Mi espongo alla berlina: elezioni regionali
Ai bei vecchi tempi di it.arti.cinema si usava il tag “miespongoallaberlina” per introdurre post in cui si lodavano film universalmente considerati brutti o si facevano altre cose estremamente imprudenti.
Lo metto come titolo a questo articolo perché sto per fare una cosa che davvero non si dovrebbe fare: commentare i risultati elettorali senza avere alcun titolo professionale che lo giustifichi, cosa che espone sempre al trombonismo e oltretutto rischia di urtare un po’ di suscettibilità, soprattutto nei perdenti. Ma ho bisogno di fissare un po’ di cose nella memoria e, come al solito, non mi dispiacerebbe trovare qualcuno con cui intavolare una discussione.
E quindi, ecco a voi. L’ho scritto ieri a risultati in evoluzione, in maniera ondivaga, elencando chi ha vinto e chi ha perso – ovviamente secondo il mio limitato punto di vista – e l’ho poi rivisto pochissimo.
Chi ha vinto e chi ha perso alle elezioni regionali
Prima di tutto, anche se sembra banale, ha vinto Francesco Pigliaru. Portare al successo una campagna elettorale iniziata praticamente fuori tempo massimo, anche ammettendo che qualche pedina sulla scacchiera fosse stata giocata in anticipo, non è cosa da tutti. E Pigliaru ha vinto mantenendo il suo proprio stile e dettando i suoi tempi alla campagna elettorale, senza piegarsi allo stile e ai tempi altrui. Non è poco, fermo restando che il bello e il brutto vengono adesso, e mantenere la barra diritta allo stesso modo durante i prossimi cinque anni di governo non sarà per niente facile.
Non sono originale a dirlo: l’incapacità della sinistra di ripagare con il buon governo la commovente capacità del suo popolo di rinnovare ancora e ancora la fiducia è conclamata, quindi, con tutto il rispetto, dagli apparati di partito, dai consiglieri e dai futuri assessori è lecito aspettarsi di tutto, compreso il peggio: d’altra parte Pigliaru mi sembra dotato di schiena dritta a sufficienza. Sarà interessante stare a vedere.
Come molti altri ex studenti di Scienze Politiche sono stato allievo di Pigliaru (uno dei corsi più intellettualmente stimolanti che abbia mai seguito), e ho per lui molta ammirazione. Sono anche consapevole che la mia visione dell’economia e la sua sono abbastanza lontane: all’epoca della morte della Thatcher scrisse sulla sua pagina Facebook (non ci si crede alle cose che conserva, lo zio Rufus)
D’altra parte ricordo che proprio a lezione Pigliaru illustrò il modello economico di Lucas raccontando con molta passione come l’anziano liberista si fosse trovato a fare i conti con le diseguaglianze economiche mondiali e avesse cambiato il suo modo di ragionare. Se si è ammansito l’arcigno Lucas, a maggior ragione potrà farlo Pigliaru sulla scomoda poltrona di Presidente della Regione, diciamo.
Ha perso Francesca Barracciu. E non ha perso quando ha dovuto rinunciare (quando è stata costretta a rinunciare) alla candidatura. Ha perso secondo me quando ha postato le foto della birretta, annunciando al mondo l’intenzione di fare una campagna elettorale for dummies. Il carisma è una strana cosa e la Barracciu se n’è trovata sprovvista molto prima dell’arrivo dei guai giudiziari. Siccome non è certamente una sprovveduta (cioè è una risorsa per il suo partito), eppure negli ultimi sei mesi si è ripetutamente mostrata non all’altezza, sono curioso di vedere cosa farà in futuro. Per il momento, però, ha perso.
Ha perso Cappellacci. Non è che c’è molto da discutere: quando la tua coalizione prende più voti di te e alla fine si perde per il voto disgiunto, la sconfitta non può essere che colpa tua. D’altra parte, con Cappellacci perde la leadership del centrodestra, perché il candidato presidente si decide insieme. Al contrario della sinistra, a destra non c’è l’abitudine di divorare i propri leader per punirli degli errori di strategia, quindi non sapremo mai chi ha scelto di puntare su Cappellacci e che responsabilità gli viene addossata. È anche per queste opacità – e quindi per una destra che non si rinnova mai – che in Italia non abbiamo un polo conservatore di qualità europea.
