Contro le buone pratiche
Odio dirvelo, ma Babbo Natale non esiste…
… e neanche le buone pratiche.
Lo so, lo so, non c’è documento di progettazione o bando pubblico che non le citi, che non chieda di precisare se il vostro prezioso progetto è replicabile, scalabile o può dare adito alla diffusione (ovviamente in rete!) di buone pratiche (notate la modestia e il pudore della lingua italiana: noi traduciamo con buone pratiche l’inglese “best practice”, che vorrebbe dire “la migliore pratica”).
Non c’è operatore sociale, consulente aziendale o amministratore pubblico che non sia alla ricerca di una buona pratica sperimentata altrove da introdurre nella propria realtà.
Una buona pratica: una metodologia di successo impiegata in un determinato campo che possa essere copiata e replicata altrove.
Ma le buone pratiche non esistono.
Non sapevo bene come dirvelo, ma ecco: l’ho detto.
Via il dente, via il dolore.
Ok, forse sono stato un po’ duro. Adesso che ho la vostra attenzione andiamo con ordine.
Punto primo: la teoria
Il vecchio buon senso comune… inganna
È certamente vero che l’esperienza insegna, e che è possibile identificare dei modi di fare le cose che sono migliori di altri: in tutti i campi dell’artigianato o dell’ingegneria o in generale dove si tratta di gestire un processo tecnico con input e output misurabili si affermano di volta in volta degli standard che gli addetti del settore ritengono i migliori: più produttivi ed efficaci (o detto in altro modo: si può stabilire che ci sono tecnologie migliori di altre).
Si tratta di una affermazione di comune esperienza e basata sul buon senso, e già così però è in realtà ingannevole. Prima di tutto perché uno standard vale sempre solo nel caso che ci sia parità di condizioni, una restrizione che spesso non è chiara agli addetti del settore, figuriamoci al grande pubblico. Per esempio questa estate a Madonna di Campiglio, durante una visita a una malga, sono stato testimone di un curioso dibattito fra il casaro di malga e un visitatore che era docente di tecnologie agrarie all’università (insegnava come fare il parmigiano in modo semi-industriale, per capirci) sul modo migliore di fare il formaggio: i due, semplicemente, non parlavano lo stesso linguaggio, eppure il processo di riscaldare il latte e rompere la cagliata è relativamente semplice.
E poi non sempre è chiaro a tutti che la definizione di una buona pratica (o addirittura della migliore pratica) è storicamente determinato, cioè vale per un determinato momento, a partire da una determinata opinione prevalente su come valutare costi e benefici ed è destinato a modificarsi per mille motivi: non a caso in informatica spessissimo si preferisce parlare di miglior pratica corrente, dando per scontato che anche a breve termine potranno essere adottati altri standard e altre raccomandazioni.
Le buone pratiche come campo di studio
Il problema però è che il concetto di buona pratica è correntemente impiegato non tanto nel campo tecnologico-ingegneristico ma in quello delle attività sociali (il passaggio è stato mediato dalle politiche della sanità pubblica, dove le prassi operative sono strettamente legate alle disponibilità tecnologiche, peraltro, e dalla teoria aziendale, dove non sempre le teorie prevalenti si rivelano alla lunga particolarmente fruttuose).
E qui casca l’asino. Perché tristemente nei settori delle politiche sociali c’è un evidente squilibrio fra la quantità di occasioni nelle quali si evocano le buone pratiche come panacea di tutti i mali e la qualità dei risultati che è possibile rendicontare.
C’è in realtà un campo di ricerca accademico sulle best practice che è molto interessante, assolutamente rispettabile e ormai piuttosto sviluppato (un esempio di un buon “manuale da campo” che dovrebbe essere letto da tutti gli operatori è A practical guide to policy analysis di Eugene Bardarch, uno dei pensatori più influenti in materia).
