L’intrepido
Ho visto ieri, in buona compagnia, L’intrepido di Gianni Amelio, con Antonio Albanese, un film difficilmente definibile con precisione ma comunque una commedia amara, amarissima.
È difficile raccontarne la trama, non solo perché vorrei evitare anticipazioni, ma anche perché in realtà rischia di essere fuorviante: immagino che molti abbiano letto o sentito che Albanese (che qui offre al suo personaggio una maschera tragica, non comica, quindi non aspettatevi battute e gag), interpreta Antonio Pane, un rimpiazzista, cioè uno che lavora al posto degli altri nei giorni in cui non possono – oggi fa il muratore, domani il meccanico, dopodomani consegna pizze. Detto così, sembra un film sulla precarietà e il lavoro che non c’è, ma in realtà è un pretesto: nel seguito della storia questa dimensione del rimpiazzista sfuma fino a scomparire quasi del tutto, e in fondo i soldi, entro certi limiti, non sembrano mai essere un vero problema per Antonio.
Mi è sembrato piuttosto che L’intrepido sia una parabola dell’Italia intepretata attraverso, sostanzialmente, due generazioni: quella di Antonio e quella di Ivo, il figlio. L’Italia di Antonio sa cavarsela, pure troppo: se lui è un uomo gentile e onesto altri figuri sono molto meno rassicuranti: ladri o truffatori di mezza tacca, gente cinica o presuntuosa, arrivisti o predatori. E oltre una massa anonima, senza interessi culturali, senza spessore. Gli unici in fondo che si staccano sono i vicini di casa arabi, vivi, vitali ed energetici. È anche un’Italia che non sa pretendere né imporsi, che cerca sempre e comunque la trattativa, che chiede ciò che spetta di diritto come un favore. E però anche un’Italia che tende una mano – posto che una delle frasi ricorrenti di Antonio è: «Come posso aiutarti?» – anche quando questa pretesa di aiutare gli altri appare grottesca, data la situazione. Nonostante questi difetti, o forse proprio per questi, l’Italia di Antonio è un’Italia che sta sempre in piedi, che trova sempre il modo, che, ecco la metafora, rimpiazzo dopo rimpiazzo, reinventandosi continuamente, comunque va avanti.
È però un’Italia senza futuro: perché la generazione dei figli, i due-tre personaggi che nel film sono più giovani, al contrario non sanno cavarsela, sono prigionieri di dubbi e insicurezze fino all’autodistruzione, non sanno dove mettere le mani, sono staccati dalla materialità in favore di sogni evanescenti, sono, in una parola, vittime predestinate. Genitori come Antonio li tengono in piedi, ma chissà se basterà. Eppure, nonostante tutto, l’Italia di Antonio va avanti.
Detto così il film potrebbe piacere o non piacere, la tesi essere considerata condivisibile o non condivisibile, ma siamo solo all’inizio dei problemi.
Intanto la scrittura è molto letteraria – ci sono stati dei momenti in cui ho pensato che lo sceneggiatore, in fondo, di veri poveri non sappia niente – c’è un qualcosa che stride fra il linguaggio cinematografico utilizzato, che a momenti è magniloquente come il peggior Ozpetek, e la quotidianità rappresentata: se la storia è una favola, magari nera, il film non raggiunge mai quel livello di realismo magico a cui forse si tendeva.
Ma soprattutto si procede con una narrazione esilissima, sostenuta solo dall’accumulazione successiva di situazioni e simbologie, non solo fino a diventare stucchevole, ma soprattutto allungando il brodo metaforico fino a farlo diventare privo di sapore. Io ho offerto una mia lettura, ma le vicende messe in scena permetterebbero legittimamente moltissime altre intepretazioni senza che ci sia nel film nessun meccanismo interno che le possa smentire o confermare: sono pronto ad avanzare, alternativamente, l’idea che il film abbia per tema l’incapacità genitoriale dei padri moderni, oppure la crisi del movimento operaio, o perfino l’idea del remake non dichiarato di Tempi moderni, con Albanese un novello Charlot stritolato dalla postmodernità ma abbastanza poetico da cercare una sua via di fuga.
Quando una storia si presta a così tante letture e, palesemente, non si è di fronte a un capolavoro, è legittimo il sospetto che si siano un po’ persi per strada oppure che abbiano provato a risolvere i problemi di narrazione mettendo qui e là elementi che possono essere interpretati da ciascuno un po’ come gli pare, per dare l’illusione della profondità. L’operazione però non funziona e il risultato è un film pasticciato, e alla fine, in una parola, brutto. Non brutto visivamente (ci sono anzi cose molto pregevoli), ma brutto nel senso di senza capo né coda.
Dal trailer oserei dire che hai visto un altro film. Oppure hanno sbagliato il trailer.
Sottolineano l’aspetto del lavoro, ma nel film come ho detto progressivamente si perde