Ha vinto Paolo Maninchedda, che ha impartito una lezione di politica a tutta l’area sovranista, e ha perso – perso male, molto male – Progres. Il progetto politico della sua dirigenza era quello di spiazzare tutti gli altri partiti indipendentisti – grazie a una candidatura carismatica – e accreditarsi come unico rappresentante di quell’area, non solo: accreditarsi e dimostrare l’esistenza di una componente indipendentista ineliminabile dalla società sarda, avviando un processo via via irreversibile secondo un modello catalano. Solo che quando hanno visto Michela Murgia avvicinarsi con il coltello da scanno gli altri indipendentisti non sono rimasti lì a offrire la gola, come forse quelli di Progres ingenuamente credevano, ma hanno trovato Maninchedda che li ha traghettati fuori del deserto fino a un rifugio sicuro. Il professore ha eluso abilmente la trappola e ha lasciato Progres a schiantarsi trascinato dal proprio stesso slancio. Siccome Maninchedda era accreditato di intenzioni di candidatura alla presidenza, e invece ha freddamente riconsiderato la situazione scegliendo la migliore strada possibile, la sua lezione è anche personale nei confronti di Michela, che invece una candidatura ha cercato a tutti i costi: spiace dirlo, ma c’è un divario di statura politica abissale.
Se si ricorda la storia di scissioni reciproche che lega Partito dei Sardi, IRS e Progres e si guardano i voti rispettivi si scopre che i primi due, considerati insieme, prendono più voti, molti più voti, del terzo, ed entreranno in Consiglio regionale, dove nessun indipendentista era mai arrivato. Maninchedda si è costruito un futuro, Progres sembra improvvisamente senza futuro. Se fosse entrato in Consiglio Franciscu Sedda, fondatore del partito che la leadership crescente di Michela ha messo ai margini fino di fatto all’espulsione, a quelli di Progres non sarebbe rimasto altro che fare un seppuku di massa. Così hanno “solo” subito una batosta epocale: il problema, mi pare, è che non se ne accorgono. Leggo commenti in cui si dà la colpa della catastrofe a qualunque cosa tranne che a se stessi (per non parlare delle giustificazioni risibili del genere: «per noi è già una vittoria», «puntiamo ad altri traguardi» e perfino: «comunque siamo stati molto bene insieme, c’era sempre un buon clima»): il che dimostra che dopo aver fatto una campagna elettorale di stampo prettamente berlusconiano nella sconfitta prendono il peggio della sinistra: non siamo noi che non siamo in sintonia con il popolo, sono i sardi che sono schiavi delle clientele.
A proposito: se Franciscu Sedda probabilmente in questi giorni mediterà sul sapore della vendetta che si gusta a freddo, fatico a considerarlo pienamente un vincitore. Perché non è entrato in Consiglio regionale, e un po’ ha il vizio di ficcarsi in queste situazioni in cui deve dividere la leadership con qualcun altro: prima Gavino Sale, poi Progres, poi Maninchedda. Diciamo che per il momento ha pareggiato in trasferta con una rete in contropiede: per il resto chi vivrà vedrà.
In ogni caso, addio Catalogna. Perché per entrare nella coalizione di centrosinistra l’area sovranista ha dovuto molto emascularsi, e in ogni caso perché il segno politico delle elezioni va in tutt’altra direzione. È tutta l’area identitaria che, complessivamente, ha perso. I sardi hanno scelto l’unico candidato alla presidenza che non ha speso nemmeno mezza parola sull’identità (non deve nemmeno aver pronunciato una parola in sardo in tutta la campagna) e il primo partito è il PD, che è quanto di meno sovranista si possa immaginare, tolto forse Fratelli d’Italia e l’Arma dei Carabinieri. Se i sardi avessero voluto votare per la lingua, per l’identità, per distinguersi, per i pastori e la mastrucca avrebbero votato diversamente: e di questo credo che tutti alla fine dovranno tenere conto, anche perché alla fine l’area Rossomori – a proposito, Muledda è un altro che in questo periodo ha dato lezioni di politica – e Partito dei Sardi non avrà abbastanza consiglieri da poter condizionare Pigliaru più di tanto. Il discorso indipendentista torna improvvisamente indietro di dieci anni.
E quindi ha perso Michela Murgia. Ha giocato un azzardo e ha perso. E le dimensioni della sconfitta sono tali, le conseguenze così pervasive per Progres e per tutta l’area, e chiamano in causa tali e tante responsabilità personali di Michela, e risultano così profondamente diseducative – io e Michela veniamo entrambi dall’Azione Cattolica, e per la nostra provenienza non può esserci niente di peggio – nei confronti di un’ampia fascia di suoi elettori in buona fede, che il tutto non può che suggerire l’abbandono definitivo del campo. Non abbiamo bisogno di perdere altro tempo.
