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Professori terrorizzati

All’articolo della settimana scorsa sul come liberarsi degli stereotipi razzisti faccio seguire, oggi, la traduzione di un pezzo uscito su Vox che sebbene parli apparentemente d’altro per me si muove almeno in parte sulla stessa linea, diciamo in una dimensione di indagine del rapporto complesso fra correttezza politica, studi sull’identità e azione di riforma sociale: in qualche modo l’autore è dall’altra parte della barricata rispetto al John Cheese della settimana scorsa.

Zombie studentsChi ha scritto l’articolo è un docente universitario. Il suo punto di partenza è vicino a quello della riflessione sugli “allarmi emozionali” di cui avevo riferito qualche tempo fa. Rispetto a quel tipo di articolo mi sembra interessante proporre questo perché c’è un primo abbozzo di analisi politica dell’origine di questo tipo di movimento culturale, che punta direttamente a una traduzione (piccolo) borghese di pratiche elaborate in movimenti della sinistra americana degli anni ’60 (che peraltro già potevano essere borghesi di loro: non a caso in Italia i “liberali” erano un partito di destra, per quanto il senso nel dibattito politico americano sia ovviamente diverso). Trovo anche significativa la connessione che vedrete suggerita fra politicamente corretto e la “politica della testimonianza”, che fa magari sopravvalutare l’effetto che si può ottenere facendosi fotografare con un hashtag al collo.

L’articolo è interessante infine come punto di partenza per seguire un dibattito che negli Stati Uniti è evidentemente ricorrente: per questo motivo ho mantenuto i link originali, sebbene puntino a testi in inglese, e nei commenti indicherò due articoli di risposta. A margine: l’autore si ritiene sicuramente un progressista, ma è evidente che, essendo il campo di sinistra (mal) occupato, è spinto verso posizioni obiettivamente conservatrici – nel senso di un progressismo superato dal tempo. Condividendo le sue preoccupazioni ma non volendo fare la stessa fine, trovo anche per questo l’articolo stimolante. Tra parentesi: la nota finale, come vedrete, è profondamente ironica e dimostra, se ce ne fosse bisogno, la veridicità dell’articolo.

L’articolo è stato pubblicato su Vox a giugno. Il nome dell’autore è uno pseudonimo.

Io sono un professore di orientamento liberale, e i miei studenti liberali mi terrorizzano

Insegno in una università pubblica di medie dimensioni. Tengo corsi al college ormai da nove anni. Ho vinto alcuni (piccoli) premi per l’insegnamento, ho studiato ampiamente la pedagogia e quasi sempre ho alti punteggi nelle valutazioni degli studenti. Non sono assolutamente il campione del mondo dei docenti, ma sono scrupoloso; cerco di tenere l’insegnamento aggiornato rispetto ai risultati della ricerca e investo un sano capitale emotivo nel benessere e nella crescita dei miei studenti.

Le cose sono cambiate da quando ho iniziato a insegnare. L’aria è diversa. Mi piacerebbe che ci sia un modo meno secco di dirlo, ma i miei studenti talvolta mi spaventano – in particolare quelli di orientamento liberale.

Non nel senso di una relazione da persona a persona, ma gli studenti in generale. La dinamica docente-discente è stata revisionata lungo un orientamento che è simultaneamente consumistico e iperprotettivo, dando a ogni studente la possibilità di denunciare di aver subito lesioni aggravate in quasi qualunque circostanza, dopo qualunque offesa, e la capacità di un docente di difendersi formalmente da queste accuse è, quando va bene, limitata.

Com’era prima

Ai primi del 2009 ero professore a contratto e tenevo un corso di scrittura per matricole in un college locale. Per discutere di infografiche e di come visualizzare dei dati, proiettai una animazione in Flash che descriveva come la mancanza di prudenza di Wall Street avesse distrutto l’economia.

Il video finì e io chiesi agli studenti se pensavano che fosse efficace. Uno studente più anziano alzò la mano.

«Perché non parliamo di FannieFreddie? [dei consorzi di garanzia prestiti che si rivolgevano principalmente a una clientela non abbiente, rimasti vittime della crisi dei mutui subprime, NdRufus]», chiese. «Il governo ha continuato a dare case ai neri, a dare sussidi ai neri mentre i bianchi non ricevevano niente, e alla fine quelli non hanno potuto restituire i debiti. Non è importante anche questo?».

