Tutti i santi giorni
La settimana scorsa per la prima volta in vita mia ho vinto un concorso a premi. Non era un concorso molto difficile, e in ogni caso ho improbabilmente azzeccato che la quasi velina mora si chiama Nausicaa e non Calipso o Minerva o…
Comunque…
I biglietti messi in palio da SardegnaOggi erano per l’anteprima di Tutti i santi giorni di Virzì e quel che segue è la mia inedita recensione in anticipo (poi non dite che questo non è un blog serio!): il film sarà nelle sale dall’11 ottobre. Prima di cominciare segnatevi questi riferimenti: La generazione, di Simone Lenzi. È il libro da cui liberamente è tratto Tutti i santi giorni, e si direbbe interessante.
Da quello che capisco Tutti i santi giorni segna per Virzì il definitivo superamento (per ora, naturalmente!) della commedia con intenti sociali, di cui l’ultimo esempio sarebbe Tutta la vita davanti, che non mi era piaciuto poi molto. Come il successivo La prima cosa bella qui Virzì si concentra sulle relazioni personali dei protagonisti, in particolare sulla struttura delle relazioni familiari.
Credo che in questo modo emerga quello che è sempre stato uno dei punti di forza del regista livornese, cioè la precisione della messa in scena. I suoi personaggi vivono in posti veri, mangiano cose vere, incontrano altre persone vere, si vestono come si vestono davvero le persone e fanno e maneggiano cose… vere (come avrete capito), e già solo questo consente con grandissima immediatezza acute e accurate notazioni di costume (quindi, quando dico che siamo oltre la commedia sociale, non dico che siamo arrivati a Vacanze di Natale; dico che il focus del film è sul microcosmo dei personaggi, non sul macrocosmo italiano).
Il problema nasceva quando, come in Caterina va in citta o in Tutta la vita davanti, questi personaggi così verosimili dovevano anche reggere il ruolo di archetipi esemplari, il che spesso strideva o obbligava la sceneggiatura a piegare la messa in scena al melodramma. Ma esentati dal ruolo altisonante e liberi di essere se stessi i protagonisti possono ora essere… perfetti e lasciare allo sfondo il compito di suggerire riflessioni allo spettatore.
La storia è semplice. Guido e Antonia sono due trentenni che convivono a Roma. Le rispettive famiglie sono lontane, quella di Guido, affettuosa e inclusiva, in Toscana; quella di Toni, oppressiva e inquisitoria, in Sicilia. Come molti trentenni, i due hanno una doppia vita: lui fa il portiere di notte ma è un colto antichista, lei lavora per un autonoleggio ma è una cantante molto brava (incidentalmente, l’attrice che la interpreta, Thony, è l’autrice e l’interprete dell’ottima colonna sonora).
In maniera abbastanza naturale Guido e Toni sono arrivati all’idea di avere un figlio, ma non essendo più giovanissimi il bambino non arriva: inizia così una trafila ben nota, visite – cure – visite – altre cure – decisione di usare la procreazione assistita – visite – altre cure che è una delle cose migliori del film e che ha momenti ora comici, ora grotteschi, ora commoventi.
Su questo sfondo la storia personale di Guido e Toni conoscerà crisi e cambiamenti fino a un finale che ovviamente non vi svelo.
I due protagonisti sono bravissimi, la regia eccellente, la messa in scena, come detto, impeccabile e la colonna sonora molto interessante. Buona anche la galleria dei comprimari, i genitori, i medici e i vicini di casa soprattutto.
Tutto bene, dunque? Insomma, qualche dubbio rimane. Il film è abbastanza nettamente diviso in due parti, uno che pone una serie di premesse – la storia di Guido e Antonia sullo sfondo dei vari itinerari di procreazione, assistita o meno – e una seconda che si concentra sul rapporto fra i due. Le due parti sono separate da una cesura abbastanza netta, e per lo spettatore è un po’ spiazzante. È come ascoltare una sinfonia in cui il compositore pone il primo e il secondo tema e poi, al momento di svilupparli… ne propone un altro. Qui la prima parte suggerisce con forza che stiamo guardando una storia sulla paternità e maternità, poi, come se si rifiutasse di trarre le sue conclusioni, fa abilmente esplodere un paio di mine dissimulate ad arte in precedenza, demolisce le premesse e se ne va per un’altra direzione. Il tutto, essendo concentrato comunque su Guido e Toni, senza dubbio regge, ma lascia un minimo perplessi.
In qualche modo si potrebbe dire che il prefinale sembra suggerire che la sterilità della generazione dei trenta-quarantenni, che è rispecchiata nella incapacità del paese di generare il futuro (ok, non è una commedia di costume, ma dichiarare che questa tesi c’è, seppure accennata, non è per niente peregrino) può trovare una sua composizione, dolcemara, nel grande ventre della famiglia tradizionale italiana. È un po’ poco, un po’ troppo accennato, un po’ tirato per i capelli. Quello che resta, nel finale, sono solo Antonia e Guido, con le loro imperfezioni, i loro tormenti, le loro speranze e le loro dolcezze.