L’arbitro
Sembra scritto dalla penna di Osvaldo Soriano (e infatti mi è subito venuta voglia di rileggere Futbol) L’arbitro di Paolo Zucca. Come faceva Soriano, infatti, Zucca (e Barbara Alberti, co-sceneggiatrice) prende una vicenda di calcio con tutti i suoi classici addentellati – la rivalità fra le tifoserie, gli allenatori come guru, i giocatori come moderni eroi mitologici, le discussioni da bar, le tattiche, i dirigenti imbroglioni e gli arbitri corrotti – e lo trapianta in un ambiente rurale, con un effetto straniante (e a tratti davvero molto divertente), reso ancora più surreale dalla galleria sorprendente di personaggi presentata e dal tono grottesco con cui Zucca decide di raccontare la storia.
La narrazione si svolge su più piani. Il film racconta, prima di tutto, dell’accesa rivalità fra le squadre – di infima categoria – di due paesi immaginari della Sardegna: l’Atletico Pabarile e il Montecrastu. Questa è la parte in cui ci sono tutti gli attori più noti e amati dal pubblico sardo: Benito Urgu nel ruolo dell’improbabile allenatore filosofo del Pabarile, Geppi Cucciari e Jacopo Cullin (peraltro irriconoscibile), tutti affiancati da un gruppo di bravissimi caratteristi e attori di contorno, uno con la faccia più indovinata dell’altro, fra cui un ruolo di rilievo hanno Alessio Di Clemente e Quirico Manunza, rispettivamente allenatore e dirigente del Montecrastu.
La storia della rivalità fra le due squadre si intreccia con il crescere di un’altra rivalità, questa legata invece alla campagna e a degli sgarbi, in origine abbastanza banali, fra pastori: chi sa come nascono a volte le faide riconosce con timore passaggi e situazioni via via più gravi, e complicate dal fatto che i protagonisti sul campo vestono la stessa maglia. Qui il tono abbandona il grottesco, spariscono le gag e il racconto accoglie e fa propri i silenzi, le pause e le omertà della vita in campagna.
Una terza linea narrativa, invece, ha per protagonista un ottimo Stefano Accorsi che interpreta l’arbitro Cruciani: principe dei fischietti e all’apice della carriera si prepara ad arbitrare la partita più importante della carriera, se gli intrighi di Marco Messeri e il bon ton di Grégoire Oestermann, che fa strepitosamente il verso a Platini, glielo permetteranno. Il film contrappone così i due poli del mondo del calcio, il dilettantismo straccione della rivalità fra Pabarile e Montecrastu e l’empireo della finale di Champions; apparentemente così distanti, finiranno alla fine quasi per caso per intersecarsi.
Cinematograficamente il film ha parecchio di buono; nella parte con Accorsi, la scena iniziale in cui Cruciani, i guardalinee e il quarto uomo si preparano alla partita come se fossero monaci guerrieri pronti a un’ordalia, e le scene degli allenamenti degli arbitri, coreografate come balletti (e vagamente reminiscenti delle parate ginniche di regime); nella parte ambientata in Sardegna la mano sicura con cui sono resi volti, panorami, particolari, i silenzi che nutrono la faida e il caravanserraglio paesano della passione per le due squadre: la bellissima fotografia e la mano sicura del regista sulla macchina da presa fanno perdonare anche qualche incertezza degli attori.
L’arbitro è insomma una rivelazione e un film molto piacevole, che intrattiene spiritosamente, cattura l’attenzione e si permette, nell’intreccio delle tre trame principali, di suggerire anche spunti e riflessioni che vanno oltre il film. Su questo, però, c’è qualcosa da dire di più. Dopo la pubblicità.
Soprattutto non buttiamola in politica
A Cagliari, in occasione della conferenza di presentazione prima della prima, Paolo Zucca ha fatto notare che ha usato il bianco e nero con cui è girato tutto il film anche per farsi aiutare a non collocare con troppa esattezza il film in un contesto geografico e temporale – è chiaro che siamo in Sardegna, ma esattamente dove e se oggi, ieri o domani questo non lo si capisce mai: lo stesso vale in qualche modo per la parte che riguarda Accorsi.
L’arbitro non è, insomma, un film di denuncia o un film a tesi: è piuttosto una favola, o meglio un apologo, che enuncia delle verità da tutti riconoscibili ma lascia a ciascuno di trarre le sue conclusioni; sfugge così felicemente al rischio del didascalismo o della metafora troppo insistita.
È chiaro che siamo su un terreno scivoloso: l’occasione di mettere insieme faide e condizione pastorale della Sardegna, il calcio come metafora dei rapporti di potere, perfino il rapporto fra realtà locali del calcio e l’organizzazione nazionale può spingere un certo tipo di spettatore a verificare la “tesi politica” del film e la sua rispondenza a una posizione o all’altra. Ma il film mantiene sempre una sua leggerezza che va rispettata, un rifiutarsi di prendere posizione in maniera puntuale, anche se come la pensano regista e sceneggiatore è chiarissimo: ma scelgono di non fare teoria, e invece semplicemente di narrare. E se qualcuno, arcigno difensore delle tesi politiche precostituite, dovesse provare a convergere su di lui, Zucca con un dribbling degno del suo Matzutzi si libera: è già là, lanciato verso l’area di rigore, solo davanti al portiere.
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