Le impreviste delusioni di padre Spadaro (e quel certo moralismo…)
Aperture di credito
Qualche settimana fa grazie a un articolo sul sito dell’Azione Cattolica ho scoperto padre Antonio Spadaro: gesuita, direttore della Civiltà Cattolica, teologo esperto delle dinamiche del web, animatore culturale e acuto critico di Flannery O’Connor (si dice anche che sia lui il consulente principale del Papa per la redazione dell’ultimo messaggio per la Giornata Mondiale delle Comunicazioni Sociali, dedicato appunto ai social network).
Mi pareva che Spadaro avesse delle cose interessanti da dire, basate oltretutto su un’elaborazione teorica nata a partire da una esperienza pluriennale di presenza in rete – e non ci sono molti cattolici, tanto più della sua levatura intellettuale, che possano vantare la stessa esperienza – quindi ho deciso di leggere qualcosa di suo di più strutturato degli interventi sui suoi blog. Ho perciò ordinato e comprato Web 2.0. Reti di relazione: una lettura che mi aspettavo piacevole e che invece mi ha suscitato, man mano, un sentimento di perplessità crescente e poi di profonda delusione.
Dico subito che probabilmente ho sbagliato libro, e che quello adatto a me era Cyberteologia (di cui trovo una recensione positiva dell’insospettabile .mau.): questo non toglie, però, che Web 2.0 sia un libro concepito in maniera sbagliata e che, a parte la sua strutturazione, evidenzia un paio di problemi di contenuto non da poco.
Web 2.0. Reti di relazione (Edizioni Paoline, € 15)
Web 2.0 è palesemente un manuale di base, indirizzato ad aiutare un utente neofita a orientarsi all’interno dei social network e di quelle altre dimensioni più interattive della rete digitale.
Dopo un capitolo introduttivo, che tenta di spiegare le dimensioni social e relazionali presentando i diversi contenuti che possono essere condivisi sulla rete (e gli strumenti per farlo) si passa poi a esaminare, capitolo per capitolo, alcuni strumenti (dimensioni?) specifici: blog, podcast (ma non YouTube, di cui si parla nell’introduzione), tre social network (Facebook, Twitter e Anobii), Second Life, Wikipedia e… la privacy (sic). Che cosa sia esattamente ” il 2.0″ è oggetto di guerre di religione che fanno impallidire le discussioni sul sesso degli angeli, quindi non mi metto a discutere dell’appropriatezza dei temi scelti: certo un po’ danno un’impressione di eterogeneità.
Che lettore modello?
D’altra parte l’obiettivo non sembra quello di definire il web 2.0, piuttosto quello di accompagnare per mano dentro la dimensione 2.0 una persona che… già, esattamente quale dovrebbe essere il tipo di “lettore modello” che Spadaro ha in mente?
Non può essere una persona che non abbia mai navigato in Internet, perché la trattazione parte, sotto questo punto di vista, in medias res: tutta una serie di contenuti di base (cos’è un sito, per dire) sono già presupposti. Perciò il lettore ideale non è, diciamo, un parroco che si è comprato il PC da poco, sa che se clicca sul mappamondo entra nel temuto mondo di Internet e ci vuole capire qualcosa: dargli in mano questo libro o un trattato sulla glottologia araba del XVI secolo sembrerebbe più o meno lo stesso.
Il lettore modello è allora chi? Il mio parroco che si è iscritto a Facebook e ci posta ogni tanto preghiere mariane? Un sacerdote, catechista, operatore pastorale che sinora non ha vissuto il web come luogo di relazione e adesso potrebbe fare un salto di qualità? Forse no: costui certamente potrebbe scoprire parecchie cose nuove da punto di vista del cosa, quasi niente dal punto di vista del come e assolutamente niente dal punto di vista del perché.
D’altra parte il lettore modello deve essere per forza di questo livello di competenza (e di, diciamo così, “passività” nell’uso del web), perché a livelli appena più elevati il libro appare banale.
