Laney è intelligente. Sii come Laney
Laney aveva una particolare affinità con le architetture di archiviazione dei dati e un deficit di attenzione clinicamente documentato che in determinate condizioni poteva trasformare in uno stato di iperfocalizzazione patologica. Questo lo rendeva […] un ottimo ricercatore. (William Gibson, Aidoru)
Fra i tanti personaggi notevoli e indimenticabili di Gibson, Laney è quello che trovo più contemporaneo e al quale penso più spesso. Molly Millions/Sally Fields, la guerriera di strada con le sue lame retrattili sotto le unghie e gli impianti oculari cibernetici è molto più affascinante, un’icona che ha segnato l’immaginario di una generazione, ma Laney ha un posto qui e ora.
In Aidoru (il titolo originale è Idoru, la traslitterazione giapponese di idol, cioè una icona mediatica) Laney è un “ricercatore”. Non un hacker, e nemmeno un programmatore particolarmente abile, ma un cittadino digitale il cui handicap gli permette, in maniera misteriosa, di navigare oceani e oceani dei dati più disparati per trovare infallibilmente in maniera misteriosa le connessioni fra quelle quattro goccioline apparentemente ininfluenti che gli permettono di comprendere e sintetizzare perfettamente la situazione come nessun altro.
Aidoru è del 1996. La rete era già fra noi ma non c’erano ancora i social e la presenza digitale delle persone era relativamente limitata. La forza dell’immaginazione di Gibson mostrata nel libro è notevole e in qualche modo il testo è autobiografico, cioè illustra quello che Gibson stesso ritiene il punto centrale del suo processo creativo e del suo modo di intendere la fantascienza, che non è mai stato concentrato tanto sull’indovinare in anticipo le innovazioni tecnologiche, quanto i fenomeni sociali:
Il modo con cui Laney intuisce i “punti nodali” è una specie di metafora per qualunque cosa sia quello che faccio davvero. Ci sono letteralmente pezzetti di futuro in giro proprio qui, proprio ora, se sai come cercarli. E tuttavia non posso dirvi come; non è un processo razionale.
E di fenomeni sociali in quell’ormai lontano 1996 Gibson ne azzecca parecchi: il giornalismo trasformato in gossip organizzato, le celebrità digitali, il fandom e gli adolescenti, le corporazioni il cui unico capitale è la gestione di una singola star e star che sono vere e proprie corporazioni. Identità digitali la cui vera portata è incomprensibile, tanto che non vale più la pena di distinguere fra dimensione digitale e dimensione reale.
E oceani e oceani di dati e di informazioni e di costrutti digitali.
Nel descrivere il futuro, Gibson usa Laney per descrivere il suo modo di farci i conti come scrittore, ma tratteggia anche l’unica strada per sopravviverci. Ciascuno di noi sperimenta quotidianamente un bombardamento straordinario di informazioni: non è possibile analizzarle e ordinarle razionalmente, perché la capacità cognitiva richiesta è troppo alta. In qualche modo ci si deve affidare a un pensiero laterale: sbarazzarsi di tutto ciò che è irrilevante per concentrarsi su quei pezzetti di informazione che presi insieme danno un senso razionale alla realtà. Il che spesso – direi sempre – vuol dire non ragionare su cosa dicono questo o quello ma sul perché lo dicono.
Vorrei essere chiaro: non sto dicendo che occorre lavorare, come direbbero i tecnici, per ridurre il rapporto segnale/rumore. Se volessi fare quello non dovrei leggere né Repubblica né Lercio, tanto meno Gramellini o Michele Serra, ma solo pochissimi e selezionatissimi saggisti. Invece in tutte le fonti – indifferentemente! – insieme con una gran quantità di gramigna ci sono piccolissimi chicchi d’orzo: magari quel che può sorprendere è che una fashion blogger o – il che è quasi lo stesso – un amante delle scie chimiche ci dica della realtà, intenzionalmente o meno, tanto quanto l’arguto Gramellini.
E, naturalmente, non vuol dire essere controcorrente, come vedo fare a molti intellettuali di sinistra piuttosto blasé, che alla fine sono così alternativi che fanno tutto il giro e per non essere demagogici e populisti si sposano perfettamente col pensiero dominante. Quando la polvere si posa si può pure scoprire di avere della realtà la stessa visione de Il Giornale – spero di no – ma almeno ci è arrivati per la propria strada.
Né infine sto dicendo che, come per Laney, esiste un superpotere da affinare, o che è una questione di intuito sovrannaturale: quello è il vestito della fantascienza che Gibson gli ha cucito addosso. Per noi gente normale lavorare in questo modo vuol dire allenarsi, allenarsi e ancora allenarsi.
Vuol dire anche correre dei rischi: che sono quello, così umano, di sbagliarsi e di prendere fischi per fiaschi, di accorgersi dopo di aver fatto le connessioni sbagliate e nel caos di avere afferrato la particella di fuffa credendo che fosse una pepita d’oro. Lavorare come Laney fa risparmiare tempo e evita di doversi guardare quasi tutti i talk show, recuperando spazio da dedicare alla famiglia o a qualunque altra cosa, ma c’è la tentazione onnipresente di risparmiare tutto il tempo e di sposare il primo pensiero che ti passa per la testa, e non stiamo parlando di quello. Procedere in questo modo, lo ripeto, richiede lavoro.
E c’è anche il rischio di passare per rompiscatole: perché lavorare sull’intuito, sull’astrazione e, vivaddio, sul pensare con la propria testa vuol dire farsi opinioni sulle questioni che non sono necessariamente gradite e che, spesso, non saranno in accordo né con la democrazia del clic e dei meme né con la controrivoluzione di quelli che gridano agli analfabeti funzionali… cliccando mi piace e condividendo un pensoso editoriale di Michele Serra.
I rischi però, secondo me, valgono la candela: dopotutto pensare con la propria testa è sempre stato considerato augurabile e farsi le proprie sintesi personali per comprendere le situazioni è una strategia di sopravvivenza piuttosto condivisibile.
Laney non è, per come lo descrive la storia, un privilegiato: si gioca le carte che il destino gli ha assegnato. La sua vita è piuttosto complicata, e si aggrappa al suo strano handicap/superpotere per affrontarla al meglio.
Vale anche per noi: nessuno di noi ha scelto di vivere nell’oceano degli oceani digitali. Anche noi non possiamo che aggrapparci alla nostra intelligenza come a un relitto.
Fate come Laney.
Pingback: Fastidiosissimi – La casa di Roberto
Pingback: L’analfabetismo è politico, non costituzionale – La casa di Roberto
Pingback: Suggerimenti per giornalisti d’assalto – La casa di Roberto
Pingback: Virgin no more – La casa di Roberto
Pingback: Credere o non credere – La casa di Roberto
Pingback: Cambia il vento – La casa di Roberto
Pingback: Per il pensiero critico – La casa di Roberto
Pingback: Orientati male – La casa di Roberto
Pingback: Il problema di non farsi arruolare – La casa di Roberto