Con Michela perde tutta la dirigenza di Progres, per non parlare di gente come Valentina Sanna e Romina Congera. Diciamolo chiaramente: perde anche la Sardegna complessivamente, perché obiettivamente non è segno di democrazia che settantamila votanti restino esclusi dalla rappresentanza. Solo che per la dirigenza di Sardegna Possibile è casomai un’aggravante, perché loro stessi hanno sperato di volgere a proprio vantaggio una legge schifosa lucrando sul premio di maggioranza.
Perde anche, ovviamente, Anthony Muroni e L’Unione Sarda, ma la loro sconfitta impallidisce a paragone di tutto quel giro di giornalisti continentali che in questi mesi hanno dimostrato di non capire nulla della Sardegna e hanno raccontato una realtà inesistente; perde quel partito trasversale di strateghi da tavolino che pianificano la vita della sinistra in maniera astratta e che piegano la descrizione della realtà ai propri desideri, tanto che alcune volte è sembrato che nella testa di alcuni commentatori il confronto fra Sardegna Possibile e centrosinistra fosse una sorte di faida interna nel PD – cosa che certamente non era. Tanto strateghi da tavolino che oggi uno dei più stretti collaboratori di Renzi si può permettere di irriderli, facendo scomparire, fra le pieghe della sconfitta altrui, il fatto reale che nella coalizione di centrosinistra un bel po’ di magagne ci sono, che prima di imboccare la strada giusta il PD e la sua dirigenza (e vale anche per SEL) ci hanno messo un bel po’ dando uno spettacolo desolante, e soprattutto che il PD è, di fatto, un partito di una sinistra molto moderata: basta guardare la lista degli eletti per convincersene e capire che, complessivamente, perde la sinistra non moderata.
Il problema, però, è che queste elezioni dicono, per l’ennesima volta, che il PD è resiliente e per questo (talvolta) vince. Sinora tutti quelli che, all’interno o all’esterno, hanno sperato di far esplodere le contraddizioni del PD non hanno mai incontrato il favore della base del partito (che è in genere molto migliore della sua dirigenza) e si sono spaccati le corna, perché correttamente l’elettorato del PD ha ritenuto che il PD sia ancora un presidio democratico migliore delle alternative. Sarà il caso che se si vuole creare uno spazio politico a sinistra del PD si rinunci all’idea di mettere il cuneo nell’interstizio delle debolezze altrui e si lavori diversamente. Vale anche per SEL, un altro partito a cui la vittoria permette di mascherare più di una magagna.
Solo che costruire una sinistra-sinistra richiede di saper fare politica, una competenza che è oggi davvero pochissimo diffusa e la cui assenza, per esempio, ha determinato la sconfitta del M5S, il movimento che non sa fare politica per antonomasia, che qui da noi si è praticamente suicidato e che, probabilmente, non entrerà mai più nel Consiglio regionale, salvo che non venga la catastrofe – ma non possiamo augurarci la catastrofe solo per avere i grillini in via Roma. Ma qui nella mia riflessione ho più in testa tutta la galassia che va dal movimento antiglobalizzazione – molti dei quali hanno lavorato per Sardegna Possibile – ai resti del movimento ambientalista a un sacco di altra gente: è il caso di ricominciare a fare politica. Altrimenti si può sempre andare a sentire i Sikitis.
Infine, e anche se può sembrare paradossale, a occhio direi che con queste elezioni ha vinto il rinnovamento: una buona percentuale degli eletti entrano per la prima volta in Consiglio, mentre molti degli uscenti non si sono presentati o non sono stati riconfermati. Lo dico perché è un segnale che, anche con leggi elettorali pessime e anche con un generale immobilismo della classe politica, ci sono movimenti e flussi che sarebbe sbagliato sottovalutare: non è solo Renzi che preme, ma tanti altri fattori. D’altra parte basta considerare la presenza di Giorgio Oppi e Mariolino Floris per rendersi conto che non è proprio il caso di brindare.
Anche perché a fronte del rinnovamento perdono i giovani (a parte un paio di SEL l’età media sarà almeno sui cinquanta, penso) e soprattutto perdono le donne, praticamente assenti dal Consiglio. C’è molto da migliorare, insomma.
Non sono tanto d’accordo con “addio Catalogna” l’obbiettivo resta quello anche se le forze sovraniste sono risicate (nei numeri). Se è vero che Pigliaru non ha fatto accenni all’identità, è anche vero che ha parlato spesso di sovranità ed è altrettanto vero quanto tenga a persone come Franciscu Sedda del quale ha grande considerazione.