Io risposi brevemente che la maggior parte degli esperti non avrebbero condiviso quella affermazione, che si trattava in realtà di una semplificazione eccessiva e in buona parte non onesta, e non è una bella cosa che qualcuno abbia fatto il video che abbiamo appena visto per chiarire la cosa? E, dai, vediamo se era efficace, d’accordo? E se pensate che non lo fosse, come lo si poteva fare meglio?

Il resto della discussione andò come al solito.

La settimana successiva venni convocato nell’ufficio della direttrice. Mi venne mostrata una mail, nome del mittente oscurato, che sosteneva che «ha tendenze comunistiche [sic] e impone di mostrare una visione unilaterale dell’argomento». L’argomento in questione non era citato, ma io sospetto che riguardasse se il collasso economico fosse stato causato dalla gente di colore povera o meno.

La direttrice alzò gli occhi al cielo. Sapeva che il reclamo era una stupidaggine bizzarra. Io redassi una breve descrizione del lavoro in aula nella settimana precedente, osservando che avevamo esaminato diversi esempi di scrittura efficace in diversi mezzi di comunicazione e che io avevo fatto ogni sforzo in buona fede per includere narrazioni di stampo conservatore insieme con quelle di taglio liberale.

La mia nota, insieme con una fotocopia, fu inserita in una cartella che può essere esistita o meno. Poi… niente. Scomparve per sempre; a nessuno interessava al di là dei doveri contrattuali di documentare le recriminazioni degli studenti. Non ne ho più sentito parlare di nuovo.

Quello è stato il primo, e finora unico, reclamo formale mai inoltrato da uno studente contro di me.

Adesso agitare le acque non è semplicemente pericoloso – è suicida

Non si è trattato di un caso: ho corretto intenzionalmente il mio materiale didattico man mano che i venti politici hanno girato (mi sono anche assicurato che qualunque mia opinione anche remotamente offensiva o controversa, come questo articolo, sia espressa o anonimamente o sotto pseudonimo). La maggior parte dei miei colleghi che ancora hanno un lavoro hanno fatto lo stesso. Abbiamo visto capitare brutte cose a troppi buoni docenti – professori a contratto eliminati perché le loro valutazioni scendevano sotto il 3.0, studenti di dottorato rimossi dai corsi dopo un solo reclamo di uno studente, e così via.

Mi è capitato di vedere un docente a cui non è stato rinnovato il contratto dopo che gli studenti si sono lamentati che li aveva esposti a testi “offensivi” di Edward Said e Mark Twain. La sua risposta, che i testi dovevano essere intenzionalmente un po’ disturbanti, è servita solo a alimentare l’ira degli studenti e ha segnato il suo destino. Questo è stato abbastanza perché io abbia passato al pettine fitto i miei programmi di studi e abbia eliminato qualunque cosa che mi desse l’impressione di poter turbare uno studente del primo ciclo di studi universitari cresciuto nella bambagia, testi che andavano da Upton Sinclair a Maureen Tkacik – e io non sono l’unico che ha fatto aggiustamenti, oltretutto.

Mi spaventa talvolta il pensiero che uno studente possa di nuovo fare un reclamo come quello del 2009. Questa volta però si tratterebbe di uno studente che mi accusa non di dire qualcosa di troppo estremo da un punto di vista ideologico – che sia comunismo o razzismo o che altro – ma di non essere abbastanza sensibile ai suoi sentimenti, di un qualche semplice atto di indelicatezza che è considerato pari all’aggressione fisica. Come ha scritto Laura Knips, docente della Northwestern University, «il disagio emotivo è [adesso] considerato equivalente a un danno materiale, e tutti i danni vanno risarciti». Ferire i sentimenti di uno studente, anche nel corso di un procedimento educativo che è assolutamente appropriato e rispettoso, può ora mettere un docente in seri guai.

Nel 2009 il centro del reclamo del mio studente era la mia supposta ideologia. Ero un comunistico, secondo lo studente, e tutti sanno che il comunisticismo è sbagliato. Si trattava, a essere buoni, di un’affermazione discutibile. E poiché mi era permesso di ribattere, il reclamo venne archiviato senza appello. Non esitai a utilizzare lo stesso video nei semestri successivi e la lamentela dello studente non ebbe influenza sulla valutazione della mia prestazione.

