un po’ più svelti, hanno avuto la presenza di spirito di fermarsi a parlare coi pescatori o con altri incontrati per caso, magari intavolando due chiacchiere a partire dal pretesto di chiedere il permesso di fare una foto.
La tendenziale informalità del metodo non può permettere che questi incontri, che per loro natura sono oltretutto casuali, siano “imposti” ai camminanti, ma certo ripensandoci dopo è una delle dimensioni più significative e direi costitutive del metodo, almeno per quanto mi è stato dato di capire, e forse un qualche indizio in questo senso a quei partecipanti un po’ più stolidi, come me, magari andrebbe dato. O forse no: la cosa bella, in fondo, è che ognuno può stare dentro l’attività e fare quel che gli pare.
Una nota di passaggio e ringraziamenti
Io: «Faccio parte del gruppo La Pira eccetera eccetera e a questo proposito, se permetti, ho una curiosità. Durante tutte queste camminate, San Bartolomeo, Sant’Elia, Is Mirrionis, Tuvixeddu, Sant’Avendrace, Stampace basso… fra tutti questi elementi del territorio, nei quartieri più popolari di Cagliari, avete mai incrociato la Chiesa, la comunità cristiana? Chi, come, che impressioni?».
Organizzatore: «La risposta ingenua? Non abbiamo mai incrociato nessuno».
Houston, abbiamo un problema.
Organizzatore: «Devo anche ammettere, ed è la risposta meno ingenua, che si incontra sempre, in fondo, chi già si desidera incontrare».
Houston, abbiamo un grossissimo problema (“abbiamo”: noi Chiesa, ovviamente).
Ringraziamenti
Da poco mi diceva un’amica di Sassari: la quantità di attività culturali, di fermento, di sperimentazioni che si fanno a Cagliari dà quasi il capogiro. Cagliari un faro, Sassari immobile.
L’ho guardata stupito, perché ovviamente stando nella città non ti sembra sempre che tutta questa vivacità ci sia. Anzi.
Però è vero che tante cose si muovono: Passu passu è una iniziativa di due piccole associazioni culturali di cui si sente parlare poco ma che hanno fatto una gran bella cosa di gran livello e sono per questo benemerite: L’ambulante e (S)cambiare. Grazie, respect: mi sono davvero divertito.
Mi è capitato forse quattro-cinque volte (o forse qualche volta in più) di camminare nelle periferie estreme delle città (almeno in tre città diverse) e i limiti imposti a chi cammina dalle infrastrutture (anche non grandi … una ferrovia o una grande strada extraurbana) li ho sempre trovati. La sensazione è sempre stata spiacevole.
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