Franciscu inoltre non entrerà in Consiglio è vero, ma resta sempre il segretario di un Partito che lavorerà su quei punti di programma concordati con Pigliaru.
Ecco io non faccio trionfalismi perchè magari mi aspettavo qualcosina in più considerando i numeri, ma i numeri spesso non sono fondamentali se si riesce a creare un clima di collaborazione e la fiducia è rimasta tale anche adesso.
Vediamo che succederà per gli assessorati.
Ciao ho letto con interesse il tuo post, come tanti altri tuoi sempre interessanti.
Rilevo la tua analisi non proprio imparziale, ma chi lo sarebbe nel commentare un risultato elettorale in Sardegna se non un aborigeno annoiato? 🙂
Se infatti dai a Pigliaru i suoi meriti e a Ugo i suoi demeriti abbastanza evidenti in entrambi i casi, non mi sembri altrettanto obiettivo nell’accorpare il risultato indipendentista all’interno della sinistra: p.dei sardi e irs non mi risulta si siano gemellati (vedo sempre due simboli ben diversi) paragonato a Progres preso singolarmente. Il confronto che proponi non ha molto senso matematico nè politico visto che proprio Sedda/Demuru furono la ragione della scissione nell’IRS di Sale, non si può tornare a sommarli adesso per far tornar bene i conti, abbi pazienza.
Rilevo anche troppa velocità nel trattare il fenomeno UDC, partito che stà scomparendo in Italia ma che qui gode invece di grande salute. Sarebbe stato un buon spunto per parlare delle clientele dure a morire e ancora vera spina nel fianco della politica isolana tutta.
Nè un accenno a Pili, lui fondamentale ago della bilancia e decisore della sconfitta di Cappellacci, con buona pace dei festanti di centrosinistra. Se Pili fosse rimasto vicino al centrodestra staremmo commentando ben altro risultato!
Se su queste sviste posso tuttavia sorvolare, non posso farlo invece per il vero protagonista di questa tornata elettorale che tu non hai minimamente citato e che invece rende la vittoria del centrosinistra ancora più piccola e i nostri discorsi tristemente sterili.
Queste elezioni hanno avuto un unico indiscutibile e sconvolgente (almeno per me, non sò per te) vincitore: l’astensionismo.
Tutto il resto sono elucubrazioni da circolo intellettuale, mentre il resto del popolo sardo forse i giovani? forse i poveri? forse gli ignoranti? comunque tantissimi (mai visti così tanti!) è là fuori a curarsi di ben altro, piaccia o no.
Caro Andrea, ti ringrazio molto per le integrazioni, che sono proprio le cose che mi auguro quando scrivo. L’articolo è stato scritto in maniera piuttosto confusa e seguendo un’impostazione giocata sull’alternanza “vincitori/vinti”: è per questo che non si parla né di Oppi né di altri, nel senso che un buon risultato dentro una coalizione perdente non è molto leggibile: rappresenta al più un pareggio in casa all’andata, che lascia aperta la possibilità di una rimonta futura ma comunque non promette bene, e quindi non mi è venuto di parlarne.
Vale comunque per Oppi e soprattutto per Pili l’accenno che facevo all’opacità del centrodestra, che impedisce di dare giudizi precisi: per esempio, fino all’estate Pili godeva di una visibilità mediatica e di una viralità enormi, compresa una sponda sull’Unione che lo rendevano una forza in campo di cui tenere conto. Poi è scomparso: sarei molto curioso di sapere in base a quali meccanismi interni al gruppo dirigente del centrodestra si sia scelto Cappellacci e una serie di potentati abbiano abbandonato Pili, ma siccome non lo so non mi espongo 😉 . Comunque non ha più che pareggiato, per rimanere nella metafora di prima, e quindi non mi è venuto di parlarne.
In ogni caso mi rifiuto di parlare di Pili per mettere fra parentesi la vittoria di Pigliaru: «rigore è quando arbitro fischia», come avrebbe detto Boskov, e quindi uno vince o perde alle condizioni date: la storia non si fa con i “se”. Del resto Pigliaru non ha «vinto perché c’era Pili»: casomai ha vinto perché il gruppo dirigente del centrodestra si è diviso mentre il gruppo dirigente del centrosinistra è riuscito a rimanere compatto oltretutto rintuzzando un tentativo di sfondamento alla propria sinistra. Questi sono i fatti, e detto così mi sembra che Pili non possa proprio aspirare al ruolo di ago della bilancia.