La cosa notevole è che tutti questi testi sono sempre molto cauti nelle teorizzazioni, e c’è un’ampia letteratura che si preoccupa di elencare i limiti della teoria. Per esempio il professor Arnošt Veselý in una sua rassegna sull’argomento elenca una decina di limiti frequentemente citati a proposito della metodologia delle best practice:
- mancanza di fondamenti teorici e incapacità di spiegare perché una determinata pratica funzioni;
- impossibilità della metodologia di garantire che ciò che sappiamo del caso di studio sia realmente vero e di distinguere fra la pratica in sé e l’interpretazione dell’osservatore;
- basso livello di validazione indipendente e della possibilità di stabilire regole e risultati generali a partire dal caso in esame;
- non sufficiente rigorosità degli studi; tendenza a porre poca cura nel verificare i risultati ottenuti e a individuare spiegazioni alternative;
- mancanza di paradigmi uniformi e condivisi sulla cui base convalidare i risultati (una critica che però Veselý considera eccessivamente severa, almeno per una parte della teoria);
- non si fa uso sufficiente delle conoscenze accumulate e ci si concentra sul breve periodo ignorando le conseguenze a medio e lungo termine;
- scarsa o nessuna replicabilità delle buone pratiche;
- concentrandosi sui casi “buoni” si ignorano le possibili lezioni che si possono ottenere dai fallimenti;
- in molte situazioni le politiche d’azione più efficaci possono non essere quelle più avanzate ma altre, già abbandonate in settori più sviluppati ma in quei casi ancora le più efficaci.
Dopo una elencazione del genere, che stroncherebbe qualunque metodologia, Veselý placidamente aggiunge:
Mi piacerebbe aggiungere alcune argomentazioni e problemi più generali […] che sono stupito di non avere individuato in letteratura
e cita il fatto che le buone pratiche sono normalmente un approccio conservatore e limitato impiegato laddove non è possibile risolvere alla radice un problema, che sono sempre approcci estremamente specifici e che in contesti altamente competitivi come quelli odierni le organizzazioni tendono non divulgare le loro pratiche migliori e non c’è pertanto garanzia che ciò che riteniamo una buona pratica sia realmente lo stato dell’arte.
Punto secondo: i venditori e gli acquirenti
Consulenti: ma di che?
Quest’ultima osservazione ci porta al vero punto critico. Dopotutto il problema non possono essere gli studiosi che, come dimostra Veselý, sono anche troppo attenti a individuare i limiti della teoria.
Il problema sono in buona parte i consulenti, cioè coloro che vivono e si mantengono grazie alla diffusione di una determinata prassi. Molti di loro facevano già abbastanza danni nel campo della teoria dell’organizzazione, spacciando agli ingenui riforme aziendali di seconda mano: ma le politiche di finanziamento dell’Unione Europea e a cascata gli altri bandi pubblici – un campo di conoscenze arcane aperto solo agli iniziati – ha consentito loro di migrare verso nuovi e affascinanti mercati che potessero sostenere una pletora di progettisti, esperti e tutori vari.
L’idea delle buone pratiche fornisce una comoda cornice interpretativa utile a mantenere in piedi una importante sovrastruttura di controllo delle politiche sociali: può anche darsi che a questo non ci siano alternative, certo conoscendo i limiti della teoria si potrebbero prendere un pochino più con le pinze tutti i vari tentativi di piazzare pratiche sperimentate altrove che promettono risultati mirabolanti… o semplicemente di vincere sicuramente il prossimo bando della Comunità Europea.
L’altro venditore: la politica
Già, perché non siamo più diffidenti?
Ma perché il meccanismo dei tecnocrati è rafforzato da un altro grande agente pubblicitario: la politica. In un contesto di (apparente) caduta delle ideologie per molte parti politiche sembra utile puntare sulla capacità di buona amministrazione, e quale buona amministrazione migliore che la promessa di attivare anche in loco pratiche che si sono rivelate di successo altrove?
Le piste ciclabili che sono buone in sé, senza chiedersi mai dove, quando, come. La costituzione di meccanismi partecipativi, non in generale ma secondo una specifica metodologia (perché quella e non un’altra?). Il progetto di microcredito. Il dibattito politico si concentra sulle misure, molto meno sulle visioni.