Nel 2015 un reclamo del genere non sarebbe concepito in questo modo. Invece di focalizzarsi sulla correttezza o meno (o anche sulla accettabilità) dei materiali discussi in classe, il reclamo si concentrerebbe esclusivamente su come la mia attività di insegnamento ha influenzato lo stato emotivo dello studente. Poiché non posso parlare alle emozioni dei miei studenti, non potrei imbastire una difesa a favore dell’accettabilità della mia didattica. E se io rispondessi in una qualunque maniera diversa dallo scusarmi e cambiando i materiali sottoposti all’aula, è probabile che ci sarebbero delle conseguenze professionali.

Ho scritto di questa paura sul mio blog e sebbene le reazioni siano state per la maggior parte positive, alcuni liberali mi hanno definito paranoico, o hanno espresso dubbi riguardo al perché un qualunque docente dovrebbe vetare gli specifici testi che ho elencato. Vi garantisco che queste persone non lavorano nell’istruzione superiore, o se lo fanno sono distanti almeno due decadi dalla ricerca di lavoro. Il mercato del lavoro accademico è brutale. I docenti che non hanno la cattedra di ruolo o che non sono in carriere di ruolo non hanno alcun diritto a un giusto processo prima di essere licenziati e c’è una fila lunga un chilometro di candidati ansiosi di prendere il loro posto. E come scrive lo scrittore e docente Freddie DeBoer non c’è neanche bisogno che siano licenziati formalmente – basta non riassumerli alla scadenza. In questo tipo di ambiente agitare le acque non è solo pericoloso, è suicida, e così i docenti limitano le loro lezioni a cose che sanno che non turberanno nessuno.

Il vero problema: una concezione di giustizia sociale semplicistica, inattuabile e in fin dei conti soffocante

Questo slittamento della dinamica studente-professore ha posto molti dei fini tradizionali dell’alta formazione – come costringere gli studenti a mettere alla prova le loro credenze – del tutto fuori campo. Se un tempo traevo motivo di orgoglio nel portare gli studenti a mettersi in discussione e nell’affrontare concetti e testi ostici, adesso esito. E se danneggia la mia valutazione e non passo di ruolo? Quanti reclami ci vorranno prima che presidi e amministratori inizino a temere che io non dia ai nostri clienti – oh, scusate, studenti – l’esperienza positiva per la quale stanno pagando? Dieci? Mezza dozzina? Due o tre?

Questo fenomeno è stato ampiamente discusso di recente, principalmente come un mezzo per deridere forze politiche, culturali o economiche non amate da coloro che ne scrivono. Commentatori di destra e sinistra hanno recentemente criticato la paranoia e l’eccessiva sensibilità degli studenti universitari d’oggi. Si preoccupano della limitazione della libertà di parola, l’imposizione di codici di condotta che non possono essere fatti rispettare e l’ostilità generale nei confronti di opinioni e punti di vista che potrebbero causare agli studenti anche solo l’ombra di un turbamento.

Sono più d’accordo con alcune di queste analisi che con altre, ma tutte tendono a essere troppo semplicistiche. L’attuale dinamica docente-discente è stata plasmata da un’ampia convergenza di fattori e forse i più importanti fra questi è il modo con cui i pensatori in tema di studi culturali e di giustizia sociale si sono posizionati nei mezzi di comunicazione più popolari. Ho un grande rispetto per entrambi questi campi di studi ma le loro manifestazioni sulla rete, il desiderio di democratizzare campi complessi di studi rendendoli facilmente digeribili come una commedia da fine settimana [nell’originale TGIF, cioè Thank God It’s Friday, “grazie a Dio è venerdì”, categoria di serial televisivi da guardare col cervello spento mandati in onda il venerdì sera sulla rete ABC, NdRufus] ha portato all’adozione di una concezione di giustizia sociale totalizzante, semplicistica, inattuabile e in fin dei conti soffocante. La banalità e e la tendenza alla assolutizzazione di questa visione si è combinata con la precarietà dei posti di lavoro accademici per creare l’attuale clima di paura nell’alta formazione, una narrazione di sensibilità semantica fortemente presidiata nella quale sicurezza e sentirsi a proprio agio sono diventati fini e mezzi dell’esperienza universitaria.