Non è una narrazione… purtroppo
Insomma: o troppo complicato o inutile… Il problema è che questa voglia di accompagnare il neofita dentro la rete nasconde un errore di prospettiva di fondo, che è l’idea che questo “viaggio iniziatico” possa essere vissuto in maniera vicaria, tramite un libro che spiega di che si tratta: ma un buon libro sul web 2.0 non è mai un manuale di istruzione a priori, è piuttosto una narrazione a posteriori. Lo spiega secondo me benissimo un recensore del libro di Mafe di cui ho parlato lo scorso fine settimana (i grassetti sono suoi):
È un saggio sulle aziende e il social in internet, che però io ho letto come un romanzo di formazione. Una distorsione della quale mi piacerebbe rendere conto. Non sono un’azienda, ma sto in rete da tanto tempo. In questi anni ho dovuto imparare a starci, anche se parte dell’apprendimento s’è svolto sotto un entusiasmo notevole, quindi non m’è pesato. Per dire che il processo non è stato per niente naturale o intuitivo. La prima parte del saggio di Mafe, dedicata alle condizioni elementari di scambio in rete, non è un decalogo, cioè una serie di regole prescrittive, ma raccoglie il percorso di un’esperienza e cerca a posteriori di definire le regole che l’hanno reso possibile. È descrittivo, non prescrittivo, secondo me e secondo la stessa Mafe in margine al suo testo. In questo senso descrive un percorso che abbiamo fatto in tanti: il protagonista non conosce le regole del mondo in cui s’avventura, all’inizio dell’esperienza, ma in parte le impara e in parte le forgia finendo per lasciare una traccia nel mondo in cui entra a far parte, o partecipando comunque allo spessore dei suoi confini, anche dove non lascia tracce, come succede alla maggior parte dei singoli. Sotto questa luce, non mi sembra più così assurdo vederlo come un romanzo di formazione.
Insomma: se il mio parroco, il giovane prete, il catechista, volesse imparare a stare in rete, lo dovrebbe fare immergendovisi; la rete è relazionale (di questo stiamo parlando) e può essere compresa solo dentro relazioni con persone, non mediante un manuale. E d’altra parte uno o si vuol mettere in gioco, e allora appena dentro Facebook capirà subito di che si tratta (e come fare il podcast lo scoprirà casomai con una ricerchina su Google), oppure non c’è santo che tenga, e non sarà un catalogo ragionato come questo a cambiare il suo approccio. Il che non vuol dire che non si possano scrivere libri sul web 2.0, ma che preferibilmente dovrebbero essere libri che aiutino a capire l’esperienza che uno sta già facendo. Cito di nuovo una frase di Mafe de Baggis che ho riportato anche l’altro giorno:
Se per voi gli ambienti digitali sono solo un recinto per egocentrici ansiosi di affermare la propria personalità, se volete a tutti i costi attivare il passaparola ma non sapete bene quale parola far passare, se fate leggere le mail alla stagista, se non avete mai desiderato conoscere meglio qualcuno solo leggendo le sue parole, se pensate di aver capito tutto di Internet che è “questo_e_quello”, posate il libro, aprite un blog, cercate i vostri compagni di classe del liceo su Facebook, insomma, immergetevi nella Rete e poi tornate qui.
Spadaro, che la rete la vive davvero, lo dovrebbe sapere benissimo e stupisce l’approccio di questo libro. Un testo in cui padre Spadaro avesse raccontato quel che ha fatto e fa sulla rete sarebbe stato preziosissimo: questo catalogo di strumenti, invece, oltre a essere già precocemente invecchiato (venti pagine su Second Life sono palesemente inutili ora, ma lo erano già nel 2010 quando il libro è uscito), espone ingiustamente l’autore all’umorismo involontario, come quando parlando dei blog scrive, con una cura del dettaglio degna di miglior causa:
Esso è costituito, in genere, da tre campi verticali: quello centrale contiene i post (cioè i materiali «postati», pubblicati), quello di sinistra gli archivi, quello di destra i link ad altri siti o blog (il cosiddetto blogroll).