Tanto più che non sempre la capacità legislativa dei poteri locali è davvero all’altezza; adottare pari pari una legge regionale già stilata da altri, per esempio, è una pratica ormai diffusissima: dopotutto lì ha funzionato.
Tanto più – aggiungo – se altrove l’introduzione della pratica o della legge si è colorata anche di posizionamento ideologico, cioè ha dato origine a dibattiti accesi: in questo modo si ottengono non solo dividendi amministrativi ma anche squisitamente politici, e tutti siamo molto più contenti.
Il divieto di ammettere a scuola bambini non vaccinati. L’epurazione dei libri gender. Il modulo con genitore 1 e genitore 2. L’abolizione delle auto blu. La schedatura dei bambini rom. La pedonalizzazione del centro. Il bonus bebé.
E poi, naturalmente, gli operatori
Certo, oltre i consulenti, i politici e gli amministratori locali c’è un’altra categoria che vende a tutto spiano l’idea della metodologia delle buone pratiche: sono quelli che ne hanno implementato una per la prima volta e che da questo traggono legittimazione, notorietà, possibilità di vendere sé stessi e transitare così nella categoria dei consulenti o forse, addirittura, in quella degli ospiti televisivi.
Ecco, diciamo che quando vi capita di sentire che la tale associazione, società o pratica è stata definita best practice dall’Unione Europea, è citata nell’enciclopedia tale o nel manuale tal dei tali, ha avuto il riconoscimento talaltro o ha vinto il concorso pincopallo, o che qualcuno è il fondatore di qualcosa, l’ideatore del tale movimento o l’inventore della tale pratica, ecco, io dubiterei. C’è una certa probabilità che vi voglia vendere qualcosa.
Che poi, non c’è niente di male a fare di mestiere il venditore, ovviamente. Solo che se a casa mia suona al campanello uno con un aspirapolvere in mano dubito: nel campo delle politiche sociali si dubita molto di meno, chissà perché.
Gli acquirenti, boccaloni, siamo noi
Adoratori di idoli
Amano dire gli esperti che la microfinanza non è un proiettile d’argento utile a sradicare la povertà.
Sapete cos’è il proiettile d’argento? Quell’unica arma che può uccidere il lupo mannaro. La soluzione magica risolutiva.
Non esiste.
Per esempio la microfinanza: uno strumento, molto utile in un gran numero di situazioni, ma nulla più (ed è già tanto).
Eppure conosco tanti che credono che il microcredito sia di per sé risolutivo. Anche tanti che credono che tu puoi fare finanza etica in mille modi ma se non fai microcredito non vali nulla.
Vale anche per tante altre cose: una certa moneta alternativa. Un certo tipo di gruppo di consumatori. L’adesione a una certa teoria economica. Un certo tipo di dieta o di alimento. Un certo modo di organizzazione politica. Un certo modo di fare rete. Un certo tipo di teoria aziendale. Una certa dinamica partecipativa.
Sto spostando qui il discorso sulle goodnews alla Report: che Brunetta creda al meccanismo della curva di vitalità per premiare (pardon: punire) i dipendenti pubblici mi dà fastidio ma non mi scandalizza; che tanta gente che crede che un altro mondo è possibile abbocchi al primo amo che passa mi pone molti più problemi.
C’è in parte un certo settarismo: ci sarà sempre qualcuno che desidera militare da qualche parte e seguire il guru di turno soddisfa questa esigenza tanto quanto militare nel PD o nel M5S (e fa probabilmente meno danni).
Ma il problema va posto molto di più sul piano culturale: dopo trent’anni di dominio di un pensiero di stampo neoliberista, di adorazione dell’economia di mercato, di sbornia aziendalista e di adozione di linguaggi e schemi mentali propri di quel campo culturale, anche chi gli si oppone finisce per utilizzare le stesse parole e gli stessi concetti e quindi per condividerne gli schemi interpretativi della realtà (anche perché negli anni dopo l’89 tanti – o tutti – fra i partiti politici e i produttori di pensiero alternativo nell’ansia di farsi accettare dai nuovi padroni ne hanno immediatamente accolto e fatto propria la cornice ideologica e quindi hanno scarseggiato elaborazioni diverse, soprattutto qui in Italia).