Sommare Sedda, Maninchedda e Sale è un’operazione pretestuosa? Dipende. Quello che volevo dire è che Progres ha tentato di sgombrare il campo (lo dice Bastiano Cumpostu, non io) e ha fallito: oggi le presenze che insistono sul suo stesso campo ed elettorato sono più ingombranti di prima; un disastro politico che dovrebbe indurre tutta la dirigenza a dimettersi in blocco. Detto in altro modo: sino a oggi Progres poteva accreditarsi dell’idea di essere il futuro, che si lasciava alla spalle tutti i “piccoli partitini” indipendentisti (Cumpostu, Sale, eccetera; Sedda non pensavano nemmeno che esistesse ancora) andando a costituire un movimento robusto e diffuso: oggi voti alla mano Progres è un partitino come gli altri, magari messo pure peggio. Sbaglierò, ma la mancanza di prospettiva politica suggerisce che i tempi sarebbero maturi per un’ulteriore scissione dell’atom… pardon, nascita di una nuova esperienza indipendentista che provi a riprendere il discorso dove l’ha interrotto la crisi Sedda-Sale di IRS. In alternativa il boccino è nelle mani del Partito dei Sardi, non certo in quelle di Progres.
Sull’astensionismo il problema è, secondo me, che è anch’esso di difficile interpretazione. Io credo che ci sia molto scoramento, prima ancora che protesta, e che in più abbia pesato la mancata presentazione dei grillini. Il problema però è che chi tace non dice niente, e quindi faccio fatica a arruolare gli astenuti in qualunque campo: nessuno, voglio dire, che abbia perso può servirsene per sminuire le vittorie altrui. Come dicevo prima, si fa politica e campagna elettorale alle condizioni date, e alla fine si tirano le somme; potrei dire che queste elezioni hanno premiato la difensiva: ha vinto chi è stato capace di difendere meglio il proprio perimetro, e ha perso chi non l’ha saputo difendere o ha provato a espandere il proprio campo nel perimetro altrui. Il che vuol dire che l’astensionismo è più un problema di tutti gli altri che hanno perso per non avere saputo arruolare gli indecisi e gli astenuti, che non del centrosinistra che può dire di aver fatto il suo.
In realtà comunque non ho parlato di astensionismo per un mio limite: è molto difficile farlo senza cadere nella retorica dei politici che spargono lacrime di coccodrillo, e volevo evitarlo; avrei potuto scrivere «hanno perso tutti, perché l’astensionismo è sempre una sconfitta» ma non mi sono sentito di infliggervelo 😉 .
Casomai mi sono dimenticato di aggiungere una cosa su Cagliari: certamente il risultato a prima vista rafforza Zedda e indebolisce i suoi critici…
È inutile! Non ce n’è per gli altri!
Sei e rimani uno dei migliori analisti in circolazione.
Mi viene la voglia di segnalare a Pigliaru il tuo blog, per farti assumere!
Mi piace e la trovo “illuminante” la fredda disamina della sconfitta “sardista” in tutti e tre i fronti.
Mi pare che la proposta “Catalogna” non interessi a nessuno.
Lo sconfitto mi pare Emilio Lussu, che proponeva un regionalismo “diversi ma integrati”; tante Italie in un’unica Italia. Però date le condizioni, magari qualcuno lo rilegge e viene fulminato sulla via di Damasco.
E la Sardegna tornerebbe ad essere quel “sale”, quel “fermento”, un vero laboratorio politico per il resto degli italiani.
Però ti chiedo un approfondimento, degno della tua capacità di analisi.
Mi pare che la legge elettorale sarda abbia un che di “Italicum” in seno: allora il laboratorio politico sardo qualcosa ce la direbbe pure, i piccoli FUORI, bipolarismo a manetta, scarsità di democrazia universale (visto l’assenteismo prossimo al 50%).
Insomma, tutto il contrario di quello a cui aspirava la Costituzione post-bellica ed antifascista!
giuseppe
Non posso che consigliarti di leggere Turi Comito, che non sempre condivido ma che descrive in maniera secondo me condivisibile lo scenario che sta dietro la scelta di semplificare i quadri politici col bipolarismo (sintetizzando: perche le élite politiche occidentali ritengono che il modo di gestire la complessità sia semplificare, semplificare, semplificare).
P.S. Sorvolo su tutte le altre prese in giro del tuo commento 😉
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