Sul versante squisitamente ecclesiale: le Paoline come Pippo Baudo…
Sin qui Web 2.0. Reti di relazioni sarebbe semplicemente un instant book poco interessante. In realtà ci sono dentro alcuni contenuti che mi hanno molto infastidito e che suscitano ulteriori domande.
Intanto il libro è dotato di un apparato redazionale che tenta di suggerire l’idea dell’ipertesto: ogni capitolo è preceduto da parole-chiave colorate – per il podcast, per esempio, trovo “jukebox digitale”, “forma compatta”, “dimensione e peso ridotti”, “grande memoria interna” e “autonomia energetica” – e altri bolloni colorati richiamano i concetti chiave dei capitoli (sempre per il podcast: luogo aperto di trasmissione e fruizione di contenuti multimediali). Ogni pagina ha inoltre un richiamo grafico molto evidente in cui il titolo del capitolo è associato a un’altra parola chiave, sempre diversa: dapprima credevo che servisse a sintetizzare i concetti esposti nella stessa pagina, poi mi sono reso conto che è un apparato largamente decorativo. Il tutto dà l’impressione di un tentativo un po’ bolso dell’editore (spero) di dire: «Ehi, questo è proprio un libro attuale! Vedete, è colorato come Internet. Ci sono le icone!! Ehi! Siamo le Paoline ma anche noi siamo féscion! Siamo trendy! Siamo ggggiovani», come se ci fosse il retropensiero che in realtà noi, con questa roba, non c’entriamo niente e dobbiamo sforzarci di dimostrare il contrario. Un po’ come Pippo Baudo che tentasse il rap: lo farebbe professionalmente, ma proprio non sarebbe cosa…
… Web 2.0 come Famiglia Cristiana
Se questo è un peccato veniale le schede sintetiche coi semafori verdi e rossi sono invece mefitiche. Semafori?! Già, perché ogni sezione è introdotta da una scheda sinteticissima che elenca pro e contro di ciascuno strumento (dimensione) citata, sullo stile dei noti giudizi sintetici di Famiglia Cristiana sui film: “accettabile/dibattiti”, “discutibile/crudezze”, “consigliato/solidarietà”. Su Facebook, per esempio, qui abbiamo in rosso “profili costruiti, narcisismo/esibizionismo, abolizione privacy, relazioni superficiali”, controbilanciato in verde da “aggregare persone, costruire eventi, segnalare letture, creare fan club”. Caspita: attendo un libro di padre Spadaro sul telefono in cui si discuta di come le dimensioni positive “chiamare la mamma lontana, reperire facilmente persone, Pina butta la pasta che sto arrivando” possano essere neutralizzate da “telefonate erotiche, stalking, elevato costo delle bollette nel caso di figli adolescenti”.
Fra Concilio e Progetto Culturale
È vero che la trattazione non è su questo livello di banalità, però la preoccupazione morale (moralistica) è prevalente in ciascun capitolo, in cui c’è sempre (sempre!) la discussione dei pericoli potenziali derivanti dall’uso incauto dello strumento e l’elencazione dei modi con cui i cristiani l’hanno utilizzato o lo possono utilizzare per il bene – il Godcasting è buono, quindi controbilancia il silenziamento della vita esterna connesso con l’uso dell’iPod. È una prospettiva singolarmente gretta, attenta a un uso strumentale del web, funzionale a garantire una “presenza” cristiana, e che solo raramente si apre a discussioni di maggior valore antropologico (come gli accenni all’utopia conoscitiva globale di Wikipedia), o al pensiero del destino del genere umano nel complesso, non solo dei cattolici in esso; una prospettiva lontana dal Concilio
la comunità dei cristiani si sente realmente e intimamente solidale con il genere umano e con la sua storia (GS 1).