Questa nuova comprensione delle politiche di giustizia sociale assomiglia a ciò che il docente di scienza della politica dell’Università della Pennsylvania Adolph Reed jr. chiama politica della testimonianza personale, in cui i sentimenti degli individui sono il principale o l’unico dei mezzi attraverso i quali i temi di rilevanza sociale sono compresi e discussi. Reed deride questo tipo di approccio politico definendolo essenzialmente impolitico, una narrazione che «si focalizza molto più sulla tassonomia che sulle politiche [e che] enfatizza i nomi con i quali definiamo alcuni filoni di diseguaglianza […] piuttosto che specificare i meccanismi che li producono o anche i passi che dovrebbero essere intrapresi per combatterli». In una visione come questa le persone si preoccupano di più di segnalare la propria bontà, di solito mediante la semantica e gesti dimostrativi, che agire effettivamente per realizzare il cambiamento.

Si trova qui la follia delle politiche identitarie sovrasemplificate: mentre le difficoltà delle varie identità sociali meritano ovviamente di essere analizzate, focalizzarsi in maniera troppo esclusiva su esse attira la nostra attenzione così tanto verso l’interiorità che nessuna delle nostre analisi può condurre all’azione. Rebecca Reilly Cooper, una filosofa politica all’Università di Warwick dubita di un’azione politica nella quale «le esperienze particolari non possono mai parlare per nessun altro a parte noi stessi e la narrazione personale e la testimonianza sono innalzate a un livello tale che non ci può essere nessun punto di osservazione obiettivo dal quale esaminarne la verità». L’esperienza e i sentimenti personali non sono semplicemente un elemento di rilievo caratterizzante delle politiche identitarie contemporanee; sono l’interezza di queste politiche. In un ambiente simile non stupisce che gli studenti possano trattare lievi sgarbi come offese capitali.

(È anche per questo che casi apparentemente insignificanti di consumo culturale finiscono per suscitare molto più coinvolgimento emotivo rispetto a tematiche con maggiori conseguenze materiali. Confrontate il numero di articoli pubblicati sulla rete riguardanti possibili aspetti problematici del nuovo film sui Vendicatori con quelli che, poniamo, denunciano lo smantellamento pezzo per pezzo del diritto di abortire. I primi superano di numero i secondi considerevolmente, e la loro forma retorica è di solito molto più sentita e più accesa. Ne discuterei nei miei corsi – se non fossi troppo spaventato per parlare di aborto).

La spinta a mettersi in azione, o anche verso analisi complessive che vadano oltre la testimonianza personale, è perciò considerata un di più, dato che tutto ciò che dobbiamo fare per risolvere i problemi del mondo è sintonizzare correttamente i sentimenti che li riguardano e aprire il campo alla discussione in modo che i vari gruppi identitari possano dire la loro. Tutti i buoni vecchi metodi illuminati di discussione e di analisi – dal giusto processo al metodo scientifico – sono messi da parte in quanto sordi alle richieste emotive e quindi ingiustamente sbilanciati verso gli interessi di maschi bianchi eterosessuali. Tutto quel che conta è che le persone abbiano il diritto di parola, che le loro narrazioni siano accettate senza discutere e che i pensieri cattivi si dileguino.

Così non si tratta solo di studenti che si rifiutano di approvare idee sgradite – rifiutano di prenderle in considerazione, punto. Esaminarle è considerato inutile in quanto la reazione immediata, emotiva, degli studenti contiene tutta l’analisi e il giudizio che argomenti delicati richiedono. Come ha scritto Judith Shulevitz sul New York Times questi rifiuti possono impedire il dibattito in aree effettivamente controverse, come quando Oxford ha cancellato un dibattito sull’aborto. Più spesso influenzano questioni sorprendentemente minori, come quando l’Hampshire College cancellò l’invito a un gruppo afrobeat perché la formazione conteneva troppi musicisti bianchi.

