L’apertura dello scenario
Non ho molti dubbi che la discussione sulla proposta di reintrodurre la chiusura domenicale dei negozi dimostri, ancora una volta, che molti che si dicono di sinistra non lo sono più da tanto e che il pensiero di forze che ufficialmente ancora si dichiarano di sinistra, o almeno di centro-sinistra, è dal punto di vista ideologico del tutto soggetto a posizioni liberiste e dal punto di vista materiale asservito a poteri economici come quelli della grande distribuzione. Sono cose più o meno trattate qui sul blog in altre occasioni e non mi dilungo; e tutto sommato non mi interessa neppure rilevare la crassa ignoranza di persone laureate ai vertici delle rispettive professioni che sui social non perdono occasione per inveire contro gli analfabeti funzionali e oggi parlano e sparlano di diritti dei lavoratori che sono già tutelati senza sapere che il mondo del commercio è una jungla di contratti differenti e che quello che dicono corrisponde alla realtà tanto quanto il fiato di un terrapiattista a un convegno di geografi. A questi andrebbero aggiunti anche quegli anticlericali di professione che interpretano questo dibattito come uno scontro fra religione oppressiva e libertà di pensiero, fra oscurantismo medievale e modernità: a parte che casomai sarebbe uno scontro fra religioni, con le cattedrali opposte ai McDonald’s e dal loro punto di vista non saprei cosa sia meglio, in ogni caso hanno confermato il sospetto che molti che tengono ai diritti civili di diritti sociali, sostanzialmente, non capiscono nulla.
Mi ha colpito molto, invece, la dimensione di egoismo – in certi casi mascherato da sentimentalismo peloso – che porta molti fa cui anche molti amici e persone insospettabili a valutare l’apertura domenicale sull’unica misura della propria comodità, infischiandosene dei costi o dei sacrifici che questo può comportare a carico di altri. È un egoismo diffuso e in molti casi perfino feroce, però non è particolarmente sorprendente e anche di questo non mi interessa particolarmente parlare.
Mi interessa molto di più, invece, raccontarvi di una terza categoria di persone e di un vecchio sociologo degli anni ’80 che mi è tornato in mente di conseguenza.
Franco Garelli era uno studioso della religiosità in Italia, legato ai Salesiani, che mi è capitato di ascoltare più vote fra un convegno e l’altro dell’Azione Cattolica e altrove. Uno dei suoi libri più fortunati (e uno dei suoi contributi maggiori) è intitolato La religione dello scenario. Argomentava, Garelli, che la pratica del cattolicesimo in Italia era equiparabile a una specie di grande fondale teatrale, che rimaneva costantemente alle spalle degli attori, cioè le persone, anche ad una certa distanza, salvo avvicinarsi in primo piano in occasioni particolari del vivere: battesimi, matrimoni, funerali, la Cresima… Naturalmente quel che interessava di più a Garelli era far notare in maniera critica quanto distacco ci fosse fra una religiosità così intesa e quel che avrebbe dovuto essere un cattolicesimo più intensamente vissuto, ma il suo concetto è rimasto valido anche successivamente quando, a fronte di una pratica cristiana ancora più ridotta (per esempio: calo dei matrimoni), ci siamo resi conto di quanto confortevole, identitaria, desiderata fosse la presenza di quel fondale per tanti: l’invocazione dell’identità cristiana dell’Europa, le tradizioni, il dualismo fra noi e gli stranieri, identificati per forza come di altra religione, il recupero pubblico dei segni della fede. Non è comprensibile il crocifisso di Salvini senza il riferimento alla religione dello scenario, un fondale contro il quale tanti amano farsi riprendere da ben prima di Instagram: anzi, l’unico uso possibile della religione, posto che tanti che agitano i suddetti rosari in chiesa non capita spesso di vederceli.
Perché la questione dell’apertura domenicale dei negozi mi fa ricordare Garelli e questa seconda accezione del suo pensiero? Perché noto che per tanti l’apertura domenicale dei negozi – così come altre dimensioni del vivere sociale e dell’assetto urbano dei nostri centri – rappresenta esattamente una quinta teatrale equivalente contro la quale collocare i propri desideri e il proprio senso di identità. Detto in altro modo, c’è (o c’è stata) un sacco di gente che si sentirebbe spaesata con le chiese chiuse o senza i crocifissi alla parete, senza la possibilità degli abiti bianchi al matrimonio, sconcertata che un bambino non venga battezzato, perplessa di fronte all’assenza di un funerale, anche se personalmente nessuno di loro va mai in chiesa, perché in questo modo può proiettare la propria identità contro un fondale panoramico rassicurante, tradizionale, che evoca immagini di coesione e di abitudini collettive consolidate. E allo stesso modo c’è un sacco di gente che è rassicurata dal fatto che la città sia viva ed animata, i centri commerciali aperti, la città piena di ristoranti affollati e di turisti che passeggiano, contenta che anche la nostra città abbia la spiaggia lungo il fiume come quell’altra capitale o le biblioteche dell’università aperte fino a mezzanotte come a Oxford: non perché vadano tutti i giorni al ristorante o a passeggiare in centro né, vivaddio, in biblioteca a mezzanotte o al centro commerciale la domenica, che è pieno di ragazzini, ma perché questo consente di immaginarsi, come nel fondale di un selfie, proiettati contro un panorama di felicità e prosperità.
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