Dice mia moglie: «te la prendi tanto perché è da un po’ che non sei più in servizio pastorale attivo, e ti sei dimenticato com’era la pubblicistica cattolica che leggevamo noi per formarci». Mica tanto: i testi dei Salesiani sulla gestione dei gruppi e sulla comunicazione erano migliori dei testi di impostazione aziendale su come gestire i sottoposti in ufficio. Erano più onesti, più liberanti, più interessanti, oltre che più adatti alle nostre esigenze (che erano peraltro abbastanza eterodosse). Web 2.0 con i suoi orpelli, la sua preoccupazione morale e l’ottica più centrata all’interno della Chiesa è un libro peggiore di libri simili concepiti in ambito laico; sto leggendo adesso Fondamenti di comunicazione sociale di Gaia Peruzzi, un libro abbastanza consigliato nel giro di Banca Etica e del Terzo Settore, con una impostazione per molti aspetti simile a quella di Web 2.0: ebbene, ha gli stessi difetti ed è destinato anch’esso a invecchiare precocemente, ma a parità di queste condizioni è molto più interessante.
Detto in altro modo: se dovessi suggerire al giovane potenziale webmaster della parrocchia un libro per formarsi, mi sentirei di suggerire senza riserve World wide we e (persino) Fondamenti di comunicazione sociale; ma avrei imbarazzo a consigliare Web 2.0 a un componente non credente del gruppo dei soci di Banca Etica che volesse migliorare la sua comprensione del social, perché troverebbe nel libro, giustamente, la conferma della solita immagine censoria dei cattolici, autoreferenziali e lontani dai (o presenti strumentalmente nei) flussi culturali comuni.
Sarà un segno dei tempi? Mi interrogo sulla contraddizione di un tempo della Chiesa in cui ci si sforza di dialogare con le culture e si impianta un complesso Progetto Culturale e in cui, contemporaneamente, l’elaborazione culturale sembra più rivolta all’interno e/o attenta a marcare le distanze e le differenze.
Naturalmente la recensione di Maurizio Codogno su Cyberteologia citata sopra dimostra che la questione non riguarda Spadaro, riguarda solo Web 2.0: ma questi son tempi in cui anche un solo scivolone del genere è di troppo, e noi ne facciamo a migliaia.
Un giudizio sintetico
Mi sono interrogato più sopra sul “lettore modello” di Web 2.0. Alla fine, mettendo insieme la struttura, la forma e i contenuti, sono arrivato a una risposta.
Web 2.0 non è un libro per chi in rete ci vuol stare: è un libro per chi della rete vuole parlare. Per costui, che sia il cardinal Bagnasco o un parroco, il libro è utile: permette di andare a una conferenza (o di fare un’omelia) e di sembrare aggiornato anche se i Tweet glieli manda il segretario, permette di avere presenti le tendenze culturali pur senza avere mai fatto l’esperienza della rete. Come tale non è un libro utile a portare le persone dentro la rete, è piuttosto un libro che permette di rimanere fuori e di marcare una distanza – una prospettiva culturale tremenda, se fosse l’atteggiamento di tutta la comunità ecclesiale. Già questo è terribile: ma vista l’enfasi sui “pericoli” della rete che lo attraversa non oso pensare che sconquassi possa fare nelle mani del padre Livio di turno.
Beh, non necessariamente. È possibile (non avendolo letto non lo so) che Web 2.0 sia nato con lo scopo esplicito di dare un’idea della rete a chi sa (dovrebbe sapere) di pastorale, e quindi taglia le cose con l’accetta: esattamente come Cyberteologia ha lo scopo di dare un’idea della teologia a chi sa (dovrebbe sapere) di Web 2.0, e quindi taglia i temi teologici con l’accetta.
Dalla recensione mi sembrava che ti fosse piaciuto.
a me Cyberteologia è piaciuto, ma appunto non sono certo un teologo.
Pingback: I libri che ho letto nel 2013