Le buone pratiche evocano e condividono la mitologia del successo come unico parametro di giudizio dell’esperienza esattamente come l’enfasi sulle autonomie locali fa propria l’idea della competizione darwiniana come via maestra verso il miglioramento sociale o l’autoimprenditorialità per i disoccupati sposta l’enfasi dalle condizioni del mercato del lavoro alla buona volontà del darsi da fare. L’egoismo sociale dei nazionalismi e dei particolarismi, popolarissimi oggi in Sardegna, è esattamente dentro lo stesso pensiero dominante, tanto quanto il sogno delle start up, che è più o meno l’equivalente imprenditoriale del gioco d’azzardo.
Potrei continuare ma credo che ci siamo capiti.
Un’ultima notazione dal punto di vista cristiano
Il problema dell’idea delle best practice, dicevo, è che fanno propria una narrazione e una ideologia del successo (tendono anche a idolatrare la forma e non il contenuto, ma questo nel contesto religioso mi sembra un problema minore).
Ora, il cristianesimo non è una religione del successo, posto che passare per la Croce non può che ripugnare istintivamente a chiunque e difficilmente può essere ritenuto un successo.
Dal punto di vista delle buone pratiche sarebbe stato meglio per gli Israeliti rimanere in Egitto, dove le pentole erano piene (Es. 16,3). Oppure non ungere re Davide ma uno dei suoi fratelli (Sam 16,1-13), un testo che è interessante far risuonare per il cristiano impegnato in politica o nel sociale (il grassetto è mio):
E il Signore disse a Samuele: «Fino a quando piangerai su Saul, mentre io l’ho rigettato perché non regni su Israele? Riempi di olio il tuo corno e parti. Ti ordino di andare da Iesse il Betlemmita, perché tra i suoi figli mi sono scelto un re». Samuele rispose: «Come posso andare? Saul lo verrà a sapere e mi ucciderà». Il Signore soggiunse: «Prenderai con te una giovenca e dirai: Sono venuto per sacrificare al Signore. Inviterai quindi Iesse al sacrificio. Allora io ti indicherò quello che dovrai fare e tu ungerai colui che io ti dirò». Samuele fece quello che il Signore gli aveva comandato e venne a Betlemme; gli anziani della città gli vennero incontro trepidanti e gli chiesero: «È di buon augurio la tua venuta?». Rispose: «È di buon augurio. Sono venuto per sacrificare al Signore. Provvedete a purificarvi, poi venite con me al sacrificio». Fece purificare anche Iesse e i suoi figli e li invitò al sacrificio. Quando furono entrati, egli osservò Eliab e chiese: «È forse davanti al Signore il suo consacrato?». Il Signore rispose a Samuele: «Non guardare al suo aspetto né all’imponenza della sua statura. Io l’ho scartato, perché io non guardo ciò che guarda l’uomo. L’uomo guarda l’apparenza, il Signore guarda il cuore». Iesse fece allora venire Abìnadab e lo presentò a Samuele, ma questi disse: «Nemmeno su costui cade la scelta del Signore». Iesse fece passare Samma e quegli disse: «Nemmeno su costui cade la scelta del Signore». Iesse presentò a Samuele i suoi sette figli e Samuele ripetè a Iesse: «Il Signore non ha scelto nessuno di questi». Samuele chiese a Iesse: «Sono qui tutti i giovani?». Rispose Iesse: «Rimane ancora il più piccolo che ora sta a pascolare il gregge». Samuele ordinò a Iesse: «Manda a prenderlo, perché non ci metteremo a tavola prima che egli sia venuto qui». Quegli mandò a chiamarlo e lo fece venire. Era fulvo, con begli occhi e gentile di aspetto. Disse il Signore: «Alzati e ungilo: è lui!». Samuele prese il corno dell’olio e lo consacrò con l’unzione in mezzo ai suoi fratelli, e lo spirito del Signore si posò su Davide da quel giorno in poi. Samuele poi si alzò e tornò a Rama.
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