Non si unisce a questa schiera
Ma esistono, resistono ancora, anche i fautori del “vita tua, vita mea”, quelli che qui chiamerò “salmoni”: perché provano sempre e ancora a risalire la corrente, a nuotare contro di essa, ad opporsi generosamente alla marea montante della morte.
I pacifisti, gli ecologisti, i filantropi, le associazioni umanitarie e di volontariato, i movimenti di solidarietà e di cooperazione, varie realtà ecclesiali, gli educatori e i formatori, i difensori dei diritti umani, i sostenitori dei “beni comuni” e i seguaci delle “buone pratiche”. E i (sempre) “giovani dei centri sociali”. Propalatori a oltranza di speranza e di fiducia, quelli del «Restiamo umani!», del «Resistere, resistere, resistere», quelli che… la “resilienza” sempre, oh yeah!
Un mondo ancora abbastanza attivo, certo. Ma che ha già vissuto la sua disfatta, che è stato travolto, sconfitto, e – sostanzialmente, nei suoi significati più profondi – neutralizzato da tempo.
Sia perché, in gran misura, inquinato dal denaro e dal potere dei governi (di fatto, parlare ancora di “associazioni non governative” oggi non ha più senso…), “embedded” dagli eserciti e dai poteri militari (come nel caso della Protezione «Civile» o degli interventi umanitari in aree di guerra), preso in ostaggio e utilizzato dagli “insurgents”, ignorato, ingoiato e manipolato dai mass media.
Sia, e soprattutto, perché si ritrova continuamente a tappare falle in uno scafo alla deriva e senza chiglia, quasi a svuotare l’oceano con un secchiello, o prosciugare spiagge devastate dopo uno tsunami. Peraltro, collaborando così al mantenimento del sistema e non al suo cambiamento, colludendo con esso.
La sensazione diffusa è che i salmoni siano sfiatati, abbandonati a se stessi, e non possano più rivestire una funzione politica, ma di ancillare assistenza, mero primo soccorso, quasi sempre ormai neanche più “sussidiario”, ma “sostitutivo” dell’intervento statale (se non, in molte situazioni, anche in contrasto con esso).
E tra i salmoni metterei anche chi (e quella parte di me che) insiste a “fare cultura” e a “fare arte”: quelli del “non omnis moriar”, della “spes contra spem”, dell'”amor vincit”, i tenaci portatori d’acqua di Eros (in agonia).
Quelli che guardano sempre oltre, e investono in quel che non c’è più o non c’è ancora, e non sarà.
Ecco, a loro – che conosco bene – vorrei ricordare che la speranza (“elpis”) stava nel fondo del vaso di Pandora. Ma come mai stava lì, in fondo al vaso dei mali, tra i mali?
Alla fine, sempre dopo che tutti i mali si sono scatenati sulla terra, arriva a salvarci o almeno a consolarci. E ci tiene in vita, nel dolore, ci permette di sopravvivere e di guardare avanti, direte voi. Ma questo, in fondo, soprattutto oggi, non è un male? Non è un male qualcosa che non ci permette di toccare il fondo, non ci aiuta a entrare nella di-speranza e nella disperazione, e a deciderci finalmente a vivere compiutamente la catastrofe, a vederla senza veli e senza scampo, oltre le illusioni della ragione, della fede (e del mercato)?
(Enrico Euli, Fare il morto, Sensibili alle foglie 2016)
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