Selvaggi futuristi
Savages, di Don Winslow
Di Winslow ho letto, due o tre anni fa, Il potere del cane, un regalo di cui non ringrazierò mai abbastanza il mio amico Alessandro Celoni, pilastro della finanza etica e uno dei miei punti di riferimento cinematografici.
Però leggere Il potere del cane è, più o meno, come ricevere un calcio di mulo nello stomaco e per un po’ ho preferito evitare di rischiare di ripetere l’esperienza – per quanto il libro mi fosse piaciuto. Poi quest’estate ho preso e letto Frankie Machine (di cui ho parlato pochi giorni fa proprio in previsione della recensione di oggi), ho fatto la pace con Winslow e ho deciso di esplorare meglio la sua bibliografia.
Savages racconta una storia che nella sua struttura fondamentale mette in fila una serie di topoi del romanzo d’avventura (e nero): Piccolo contro Grande, l’Uso della Violenza che Trasforma, la Spirale Senza Fine. Ben e Chon sono due giovani californiani bene, diversissimi: Chon è un mercenario addestrato dai Navy SEALs, Ben è un genietto della biologia e della botanica, no global, pacifista, che spende i suoi soldi in attività umanitarie nel sud del mondo. Il piccolo particolare è che i suoi soldi hanno una fonte inaspettata: Ben ha selezionato la miglior marijuana a nord del confine col Messico e a sud del Canada e la vende a un ristretto, selezionato e affezionato pubblico di consumatori un tantino blasé, con lo stesso aplomb con cui un maestro zen del the potrebbe dispensare miscele accuratamente selezionate.
È un traffico ecologico, sostenibile, consapevole (voglio dire, agli spacciatori paga i contributi, capiamoci). Però questa è droga, ragazzi, e un bel (brutto) giorno arriva da parte di cattivissimi narcos messicani un’offerta di quelle che non si possono rifiutare. E nonostante le peculiari capacità di Chon garantiscano un buon livello di protezione, parliamo pur sempre di due contro un intero cartello messicano, e quindi da lì in poi le cose si fanno… interessanti, diciamo. E il pacifico Ben deve, suo malgrado (o forse non tanto), diventare il regista di una guerra senza quartiere.
La parabola di Bene e Chon, in piena coerenza con la migliore tradizione dell’hard boiled, è raccontata dentro un contesto: Winslow si permette il lusso di mischiare alla storia più di un paio di note caustiche sullo stile di vita californiano – dei ricchi californiani – compreso un lungo inciso a pagina 77 in cui si prendono a schiaffi, di seguito, John Wayne, i campi da golf e i Repubblicani – soprattutto i Repubblicani, fotografando lo sconcerto post elezione di Obama:
Just a short while ago the Republicans were objests of fear and hatred – now they are just pathetic assholes. Barry took them to the paint and cut their throats. (O-BAM-a!) Now they walk around like white frat boys in Bed-Stuy, talking tough to show they aren’t scared as the urine streams down their chinos into their cordovans. Obama has these dweebs so turned around all they can do is get behind some fat junkie DJ, a gibberish-spewing PsychoBimbette from the Far North, and a tele-dork who gives adrenaline-crazed, 1950s-style “chalk talks” (speaking of little white dicks) like some health-class instructor in a sex-offender unit.
L’altro elemento che da un po’ di profondità è il tema ricorrente dei selvaggi: è selvaggia la guerra in Iraq&roll che ha insegnato il mestiere a Chon, sono selvaggi i narcos, ma per i messicani sono selvaggi senza cultura gli yanqui che hanno rubato la loro terra. Gli unici selvaggi che sono fuori della storia, definitivamente fuori, sono i pacifici pescatori indonesiani per i quali Ben ha costruito una scuola e un ospedale: la loro vita bucolica – da selvaggi primitivi – spiagge fantastiche e uccelli multicolori, è per sempre preclusa a Ben e Chon.
Parentesi. C’è un altra dimensione di inciviltà che è suggerita sommessamente, e che descriverei così: per me, che sono un pacifico cinquantenne (sebbene non proprio naif), sono selvaggi anche Ben e Chon, i loro amici e il loro modo di vita. Ma non perché sono trafficanti di droga: perché sono giovani e appartengono a un’altra civiltà. Infatti…
Infatti, e questo è l’elemento più distintivo del libro, parlano un’altra lingua e vivono a un’altra velocità: sinora abbiamo parlato di un thriller di buona fattura, sopra la media ma ancora convenzionale. Il linguaggio usato trasforma Savages in qualcosa di completamente diverso.