Quando i sentimenti diventano più importanti dei problemi

Che ci sia dibattito in queste aree è il minimo. Idealmente gli studenti a favore della libertà di scelta dovrebbero avere abbastanza fiducia nella forza dei loro argomenti da essere disponibili a esporli alla discussione, e uno scambio di opinioni a proposito della supposta appropriazione culturale da parte di un gruppo musicale potrebbe aver luogo a margine di un concerto. Ma queste cancellazioni sono presentate in termini di sentimenti, non di problemi. Il dibattito sull’aborto è stato cancellato perché avrebbe messo in pericolo «il benessere e la sicurezza dei nostri studenti». La presenza del gruppo afrofunk non sarebbe stata «sana e salutare». Nessuno può mettere in discussione i sentimenti e così la sola cosa che rimane da fare è spegnere le cose che causano disagio – nessuna polemica, nessun dibattito, solo premere il tasto che toglie il sonoro e far finta che eliminare il disagio sia lo stesso che mettere in atto un vero cambiamento sociale.

In un pezzo sul New York Magazine Johathan Chait ha descritto l’effetto raggelante che questo tipo di atteggiamento ha nelle aule di insegnamento. L’articolo di Chait ha generato una valanga di reazioni e mentre io non concordo con buona parte della sua diagnosi, devo ammettere che fa un lavoro adeguato nel descrivere i sintomi. Cita un’anonima professoressa che dice che «lei e i suoi colleghi docenti sono terrorizzati all’idea di dover affrontare l’accusa di avere scatenato dei traumi». I liberali sulla rete hanno deriso con forza questa affermazione, mettendo la professoressa nella stessa categoria dei tassisti immaginari di Tom Friedman [corsivista americano che racconta dei suoi viaggi, accusato di mettere in bocca ai locali che incontra – tassisti per esempio – le banalità da lui concepite sui luoghi che visita, NdRufus]. Ma io ho visto ciò che qui viene descritto. È reale e condiziona gli insegnanti liberali, attenti alle tematiche sociali, molto più di quanto non faccia con quelli conservatori.

Se vogliamo rimuovere questo timore e adottare una politica che possa condurre a cambiamenti più sostanziali, dobbiamo ricalibrare la nostra narrazione. In termini ideali si può avere un dibattito che è consapevole del ruolo delle istanze identitarie e fiducioso nelle idee che provengono dalle persone che rappresentano ciascuna di quelle identità. Essa denuncerebbe e criticherebbe ingiuste, arbitrarie o altrimenti soffocanti limitazioni dell’espressione delle opinioni, ma eviterebbe le piccolezze e il nichilismo. Non dovrebbe per forza essere politicamente moderata, ma sarebbe ponderata. Richiederebbe impegno.

All’inizio del suo pezzo, Chait si domanda ipoteticamente se «l’offensività di una idea [può] essere determinata oggettivamente, o solo facendo appello all’identità della persona offesa». Qui si avvicina alle preoccupazioni espresse da Reed e Reilly-Cooper, il timore che abbiamo così completamente rivolto le nostre analisi verso l’interiorità che il nostro giudizio sulle affermazioni di una persona poggia più sui loro segnali di identità che sulle loro idee.

Una risposta di buon senso alla domanda di Chait sarebbe che si tratta di una falsa alternativa e che le idee dovrebbero essere giudicate sia sulla base della forza della loro logica che dal peso culturale garantito dall’identità di chi le afferma. Chait sembra credere solo nel primo caso e questo è abbastanza ridicolo. Naturalmente la posizione sociale di qualcuno influenza il fatto che le sue idee possano essere considerate offensive o giuste o anche solo meritevoli di considerazione. Come si può pensarla diversamente?

Quando l’identità diventa il nostro solo focus noi distruggiamo noi stessi

Le femministe e gli anti-razzisti evidenziano che l’identità è importante. Questo è indiscutibile. Se accettassimo l’idea che le idee possono essere giudicate dentro un vuoto pneumatico, indifferenti al peso sociale dei loro proponenti, perpetueremmo un sistema nel quale segnali arbitrari come la razza o il genere influenzano la correttezza percepita delle idee. Non possiamo vincere il pregiudizio facendo finta che non esista. Concentrarci sull’identità ci permette di mettere in discussione il processo attraverso il quale i maschi bianchi hanno le loro idee accettate senza dibattito mentre le donne, le persone di colore o coloro che hanno un genere non conforme alle norme devono lottare per far sentire la loro voce.

