Comporre la (buona) vita
Non credo di avere mai avuto occasione di dire quanto mi piace Brain Pickings, il blog di Maria Popova che, come dice il nome, coglie fior da fiore e propone letture sempre intellettualmente stimolanti.
Lo segnalo raramente perché in realtà si tratta spesso di libri non tradotti in Italia, talvolta magari dei classici della sociologia o dell’antropologia, e quindi abbastanza settoriali, o testi o autori minori, popolarissimi negli Stati Uniti ma molto meno noti fuori di quell’ambiente culturale.
Quest’articolo che segue però mi ha colpito – è molto adatto per discussioni – e ho deciso di tradurlo: contiene, fra l’altro, molte delle ossessioni ricorrenti del blog della Popova, l’antropologia, Margaret Mead, la buona vita e la felicità e, infine, le tematiche di genere e di identità.
L’articolo è del 13 settembre 2016. Sfortunatamente, il libro principale a cui si fa riferimento non mi pare tradotto in italiano (EDIT: mi segnalano che è stato tradotto da Feltrinelli nel 1992 col titolo Comporre una vita: è fuori catalogo ma c’è in varie biblioteche pubbliche), e forse anche diversi dei testi secondari: ho comunque mantenuto i vari link originali contenuti nel testo (molti sono verso altri articoli della Popova), come base per percorsi di ricerca personali. Le illustrazioni sono una parte di quelle originali.
Comporre una vita: l’antropologa Mary Catherine Bateson sui nostri falsi miti di realizzazione e la complicata, non lineare realtà di come noi diventiamo ciò che siamo.
di Maria Popova
«Il cavaliere errante, che si trova le sue sfide lungo la strada, può essere un riferimento migliore per i nostri tempi del cavaliere alla cerca del Graal»
«Vivere deve essere ancora riconosciuto dal grande pubblico come una delle arti», proclamava una guida del 1924 all’arte di vivere mentre, dall’altra parte dell’Atlantico, Betrand Russell rifletteva su ciò che la buona vita comporta davvero. E tuttavia, man mano che il ventesimo secolo incalzava e i consumi eclissavano la creatività, il nostro immaginario e le nostre idee su ciò che costituisce una buona vita sono stati man mano resi meno distinguibili dal culto dell’avere, al quale sottomettiamo l’arte dell’essere come un’offerta sacrificale.
A metà degli anni ’70, il grande filosofo umanista e psicologo Erich Fromm si dedicò al problema di liberare noi stessi dalle catene della nostra cultura. Fromm era un visionario di una natura differente – così tanto che la leggendaria antropologa Margaret Mead si rivolgeva a lui per consigli sugli aspetti più difficili della vita – e insisteva sul fatto che «la piena umanizzazione dell’uomo richiede un rivolgimento totale dall’orientamento al possesso all’orientamento all’attività». Ma ci volle più di un decennio perché questa rinfrescante scintilla innescasse la luce della consapevolezza nel focolare della cultura.
Poche persone sono state più importanti per questo risveglio verso una vita autentica dell’antropologa Mary Catherine Bateson (nata l’8 dicembre 1939), la figlia di Mead [e di Gregory Bateson, NdRufus]. Il suo trattato del 1989 Comporre una vita (nella più vicina biblioteca pubblica) continua a rimanere una ricerca straordinariamente penetrante sulle nostre mitologie, culturalmente condizionate, di appagamento e di successo, e su cosa sia necessario per trascenderle e vivere una vita autentica e piena di significato – una vita che è invariabilmente molto più complicata e piena di contraddizioni di quanto prevedano i nostri miti fuorvianti sull’autorealizzazione.
Bateson scrive:
Il nostro senso estetico, che sia nell’arte o nella vita, si è sovraconcentrato sulla testarda lotta verso un singolo scopo piuttosto che sul fluido, il mutevole, l’improvvisato. Noi vediamo le realizzazioni come determinate e monolitiche, come lo scolpire un enorme tronco che deve prima essere tratto dalla foresta e poi plasmato dal duro lavoro per affermare la visione dell’artista, piuttosto che qualcosa di architettato con cianfrusaglie di ogni genere, come una trapunta patchwork, amorevolmente usata per scaldare notti diverse e differenti corpi.
