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Il mio favoloso viaggio di nozze e uno degli uomini più influenti del mondo

Leggere che Domenico Mimmo Lucano è stato inserito nella lista che Fortune compila per elencare le sue cinquanta personalità dell’anno (letteralmente sono i World’s 50 Greatest Leaders, i cinquanta maggiori leader del mondo) mi ha fatto ripensare al mio matrimonio.

Foto di Famiglia Cristiana
Foto di Famiglia Cristiana

Ho conosciuto Mimmo a Riace, il paese di cui oggi è sindaco. Era il 2001, con Bonaria sapevamo che l’albergo diffuso di Riace era stato uno dei primi finanziamenti di Banca Etica e decidemmo di andarci in viaggio di nozze. Arrivarci da Cagliari non fu semplicissimo: ricordo una specie di tassista dall’aereoporto di Lamezia Terme e una strada interminabile.

Riace, come moltissimi altri paesi della costa orientale calabrese, è diviso in due parti distinte e distanti. Il borgo antico è abbarbicato sulla montagna, in alto, al sicuro da smottamenti e alluvioni e dai pericoli provenienti dal mare. Il paese moderno, Riace Marina, invece è sulla costa, lungo la quale passano la ferrovia e la stradale. Riace Marina era un paese nel quale tutto sommato le cose non sembravano andare poi troppo male, ma Riace era invece un paese morente, in via di spopolamento e progressivamente svuotato di servizi.

Mimmo era il presidente di una associazione di giovani che aveva acquisito alcune case del paese vecchio lasciate sfitte dagli emigrati e le aveva riadattate – col prestito di Banca Etica – a scopo turistico. Io e Bonaria ci siamo sposati a fine ottobre e in quel periodo la stagione turistica era quasi esaurita: avemmo i servizi turistici del paese e una splendida casetta con terrazza panoramica con vista sul mare lontano tutti per noi.

Appena arrivati conoscemmo Mimmo, un altro ragazzo simpatico anche lui di nome Domenico e un paio di altri. Il loro quartier generale era una vecchia casa padronale nella quale nel periodo di punta i turisti facevano colazione e spesso cenavano anche insieme (per noi non valeva la pena e ci arrangiammo da soli), per non parlare di feste e degustazioni di cibo tipico: io i pomodori secchi così buoni come a Riace non li ho più mangiati da nessuna parte. Forse fu perché eravamo di Banca Etica, forse perché eravamo sposini (ehm), forse per le qualità naturali di Maria Bonaria, facemmo subito amicizia: ci raccontarono della politica del paese, della storia della loro associazione, del loro modo di organizzarsi, tutte le cose che ci sono nel dossier di Famiglia Cristiana che vedo circolare in rete. Non so però se il racconto dei giornalisti riesce a rendere giustizia all’estrema difficoltà nella quale il paese si dibatteva, anche nelle piccole cose quotidiane; per esempio l’unico barista aveva difficoltà a fare il cappuccino col latte fresco: in paese il camion frigo del latte non arrivava e lui doveva farselo lasciare in un qualche negozio di Riace Marina, a sette chilometri di distanza, e poi andarselo a prendere. La cosa ci parve davvero straniante, allora: poi l’estate scorsa in un market di un paese dell’interno della Sardegna mi hanno detto che il latte fresco non arriva più, e un brivido mi ha attraversato la schiena.

Rimanemmo colpiti, per certi aspetti, dalla loro estrema timidezza. Ci dissero, a un certo punto, che a Riace si tesseva la ginestra (infatti un centro tavola in ginestra fatto a Riace è ancora un pezzo pregiato del nostro arredamento). «È una cosa tipica», ci dissero, «in Europa la facciamo solo noi e un altro posto» (in Provenza, credo). Orpo, pensai, è un primato, no? Ma loro lo dicevano come a scusarsi che il loro primato non coinvolgesse una pianta più comune, o più accattivante, o più illustre. Altrove avrebbero messo un cartello all’inizio del paese, con scritto a lettere cubitali unici in Europa!, altro che scusarsi.

Non che Mimmo non avesse, all’occorrenza, la lingua lunga e la battuta pronta. Entro cinque minuti dall’averci conosciuto ci aveva offerto gratuitamente l’uso della sua macchina, una Twingo scassatissima. Tempo dopo gli feci notare, con qualche battuta, che magari la macchina non era proprio in regola in regola quanto a luci e specchietti. Velocissimo, mi fece: «E però vedi com’è? Che magari ci sono quelli che hanno la macchina tutta messa bene, ma quelli… la macchina non te la prestano». C’aveva ragione, ovviamente.

Con quella macchina in quindici giorni girammo la costa ionica in lungo e in largo, vedendo posti bellissimi e facendo incontri straordinari, come il pope greco mandato in Calabria (credo fossimo a Stilo) a reintrodurre l’ortodossia: parlava di San Bruno di Colonia, che nell’XI secolo venne dalla Germania a portare la regione nell’orbita di Roma e fuori da quella di Costantinopoli, come di un personaggio dell’oggi; «ci hanno mandato quel tedesco», diceva. Più volte scoprimmo che quella timidezza di cui parlavo a proposito della ginestra era invece già consapevolezza dei propri mezzi, almeno in potenza; altrove era molto peggio: in un negozio di bric à brac di Gerace trovammo un cesto pieno di tovagliette ed altre cose tessute a mano, che erano probabilmente la merce più di valore che avessero e invece stavano in un cesto poggiato per terra, vendute a un prezzo ridicolo. Il proprietario ci disse: «Oh, è roba che fa mia suocera, cosa vuole che sia, gliela vendo per cortesia», lavoro di donne – per giunta vecchie – e poco apprezzabile, quindi.

Sulla differenza di genere qualche progresso da fare forse c’era anche a Riace. Nella casa dove stavamo c’erano degli strani assortimenti di pentolame e di biancheria da casa, con esuberi di certe cose e mancanza di altre forniture comuni. Qualche moglie ci disse che dipendeva dal fatto che la spesa per arredare le case dei turisti l’avevano fatta gli uomini, di testa loro, e quindi un po’ di pentole e lenzuola le avevano comprate tutte sbagliate.

Ma l’esperienza più interessante che facemmo con Mimmo e con la moglie fu il lavoro sui telai. A Riace avevano già fondato una cooperativa di tessitrici che poi sarebbe stata, credo, un elemento importante nell’integrazione degli stranieri. La cooperativa aveva vinto un bando del parco dell’Aspromonte per aiutare a preservare i modi tradizionali di tessitura, e dovevano installare dei telai in cinque paesi e reclutare in ciascuno una maestra tessitrice e delle ragazze che fossero disposte a imparare le tecniche, in modo che il parco potesse contare potenzialmente su una offerta di prodotti tessili tipici locali. Li accompagnammo in una serie di giri e rigiri per presentare il progetto alle varie autorità comunali, installare i telai, incontrare le ragazze. Fu una esperienza istruttiva, il primo assaggio sul terreno di come si fa sviluppo locale della mia vita, e apprezzammo la fatica estrema che doveva fare l’associazione a muoversi sul territorio, fra commissari prefettizi che ti facevano fare ore di anticamera, assessori che per prima cosa segnalavano la nipote perché fosse inserita nel gruppo delle tirocinanti, presidi di scuola gelosi delle sale dove si dovevano montare i telai e compagnia bella; poi magari durante quei giri ti fermavi in un bar e ci trovavi i Carabinieri che si prendevano il caffè col mitra a tracolla, una cosa che non mi è capitato di vedere da nessuna altra parte.

Ho rivisto Mimmo solo un’altra volta, a Firenze nel 2006 durante un Terra Futura, come ho raccontato una volta al gruppo La Pira (e trascritto poi qui sul blog). Mi colpì moltissimo che si ricordasse di me, e le cose che raccontava commossero mia sorella:

Di nuovo dentro la zona stand, giriamo un angolo e mi imbatto in Domenico, il presidente dell’associazione dei giovani di Riace! Il paese albergo finanziato da Banca Etica! Dove sono andato in viaggio di nozze… Domenico ha una memoria di ferro e si ricorda di me a distanza di cinque anni. Soprattutto si ricorda di Maria Bonaria, mitica, le fa mille complimenti, si raccomanda che la saluti. Ripenso con un sorriso a come ci siamo inseriti nel loro tran tran familiare, nei loro progetti… un viaggio bellissimo nel sud profondo… sfido che si ricorda di Maria Bonaria: gli aveva perfino fatto… terapia familiare.

Domenico mi racconta della famiglia, di qualche difficoltà coi figli, mi dice: «Per tanto tempo siamo stati una famiglia molto volta verso l’esterno, orientata a dare, dare, dare… e un po’ l’abbiamo pagata», ma insomma, pare che tutto si aggiusti. Speriamo.

Nel frattempo mi racconta del ristorante che hanno aperto, del frantoio, la produzione di sottoli, il laboratorio di bambole, c’è sempre anche il laboratorio di tessitura, l’ospitalità per stranieri. E poi, mi dice, c’è una grossa novità, sai, ci sono state le elezioni e abbiamo fatto una lista Un’altra Riace è possibile, «con chiaro riferimento ai Forum Sociali Mondiali», dice proprio così, nella migliore tradizione del “pensare globalmente e agire localmente”, e insomma, il sistema tradizionale dei partiti era andato in crisi, quelle scelte sciagurate che avevano portato a sfigurare la costa con le costruzioni abusive non reggevano più, hanno colto l’attimo, «e sai com’è andata a finire? Adesso sono sindaco di Riace!». Io esulto, Iole si commuove, mi dirà poi che le è venuto in groppo in gola.

La notizia dà la stura a un altro giro di chiacchiere: Domenico racconta dell’opposizione di impiegati e tecnici del Comune, «ma io non voglio mai sentir dire: Non è possibile, non si può fare», del tentativo faticoso di sperimentare un nuovo modello di gestione del territorio. Alla fine ci salutiamo con calore, mi regala il DVD che hanno fatto per illustrare il paese.

Trovo nel modo pacato con il quale Mimmo ha accolto la notizia dell’inserimento nella lista di Fortune un po’ la stessa timidezza che mi colpì quando lo conobbi per la prima volta: forse i vari riconoscimenti che si sono accumulati nel frattempo, il film di Wenders, permetterebbero un tono più assertivo. Ma forse è questa cifra il segreto del successo dell’uomo, e probabilmente mi risponderebbe come quando mi lamentai per gli specchietti retrovisori mancanti della Twingo: «E sai che c’è? Ci sono sindaci che sono più noti e citati di me. Ma loro cosa farebbero per Riace, eh?».

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