Ma quando l’identità diventa il nostro solo focus noi distruggiamo noi stessi. Prendiamo a esempio un tweet  (nel frattempo rimosso. Vedi la nota della redazione sotto [io l’ho trovato sulla rete e rimesso, NdRufus] di una critica e artista che scrive: «Quando le persone si riempiono la bocca con la psicologia evoluzionista, è sempre la teoria di qualche ambiguo uomo bianco colonialista che ignora la storia umana dei non bianchi. Ma “scienza”. Ok. La maggior parte del “pensiero scientifico” come lo conosciamo non è scientifico ma plasmato dal pregiudizio patriarcale di persone che basavano la propria autorevolezza su esso».Tweet controverso

Questa critica è intelligente. La sua voce è importante. Si è resa conto, correttamente, che la psicologia evoluzionista è viziata e che la scienza è stata spesso utilizzata per legittimare credenze razziste o sessiste. Ma perché allargarsi fino a mettere in discussione la maggior parte del “pensiero scientifico”? Non ci rendiamo conto quanto questo ci allontani dalle persone che già non sono d’accordo con noi? E tatticamente non capiamo quanto è miope essere scettici di un rispettato metodo di indagine solo perché è associato con i maschi bianchi?

Questo genere di prospettiva non è limitata a Twitter e ai commenti agli articoli dei blog progressisti. È nato nei recessi più nichilisti della teoria accademica e le sue manifestazioni sui social hanno importanti ripercussioni nel mondo reale. Facendo un altro esempio, due professoresse di biblioteconomia hanno additato pubblicamente e messo alla gogna un collega che accusavano di essere particolarmente sinistro ai convegni, arrivando fino a augurarsi pubblicamente la possibilità di rovinare la sua carriera [“sinistro”, creepy, nel contesto indica probabilmente che le seguiva, gli stava troppo addosso nella conversazione, violando il loro spazio vitale, o semplicemente le guardava troppo intensamente, tanto da suggerire che fosse un evidente predatore sessuale. A quanto capisco, convention e convegni sono un classico scenario di molestie, in America, e questo può aver contato nella dedizione mostrata dalle due tizie, ma nello specifico il caso si è concluso con la ritrattazione senza condizioni da parte delle accusatrici, NdRufus]. Io non ho dubbi che ci siano uomini particolarmente insinuanti ai convegni – ce ne sono. E per quel che ne so, il tizio potrebbe essere un maniaco di prima categoria. Ma parte del ritornello delle professoresse era la forte insistenza sul fatto che alle vittime di abuso non dovrebbe mai essere richiesto l’onere della prova, che l’enunciazione di un’accusa è tutto ciò che serve per ottenere un verdetto di colpevolezza.

Questo è terrificante. Nessuno lo accetterà mai. E se dovesse divenire un elemento caratterizzante della proposta politica liberale, i progressisti finiranno per subire una brutale sconfitta elettorale.

Il dibattito e la discussione dovrebbero idealmente moderare questa narrazione a base identitaria, rendendola più utile e meno minacciosa per gli esterni. Insegnanti e accademici sono i migliori candidati per far progredire questa discussione, ma la maggior parte di noi sono troppo spaventati e economicamente disarmati per poter dire alcunché. In questo momento non c’è molto da fare se non girarci i pollici e aspettare l’ascesa del colpo di ritorno conservatore – mettersi nella camera dell’eco, accumulare insulti contro la prossima persona o azienda che dice qualcosa di vagamente insensibile, isolarci sempre più da qualunque preoccupazione che possa risuonare fuori del nostro piccolo angolo di Twitter.

Aggiornamento: dopo un dibattito con la donna il cui tweet è citato in questo articolo, i redattori hanno convenuto che alcune delle conclusioni tratte non rappresentavano correttamente il suo tweet e l’articolo è stato emendato. La donna ha richiesto l’anonimato poiché ha detto di avere ricevuto minacce di morte in conseguenza dell’articolo, così il suo nome è stato rimosso. Sfortunatamente le minacce sono un’orrenda realtà per molte donne in rete e un argomento sul quale contiamo di riferire ulteriormente in futuro.

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