La piaga infetta di Guantánamo
Ho scoperto recentemente, ma non ho il tempo di tradurlo e quindi posso solo suggerirne la lettura in originale, un articolo straordinario del 2019 del New Yorker che racconta così tante cose assieme che non so neanche da che parte cominciare per riassumerle.

Stiamo parlando del campo di prigionia di Guantánamo, quindi lo scenario è chiaramente quello della guerra al terrore, un capitolo della storia recente sul quale, fra l’altro, mi pare che la riflessione e il ripensamento sia ancora del tutto assente, anche di fronte a avvenimenti epocali come il ritorno al potere dei Talebani in Afghanistan.
La storia è, prima di tutto, quella di un disagio: un militare americano di stanza a Guantánamo vive una sorta di curioso meccanismo di Sindrome di Stoccolma al contrario rispetto al prigioniero – importantissimo, specialissimo, pericolosissimo – e passa dall’essere un ragazzotto di campagna stolido, conservatore, cristiano e ignorante a diventare una persona inquieta, studiosa, di religione mussulmana e aperto ai problemi del mondo.
Sarebbe già una storia notevole, ma quella che prende piede man mano è, in parallelo, la storia del prigioniero: che a sua volta nella lettura si scopre non essere importantissimo, specialissimo e pericolosissimo ma, sostanzialmente, un povero diavolo di nessuna importanza imprigionato in una situazione che al confronto Kafka è uno stimato barzellettiere. C’è tutto un gioco di rimandi, di specchi e di transfer fra il prigioniero e il custode – in fondo in questi luoghi di isolamento la realtà si sfrangia e non è sempre chiarissimo chi tenga prigioniero chi.
Già così l’articolo sarebbe, come capite, interessantissimo. Quello che mi ha sorpreso di più, però, è il racconto di tutto il contorno, in particolare la stupidità crudele, o la crudeltà stupida, dell’apparato repressivo paranoide, disumano e incompetente messo in piedi dagli USA, una dimensione che non è propriamente sconosciuta per chi era già adulto all’11 settembre ma che qui appare con una plasticità davvero impressionante.
Per dire: proprio in questi giorni apprendiamo di un atto terroristico contro una sinagoga in Texas che mirava a ottenere la liberazione di Aafia Siddiqui, condannata negli Stati Uniti a 86 anni di carcere per atti di terrorismo legati a al-Qaeda. Ecco: a usare come metro di giudizio le vicende raccontate in questo articolo, Siddiqui è innocente. È sicuramente innocente. Poi è chiaro che io non lo posso sapere, ma il punto è che si scopre che il gigante della ricostruzione giudiziaria e di intelligence del terrorismo di al-Qaeda fatta dagli americani ha i piedi di argilla, e quindi è lecito dubitare (cosa che renderebbe ancora più importante tirare le somme di tutta la vicenda ora che sono ormai passati vent’anni, e non lasciarla scivolare nel dimenticatoio).
Mentre preparavo questa segnalazione scopro che della vicenda narrata nell’articolo è stato tratto nel 2021 un film, The Mauritanian, che vedo disponibile su Prime per chi fosse interessato (in realtà, secondo me anche il precedente Camp X-ray racconta, grosso modo, la stessa storia).