Scritto in un misto di prosa, versi sciolti e varie altre cose – in alcuni momenti si passa anche alla sceneggiatura cinematografica –Savages sembra scritto da Filippo Tommaso Marinetti – se Marinetti, invece di fare l’alpino, si fosse paracadutato su Vienna con due kalashnikov a tracolla, in pieno trip da LSD e con un machete fra i denti per strappare di persona le budella a Francesco Giuseppe (e comunque a pagina 62 c’è un pezzo che è identico a una poesia di Palazzeschi). Per molti aspetti Savages è un libro futurista, più futurista di molto cyberpunk, se non altro perché più sfrenato, laddove Gibson o Sterling sono sempre stati molto più controllati e politi. Sarebbe piaciuto al Pazienza di Zanardi, sarebbe piaciuto.
Un esempio piuttosto pacato della scrittura, scelto praticamente a caso:
Their goal: to produce the best marijuana in the world.
This was the seed (we’re getting there) of an idea, and, like any great idea, it all starts with the seed.
The best cannabis seed in the world comes from…
Afghanistan.
No ocean, no waves
But hellaciously fine cannabis seed, the absolute premium of which is called –
The White Widow.
Coincidence or fate?
You decide.
Insomma, Winslow, che altrove scrive in maniera interessante ma piuttosto convenzionale, per raccontare una storia selvaggia (per alcuni aspetti direi delirante) sceglie un linguaggio lisergico. Non è solo la costruzione della frase, è anche il linguaggio, che è ricco di invenzioni e sincopato all’eccesso, pieno di spagnolo, slang, scorciatoie e sigle (sono orgoglioso di avere capito al volo 2G2BT – too good to believe it – mi sono restate ignote un paio di altre cose: per fortuna sono stato addestrato da William Gibson a prendere le parole ignote così come vengono). Tra l’altro c’è anche dentro abbastanza sesso da far venire un infarto a un’intera folla di madri superiore delle Orsoline, compreso un consesso a tre descritto fin nei minimi particolari.
Non è ovviamente il primo romanzo scritto così, sperimentale o mainstream, ma nel genere gli esempi non sono poi tanti e senz’altro questo è un buon risultato.
Insomma: sesso, pistoloni, avventura, linguaggio scoppiettante. Tutto bene, allora?
Insomma. Come altre volte in Winslow il finale è decisamente affrettato, sebbene del tutto coerente con la storia: non è un cattivo finale, solo troppo improvviso, come se a tre pagine dalla fine Winslow si fosse reso conto che lo spazio concesso dall’editore era finito.
L’altro problema è, esattamente, nel linguaggio.
Che è una scelta stilistica appropriata alla storia e ai personaggi da raccontare.
Così come il lungo intreccio de Il potere del cane
– era trattato con l’alternarsi dei punti di vista e
l’ultima avventura di Frankie Machine aveva il ritmo della ballata.
Ma tanta maestria
tanta ricerca
alla lunga diventa pesante, e il lettore giustamente si chiede
se lo stai prendendo per il sedere.
Credo che ci siamo capiti: il confine fra sfoggio di bravura e paraculaggine è sottile come la lama di un coltello… nel caso specifico sarebbe più appropritato fare una similitudine con le seghe elettriche che i narcos usano per decapitare le loro vittime, ma non mi viene e poi
– avete mai provato a camminare sulla lama di una sega elettrica?
Ben e Chon
loro
ci hanno provato.
Ok, basta, la smetto, anche perché non sono bravo come Winslow.
L’ultimo piccolo elemento di perplessità riguarda Elena la reina, la capa del cartello messicano. Non è un brutto personaggio, anzi, ma per essere la spietata capa di un sinistro gruppo criminale viola almeno tre volte le buone regole di condotta del perfetto signore del male, il che è senz’altro troppo.
Note editoriali e altro
Come spesso capita, ho letto Savages in lingua originale. Di solito indico la versione italiana: in questo caso sono molto perplesso, perché è impossibile che l’impasto linguistico originale riesca a passare in italiano. D’altra parte è un testo in un inglese davvero complesso, per cui consiglio la lettura solo a chi ha veramente confidenza con l’american English.
È anche in circolazione Le belve, il film da cui Savages è tratto, di Oliver Stone: ho evitato di vederlo prima di finire il libro, e adesso è sparito dalle sale cittadine, per cui non posso dirvi molto, se non che:
- capisco come Stone possa essersi sentito attratto da Savages, ma l’estetica della violenza di Stone mi sembra abbastanza diversa dal tema fondamentale del libro;
- vedo da Wikipedia (occhio agli spoiler nella pagina) che la trama è significativamente cambiata: quella del libro probabilmente era impossibile da portare sullo schermo tale quale, ma i cambiamenti non mi sembrano felici;
- la parte più interessante è comunque la costruzione del linguaggio e la visione lisergica della vita californiana, che in ogni caso non si possono portare sullo schermo, salvo la presenza di monologhi indimenticabili di cui mi pare nessuno abbia parlato.
Detto questo, se riesco a recuperarlo io a vedere Le belve ci vado…
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