La guerra su ruote come metafora sociale
Lo spunto casuale
Ho visto da poco a Stintino, durante l’ottima rassegna Life after oil (cioè “la vita dopo il petrolio”) il documentario Bikes vs Cars (“bici contro auto).
Non ne faccio una vera e propria recensione (in tre parole: molto interessante, un po’ lungo, un pelo datato); dico piuttosto che l’aspetto che mi ha colpito di più è la parte dedicata al caso di Toronto nel civilissimo Canada, dove un sindaco (Rob Ford, un interessante personaggio ora deceduto) si era fatto interprete di una vera e propria guerra alle biciclette e alle piste ciclabili – apparentemente con un gran seguito popolare – al grido di: «Le strade sono fatte per autobus, automobili e camion, non per le biciclette».
Gli automobilisti perseguitati
Si tratta di sentimenti diffusi (basta leggere su Facebook il gruppo Parliamo di Cagliari, dove periodicamente la cosa ritorna, trattata peraltro col livello di approfondimento abituale del gruppo, che oscilla fra il luogo comune e il coro da stadio; per la situazione USA, dove il tema è periodicamente dibattuto, c’è una buona sintesi in un articolo del 2014 di UsaToday ) e vederli esemplificati con questa chiarezza mi ha riportato alla memoria un pezzetto di un articolo del Guardian che forse dovrei tradurre, dedicato all’enorme sforzo fatto in favore delle corsie per ciclisti da Boris Johnson (già, proprio lui):
Le infrastrutture per ciclisti, per quanto possano sembrare basate sul buonsenso e perfino monotone, non riguardano l’ingegneria. Riguardano la politica, la cultura e i problemi sociali. Devono conciliare dispute territoriali fra le persone sulle biciclette, le persone sui veicoli e i pedoni e fra differenti generi di ciclisti. Possono assumere l’aspetto di un conflitto di classe, nel quale gli automobilisti talvolta si rappresentano, controintuitivamente, come le vittime sacrificali di una élite su due ruote.
Ecco: si rappresentano, controintuitivamente, come le vittime sacrificali di una élite su due ruote. Una minoranza oppressa.
È questo il punto centrale.
Attenzione: qui il punto non riguarda altre categorie, come per esempio i negozianti, e altre questioni come la pedonalizzazione dei centri storici, categorie e questioni che spesso sono incluse nella diatriba auto/biciclette. Qui il punto è specifico: io che guido la macchina, tu che guidi la bici. E una sola strada: non c’è posto infinito per tutti e due: se ci mettono la tua corsia lo spazio per le auto sarà più stretto, ci saranno meno parcheggi. Tu mi opprimi, ciclista. Tu mi ammazzi, guidatore. Eccetera.
Vere vittime…
Con buona pace di tutti in questa questione gli automobilisti sono, come categoria, gli oppressori e i ciclisti gli oppressi. O almeno, se non vogliamo spingerci fino a questo punto, gli uni sono i potenti e gli altri i deboli.
C’è, intanto, una categoria piuttosto ampia – anzi: nel mondo è sicuramente maggioritaria – di persone che vanno in bicicletta perché non si possono permettere altro (vi segnalo tre link interessanti in merito: uno, due e tre). Per quanto l’auto possa essere talvolta uno strumento essenziale di lavoro, è sempre costosa: non c’è nessuno che vada in auto perché non si può permettere altro. Per andare in auto occorre avere i soldi necessari. Checché se ne possa pensare, come categoria gli automobilisti sono i ricchi e i ciclisti i poveri.
E l’auto è pericolosa per i ciclisti: in Italia ne muoiono investiti, ogni anno, circa duecentocinquanta. Siccome i morti sono tutti uguali e anche uno solo è già troppo è sempre antipatico far notare che altri fenomeni sociali che comportano un numero assai minore di morti sono emergenze pubbliche che raggiungono le prima pagine dei giornali, e le morti dei ciclisti invece no: ma d’altra parte siccome i morti sono tutti uguali e anche uno solo è già troppo vale la pena di farlo notare lo stesso.
Per quanto sia vero che i ciclisti spesso hanno una interpretazione creativa della norme del Codice stradale molti studi provano che percentualmente il numero di ciclisti investiti e uccisi diminuisce all’aumento delle biciclette circolanti (è il concetto definito come safety in numbers) quindi il problema non dovrebbe essere che sono i ciclisti a essere distratti o imprudenti, ma che gli automobilisti non li “riconoscono” (e quindi casualmente li ammazzano): quando i ciclisti occupano maggiormente la strada anche gli automobilisti ne tengono in considerazione la presenza e adottano comportamenti conseguenti (e più prudenti).
In maniera più radicale gli automobilisti sono responsabili di altri danni indiretti ai ciclisti: c’è un articolo interessante de Linkiesta che riporta che a Milano metà degli incidenti in bici sono cadute non provocate da altri: dipende dal fatto che le strade sono malmesse, e le strade sono spesso malmesse perché il traffico è intenso; peggio: le strade e l’andamento del traffico sono progettati male, tenendo conto solo delle auto, e le conseguenze le pagano gli utenti deboli della strada: ciclisti, motociclisti e pedoni (non parliamo degli abusi come le auto in seconda fila, per esempio).
E poi, naturalmente, c’è il problema delle emissioni: se vado in ufficio in bicicletta posso sudare, puzzare e ammorbare l’ufficio (anche per questo ho smesso) ma non avveleno nessuno. L’ossido di carbonio sta massacrando il pianeta e molto dipende dalle auto.
Parentesi: sto lavorando per contrapposizioni perché la contrapposizione c’è ed è evidente. Ma naturalmente le categorie non sono monolitiche, e andrà chiarito che io ho una bicicletta (e un abbonamento dell’autobus) e anche una macchina. Anzi, a giudicare dai tempi di utilizzo, è più corretto dire che ho un’auto e anche una bicicletta. Sono un oppressore anch’io.
Quindi gli automobilisti come categoria sono gli oppressori. Ma ci sono automobilisti che invece che carnefici si sentono vittime. Che vivono lo spazio dato alle biciclette come una diminuzione. E ci dobbiamo chiedere come mai.
… e carnefici che si credono oppressi
Dal gruppo credo che possiamo togliere rapidamente quelli che vivono la macchina come un’estensione del loro pisello (peraltro ci sono anche molte donne nel gruppo): quelli saranno sempre aggressivi con chiunque, sulla strada, che siano pedoni, ciclisti o altri automobilisti – se hanno auto più grosse per invidia, se hanno auto più piccole perché stanno in mezzo alle scatole – e quindi non contano. E ci sono gli isterici, gli stressati per altri motivi e i fessi, tutte categorie più ampie di quel che si pensi: sul traffico come valvola di sfogo di tensioni sociali sono stati scritti interi tomi e non credo ci si debba tornare.
Come secondo passo c’è da dire che la rivalità fra auto e bici si inserisce in un conflitto più ampio sulle politiche ambientali e di mobilità urbana ed extraurbana. Se da una parte gli attori principali sono le grandi lobby petrolifere e industriali – compresi i palazzinari – e giù giù si arriva poi fino all’automobilista delle classi popolari, dall’altra parte una delle parti più visibili della coalizione verde sono i millennial di buon reddito, che usano la bici anche come scelta salutista e chiedono piste ciclabili lungo percorsi legati al piacere e all’intrattenimento e non alle reali esigenze di mobilità urbana.Prendendo a paragone un fighetto hipster da una parte e un pendolare su una Fiesta dall’altra si può (quasi) credere alla teoria della minoranza di automobilisti sacrificata al nuovo idolo verde delle piste ciclabili volute da una minoranza di adepti di SlowFood che mangiano esclusivamente spremute di mela taithiana biologica e formaggio di capra malgascia biologica nutrita con menta nepalese (biologica). Gente così può permettersi sì andare in bici: noi che lavoriamo come potremmo fare, signora mia? Che i mezzi pubblici non funzionano, e c’ho i bambini da accompagnare a scuola e tutto quanto.