Bateson ritiene che il concetto di «comporre una vita» sia la metafora perfetta per l’atto di creazione definitivo, quello della creazione di se stessi:
Comporre una vita è in relazione metaforica con molte arti diverse, compresa l’architettura e la danza e la cucina. Nelle arti visuali una varietà di elementi disparati può essere disposta a formare un insieme simultaneo, così come noi combiniamo obiettivi di vita simultanei. Nelle arti temporali, come la musica, una diversità sequenziale può essere condotta nel tempo verso l’armonia. In altre arti ancora, come l’arredamento o il giardinaggio, la coreografia o l’amministrazione, la complessità è intrecciata sia nello spazio che nel tempo.
Quando le scelte della vita e del tempo cambiano, come è accaduto nei nostri tempi, lo studio della vita diviene una preoccupazione crescente.
Ma la più solida eredità del testo seminale di Bateson – l’intuizione che torna attuale nella nostra età – è il suo insistere sul fatto che l’arte di comporre una vita non è sempre limpida e lineare, esattamente così come non è riservata ai privilegiati e a quelli baciati in fronte dalla fortuna. Scrivendo mentre si posava la polvere dei movimenti per la liberazione della donna e per i diritti civili, mentre le persone reclamavano il loro posto duramente conquistato nella cultura mentre tentavano di far quadrare le esigenze della vita quotidiana, ella sostiene che i diseredati, gli oppressi, coloro che storicamente sono stati messi da parte e emarginati e coloro le cui vite sono state violate e compresse in altri modi, possono prendere il proprio posto in questa arte del vivere con eguale dignità e grazia. Con un occhio a queste vie tortuose di autorealizzazione, che potrebbero apparire prive di scopo e confuse all’occhio di uno spettatore troppo pronto al giudizio, Bateson scrive:
È ora tempo di esplorare il potenziale creativo di vite interrotte e piene di conflitti, nelle quali le energie non sono strettamente focalizzate o permanentemente puntate verso una singola ambizione. Queste non sono vite prive di impegno, ma invece vite nelle quali gli obiettivi sono continuamente rifocalizzati e ridefiniti. Dobbiamo investire tempo e passione in specifici obiettivi e allo stesso tempo riconoscere che essi sono mutevoli. Le circostanze delle vite delle donne di oggi e del passato forniscono esempi di nuovi modi di pensare per le vite sia degli uomini che delle donne. Quali sono le possibili ricadute dell’apprendimento quando la vita è un collage di compiti differenti? Come fa la creatività a fluire dalla distrazione? Che rivelazioni sorgono dallo sperimentare la molteplicità e l’ambiguità? E in quale momento la disperata improvvisazione diviene un risultato significativo? Queste sono domande importanti in un mondo nel quale siamo tutti sempre più stranieri e affittuari. Il cavaliere errante, che trova le sue sfide lungo la strada, potrebbe essere un migliore modello per i nostri tempi del cavaliere alla cerca del Graal.
Nel resto dell’indispensabile Composing a life, Bateson prosegue col tracciare il ritratto di quattro donne che esemplificano quest’arte del trarre faticosamente un significato da vite caotiche e interrotte. Attraverso le loro storie esamina le nostre credenze e precomprensioni ereditarie riguardo all’ambizione e alla realizzazione, demolendo alcune delle nostre mitologie culturali più limitanti – quelle con le quali continuiamo a lottare decenni più tardi, particolarmente nella nostra idea di successo – per rivelare le verità più riposte della realizzazione umana.
Combinate con Nietzsche su come trovare se stessi e poi assaporate ancora della penetrazione intelligente e sensibile di Bateson nella vita moderna nella bellissima conversazione su On Being con Krista Tippett: