La scienza grama
In Inghilterra e negli Stati Uniti, paesi in cui ha conosciuto un rispetto di lungo termine molto maggiore che in Italia, l’economia politica gode addirittura di un nomignolo, peraltro poco incoraggiante: the dismal science, espressione di Carlyle che più o meno vorrebbe dire “la scienza grama”.
Gli studenti di Scienze Politiche, che hanno tutti un’impostazione umanistica e a cui Economia Politica viene inflitta al primo anno, saranno senza dubbio convinti che il nome dipenda dall’apparato matematico che è necessario per studiarla; in realtà il soprannome fa riferimento alla triste realtà che tutti i beni economici sono scarsi per definizione (cioè: anche volendo non ce n’è per tutti, il che è già una verità piuttosto scoraggiante) e al fatto che l’economia tratta con motivazioni dell’animo umano che non hanno una buona fama: ansia per il profitto, avidità, volontà di accumulazione, egoismo, conflitti fra lavoratori e datori di lavoro.
Sarà per reazione a questa nomea che negli ultimi anni c’è stata una fioritura in lingua inglese di testi scritti da serissimi economisti che però si sono sforzati di trattare gli argomenti loro consueti con un tocco, come dire?, più sbarazzino: che fosse satirico o comico o grottesco, comunque accattivante per il pubblico.
Ho letto recentemente Freakonomics, che è considerato il capostipite del genere ed è uscito negli USA, e mi sono sentito spinto a confrontarlo con il suo maggior rivale, The undercover economist, che invece è stato pubblicato in Inghilterra e che avevo letto un paio d’anni fa. Ne è uscita una specie di recensione incrociata, perché le soluzioni adottate dai due scrittori sono piuttosto diverse.
The undercover economist (Tim Harford, 2006) e Freakonomics (Steven Levitt & Stephen Dubner, 2005)
Le basi
Prima di tutto i riferimenti alle edizioni italiane: il libro di Harford è pubblicato da Rizzoli come L’economista mascherato, quello di Levitt mantiene per Sperling & Kupfer lo stesso titolo dell’inglese ed è attualmente fuori catalogo – ma calcolando che sta per arrivare da noi il film che ne è stato tratto probabilmente uscirà di nuovo; oddio, considerando le misteriose politiche editoriali italiane non si può mai dire, ma insomma, è probabile.
Poi due parole sugli autori: Harford ha avuto significative esperienze professionali in istituzioni come la Banca Mondiale o l’Università di Oxford ma è sostanzialmente un giornalista e un divulgatore, autore di fortunate rubriche (fra cui Caro economista sul Financial Times che è stata spesso ripresa anche da Internazionale); Levitt invece è un astro del firmamento accademico, vincitore della John Bates Clark Medal, che è una specie di Nobel per i giovani economisti, e ha una solida fama – direi accuratamente coltivata – di accademico con interessi di ricerca bizzarri e controcorrente. Levitt non è propriamente uno scrittore e per arrivare al libro ha avuto bisogno dell’incontro con Dubner, che è un giornalista professionista; ovviamente Harford non ha questi problemi.
Due impostazioni differenti
Nonostante questo Harford ha prodotto un libro molto più “accademico” del suo concorrente d’oltreoceano. Anche se dichiara di aver voluto scrivere un libro che facesse “entrare” l’economia nella vita quotidiana e utilizzasse gli strumenti della disciplina per illuminare aspetti imprevisti della vita delle persone, The undercover economist è, sostanzialmente, un (ottimo) corso universitario di microeconomia base. O ancora meglio: è un perfetto repertorio di prove d’esame di fine corso, argomenti che uno studente dovrebbe saper sviscerare nel momento in cui ha terminato il ciclo di lezioni e che non sono teorici ma basati su questioni pratiche e quotidiane.
Per i non addetti ai lavori: la microeconomia è quella parte della scienza economica che studia le scelte individuali dei consumatori e degli imprenditori, delle famiglie e delle imprese: domanda, offerta, preferenze di consumo, concorrenza, monopoli, cose così. Harford parte, in maniera devo dire molto divertente, da una scelta che tutti compiono quotidianamente, il caffè o il cappuccino al bar – da Starbucks, ovviamente, il signor Mario sotto l’ufficio è fuori del suo orizzonte – e mette in scena la lotta fra voi e un cameriere. Lui vuole sfruttare la vostra caffeinomania per farvi pagare il massimo (agli economisti in ascolto: la domanda di caffè è anelastica, no?) e voi da parte vostra volete pagare il meno possibile il vostro vizio quotidiano, e così Harford illustra gli elementi base di domanda e offerta. Entrano successivamente in scena i supermarket e il tre per due, venditori di stampanti rallentate a bella posta, sconti per studenti e un’intera galleria di episodi che servono a complicare le cose e ad arricchire man mano il quadro, fino a quelle che gli economisti chiamano, pudicamente, “imperfezioni del mercato” e che spesso vogliono dire che le cose non vanno come previsto dalla dottrina economica: scelte effettuate in presenza di informazioni sbagliate o imperfette, negoziazioni al buio o con un avversario che possiede informazioni migliori delle vostre, dilemmi morali e una serie di altre questioni del genere.
Un corso di microeconomia potrebbe finire qui, ma Harford in realtà è pronto a questo punto a mantenere la promessa e farvi utilizzare gli strumenti di cui vi siete impadroniti per ragionare su questioni che non sono più private ma pubbliche: la riforma sanitaria, le emissioni delle industrie inquinanti, la gestione dei beni pubblici, la corruzione, le barriere doganali e il commercio internazionale e così via.
Nel mezzo non ci sono molti racconti imperdibili, ma parecchie cose comunque interessanti: a distanza di anni dalla lettura ricordo ancora, per dire, la descrizione del sistema sanitario di Singapore, la storia delle stampanti rallentate apposta dai produttori per poter abbassare il prezzo, la gestione delle acque pubbliche in Nepal, la corruzione in Camerun e l’incredibile risultato dell’asta alla cieca per l’assegnazione delle frequenze televisive in Inghilterra. Combinato con un tono uniformemente divertente e spesso direttamente brillante non è per niente poco, e certamente si tratta di una lettura raccomandata.
Però Levitt, sotto questo punto di vista, è meglio: i suoi capitoli, sebbene disorganici, sono molto più memorabili e imprevedibili; confrontate la lista che ho fatto poco sopra per Harford con questa: perché insegnanti e lottatori di sumo sono uguali? cosa è più pericoloso: avere in casa una pistola o una piscina? perché gli spacciatori di crack vivono ancora a casa delle loro madri? ci si può fidare degli agenti immobiliari? è meglio comprare le bare e organizzare i funerali sul web? la risposta a queste due domande può indicare come si può sconfiggere il Ku Klux Klan? che rapporto c’è fra tolleranza zero, l’aborto legalizzato e i tassi di criminalità? che nome scegliere per il proprio figlio? È del tutto evidente che dal punto di vista della bizzarria pura e dell’affabulazione fra Harford e Levitt non c’è partita: il primo tratta argomenti che per un economista sono, tutto sommato, usuali, il secondo può davvero vantarsi di avere portato la scienza economica in territori inaspettati.
L’economista gramo
Il problema però è che è abbastanza difficile sostenere che il libro di Levitt e Dubner sia un libro di economia. Non ho letto gli articoli scientifici con cui Levitt ha affrontato buona parte delle domande che ho elencato e coi quali ha vinto importati riconoscimenti accademici, ma la rozzezza (almeno apparente) della sua strumentazione culturale è sconcertante: le persone reagiscono a incentivi. Punto. Ammette, da qualche parte, che gli incentivi possono non essere solo economici, ma insomma: la sua visione degli attori economici sembra, al fondo, abbastanza schematica. L’altro punto ricorrente è l’attenzione alla disparità di informazioni fra gli attori coinvolti, che è in sé un incentivo a sfruttare questo vantaggio (gli economisti direbbero: vantaggio competitivo) per trarne guadagno, il che rende appunto malfidate categorie dotate di un monopolio informativo come i vostri avvocati, agenti immobiliari o, beh, economisti. È un concetto più “fine”, più moderno, ma l’incrocio fra questi due strumenti produce una visione della realtà tutto sommato abbastanza, lo immaginerete, grama, appunto.
Anche la strumentazione economica di Levitt sembra ugualmente elementare: la stima di regressioni lineari (per i non economisti: sono strumenti statistici e matematici avanzati, ma non preoccupatevi, fidatevi di me, funziona uguale se vi dico che Levitt usa i tarocchi per le sue indagini) per confrontare diverse variabili e capire quali sono le cause di ciascun fenomeno studiato. Ovviamente la storia non è tutta qua, perché Levitt ha la capacità geniale di intuire quale insieme di dati statistici scandagliare e quali grimaldelli utilizzare perché la sua stima delle variabili dia risultati che a altri economisti sono sfuggiti. Però non è economia. Almeno: non del tutto.
Esempi? Quello più controverso, e che ha portato Levitt all’attenzione dell’opinione pubblica americana, è che l’introduzione dell’aborto legale negli Stati Uniti ha comportato una variazione demografica (la maggior parte degli aborti sono stati praticati su madri povere e appartenenti a minoranze etniche) che ha fatto sì, detto in parole povere, che nascessero meno potenziali criminali. Capite che negli Stati Uniti quando ha pubblicato l’articolo è scoppiata una polemica senza fine.
Il punto che mi ha colpito di più, però, è quello che riguarda gli insegnanti. A un certo punto Levitt si accorge che i test obbligatori somministrati agli studenti di Boston alla fine di ciascun anno di corso, e sulla base dei quali vengono valutate le scuole e distribuiti premi in denaro importanti, costituiscono uno scenario perfetto per la sua idea che la combinazione di asimmetrie informative e incentivi economici costituisce un mix perfetto che induce gli attori ad approfittarne. Così elabora un algoritmo complicatissimo che permette di vedere se ci sono stringhe di risposte successive sospette, che sembrano suggerire che un insegnante abbia cancellato quelle dello studente e le abbia sostituite con le sue, giuste. L’algoritmo funziona e una ventina di insegnanti fedifraghi vengono individuati e licenziati.
Un pezzo di bravura non da poco, ma non è economia, è roba da anatomi-patologi, da CSI. L’unico elemento puramente economico è il mix incentivi/asimmetrie informative, che è noto da tempo e fra gli economisti va sotto il nome di moral hazard – dimostrare che è all’opera fra gli insegnanti o fra i lottatori di sumo è interessante, ma poi manca il resto: c’è una soglia di incentivo economico oltre la quale si bara ma al di sotto della quale invece no? Il sistema di incentivi economici alle scuole basato sui test di valutazione di fine anno degli studenti è corretto o il fatto che gli insegnanti barino segnala una debolezza del sistema? Dopotutto la particolarità dell’azzardo morale è che non basta che ci sia l’opportunità perché le persone ne approfittino, come sa chiunque abbia lasciato la macchina aperta con le chiavi nel quadro davanti a uno tzilleri di paese: se siete di bidda avrete ritrovato la macchina, nell’altro caso forse no. Oppure: il numero di insegnanti che hanno manipolato i test è significativa rispetto al totale o si tratta di un fenomeno trascurabile?
Sono insomma tutte domande legittime e molto “economiche”, ma sono apparentemente fuori dell’orizzonte, non tanto del libro, ma proprio di Levitt stesso. E questo rende un po’ grama, per continuare a usare l’espressione, la lettura di Freakonomics: che è divertente ma lascia un po’ alla fine a bocca asciutta, per non parlare dell’aridità “morale” di qualche ragionamento (paradossalmente, non nel caso del rapporto aborto/criminalità, dove Levitt e Dubner, forse resi accorti dalle polemiche, si muovono con molta delicatezza e rispetto di tutte le opinioni). Anche perché molte conclusioni, per quanto brillantemente argomentate, ridotte al nocciolo non sono proprio sconvolgenti: il lungo capitolo sull’arte di essere genitori si conclude con la scoperta che Pierino figlio del dottore a scuola va meglio di Mario la cui madre lava le scale – diciamo: c’era già arrivato don Milani cinquant’anni fa, eh!
Dall’altra parte, invece…
Armato di queste considerazioni ho ripreso in mano, a quel punto, The undercover economist, giusto per avere una conferma della sua superiorità complessiva: meno incantesimi per ammaestrare serpenti e meno colpi di scena ma più sostanza, un tono generalmente più empatico e magari anche una maggiore affinità politica (Harford è complessivamente un liberal, Levitt non sembra avere una grande consapevolezza sociale, se non astrattamente: peraltro dice molto sulla politica americana che sia stato candidato a ruoli di consigliere sia per Obama che per i repubblicani). Del resto del libro di Harford avevo scritto una breve recensione abbastanza positiva, a suo tempo.
Sorprendentemente, sono stato invece deluso.
Ok, Harford è un liberal. Ma dopo aver riletto il suo libro ti rendi conto che la differenza fra lui e Margaret Thatcher si misura in gradi di separazione, non in termini di alternatività: la sua idea è sostanzialmente che le persone lasciate a se stesse compiono sempre le scelte migliori (o, alternativamente, che le scelte che fanno sono fatti loro, che debbono poter fare quel che gli pare e che alla fin fine nessuno può giudicare) e che il compito dello Stato deve essere, al massimo, quello di rimuovere quelle “perturbazioni” che impediscono al libero mercato di autoregolarsi come deve e sa fare, in modo che le persone possano godere il massimo beneficio delle scelte compiute in perfetta autonomia (la discussione sui diversi sistemi sanitari in effetti è illuminante, anche in termini della complessità e sofisticazione necessarie perché sistemi pubblici possano mimare la spontaneità del mercato auto-regolantesi).
È un punto di vista perfettamente in linea col pensiero liberale, che ha una sua ben nota dignità culturale. Ma il confronto con Levitt è illuminante: alla fin fine il punto di vista dell’americano è identico a quello del suo collega inglese, solo che uno lo esprime con molte più ruvidezze e l’altro sembra più consapevole di alcuni temi di forte impatto sociale: acqua pubblica, riscaldamento globale… Uno ha una strumentazione elementare, l’altro maneggia con proprietà e fa capire al pubblico concetti complessi della scienza economica. Ma sempre lì siamo e quindi anche il pensiero di Harford, tutto sommato, dopo il confronto appare molto meno accattivante.
In una parola: Harford e Levitt sono, entrambi, due economisti ortodossi e il loro pensiero, per quanto brillantemente esposto, è alla fine un po’ asfittico nella sua incapacità di allargare l’orizzonte oltre i confini della disciplina (nonostante l’affabulazione). Il che automaticamente rende, in fondo, i due testi interessanti per un pubblico specifico, che non è il grande pubblico ma quello più ristretto degli economisti, o almeno di quelli che hanno studiato economia, per i quali entrambi funzionano e danno soddisfazione perché sono degli inside jokes, delle battute che solo gli esperti possono capire.
Soprattutto quello che pesa è che tutti e due i libri sono stati pubblicati prima della crisi. Ora, è vero che le tematiche sollevate dalla crisi, dal punto di vista della scienza economica, riguardano più la macroeconomia: quantità di moneta in circolazione, debito pubblico, finanziamento del deficit pubblico, livello di tassazione, regolamentazioni internazionali, sussidi alle imprese… Ma di sponda quel che viene messo ancora una volta in discussione è la capacità del mercato di autoregolarsi, che alla fin fine è un tema microeconomico. E guardati con gli occhiali della crisi i brillanti ragionamenti dei due libri appaiono, alla fine, un po’ miseri: perché non offrono prospettive culturali rispetto al tema dell’uscita dalla crisi e soprattutto perché sembrano presupporre una fiducia nella scienza economica che gli ultimi anni hanno messo clamorosamente in discussione.
Tempi grami per gli economisti e i loro libri, insomma.
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