E qui, credo, sta il punto. Il traffico è davvero stressante. I tempi di percorrenza nel traffico urbano sono davvero lunghi ed è tutto tempo sottratto, alla fin fine, alla vita, agli affetti personali e ai propri interessi. E i mezzi pubblici spesso non funzionano, davvero, per non parlare di altri servizi pubblici mancanti o deboli che inducono a prendere la macchina.
Sono state fatte, negli anni, scelte urbanistiche, sociali, di mobilità urbana, che hanno indotto con forza le persone ad avere la macchina e a adeguare i propri stili di vita a scelte basate sul petrolio e sul trasporto su gomma. Scelte insostenibili, come si vede oggi e come (probabilmente) si vedeva già ai tempi (o comunque già molto tempo fa).
L’atteggiamento razionale richiederebbe di chiedere conto duramente di queste scelte a chi le ha fatte e poi adottare tutti quei comportamenti conseguenti che ci portino in altre direzioni.
Ma farlo comporta dei costi economici, comporta lo sforzo di trovare e adottare altri comportamenti e di adeguarvi la propria vita, comporta delle rinunce emozionali (l’auto è un investimento affettivo notevole), comporta banalmente anche solo la fatica mentale di sentirsi cambiare. E comporta dei costi politici e sociali collettivi impressionanti: non c’è potere forte più forte del petrolio, il che vuol dire che se si ritiene che «non c’è niente da fare» e ci si deve rassegnare alla catastrofe ambientale e sociale c’è da pagare anche il costo psicologico della sconfitta.
Per una parte degli automobilisti è troppo, e a disposizione c’è una scelta molto più facile.
Prendersela con i ciclisti.
I ciclisti servono cioè la funzione sociale di capri espiatori sui quali scaricare tutte le frustrazioni del traffico, delle buche, delle code, della mancanza di parcheggi, delle seconde file, dell’inquinamento, e così via: sono gli alieni e i diversi della vita sociale (infatti non hanno quattro ruote come noi, ma due), la minaccia esterna che rovinerà il nostro precario equilibrio della mobilità urbana per portarci alla catastrofe finale.
Il che è ovviamente ridicolo sul piano della razionalità pura, ma funziona, eccome se funziona: a Toronto Rob Ford era un politico popolarissimo, e lo era dando sfogo a queste pulsioni sociali e facendosene interprete.
La teoria del falso oppresso
In realtà questa meccanica, che nel caso delle biciclette si vede benissimo, è una metafora molto potente della situazione politica attuale (e forse di sempre) e può essere facilmente generalizzato: laddove un cambiamento è impossibile o troppo costoso la parte più povera del blocco sociale di potere, alla quale la classe dominante fa pagare i costi del sistema, individua un nemico esterno, più in baso di sé sulla scala sociale, sul quale scaricare la colpa della situazione e da presentare come minaccia.
Prendete la precarietà del lavoro e la debolezza degli ammortizzatori sociali. Sostituite gli automobilisti con la piccola borghesia e le classi popolari, i ciclisti hipster con la Boldrini e la gran massa dei ciclisti “normali” con gli immigrati. Di chi è la colpa, chi è la minaccia? Gli immigrati, che ci rubano il lavoro. Per loro si fa tutto, gli si danno trentacinque euro al giorno (piste ciclabili ovunque) mentre per noi italiani (automobilisti) non c’è niente.
Fila perfettamente. Nella realtà gli immigrati sono i veri poveri, e la qualità della élite che si fa interprete delle loro esigenze – magari anche per motivi strumentali – è ininfluente. Gli italiani, anche quelli in condizione fragile, sono in prima battuta infinitamente più garantiti degli altri: banalmente, sono cittadini e votano. È l’incapacità di attivare il cambiamento che li pone in posizione di minorità e li obbliga a trovare un capro espiatorio come unica via di salvezza, ponendoli in un posizione di miserabilità.
Ecco: miserabilità. I veri oppressi sono per definizione miseri, ma i falsi oppressi sono miserabili. E in questo sta tutta la loro incomunicabilità.
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