Lasciate in pace i bambini
Più sotto trovate la traduzione di un articolo, ma prima un po’ di spiegazioni.
Quando avevo otto anni i miei genitori mi hanno dato il permesso di scendere da solo a giocare in cortile, con gli altri ragazzini del palazzo.
Il “cortile”, in realtà, era un insieme di spazi diversi. C’era il nostro, “il cortile della Superpila“, e il cortile “della SARAS“: due rettangoli asfaltati sul retro dei palazzi, separati da un muretto. Il nome del nostro dipendeva dal fatto che ci si apriva il magazzino di una società di materiale elettrico che aveva quella insegna, mentre l’altro si chiamava così perché il palazzo era abitato da famiglie di dipendenti della SARAS. Il loro cortile, in realtà, si estendeva anche a due garage coperti e, più oltre, a un altro spazio a cielo aperto, noto più o meno come “il cortile di dentro”.
Di fronte ai nostri cortili, dove adesso c’è il parcheggio del CIS e il CIS stesso, c’era un grande sterrato, occupato dai detriti della vecchia stazione delle ferrovie. Era noto come “la segatura” perché d’inverno ci andava il circo e aveva lasciato, negli anni, il segno del cerchio della pista ricoperto appunto di segatura. Era considerato il posto perfetto per giocare a pallone perché, al contrario della terra battuta ricoperta di ghiaia e dell’asfalto, era morbido e ci si poteva buttare. In realtà per le dimensioni richieste dalle nostre partite la segatura bastava solo per metà e l’altra metà campo era in ghiaino, infatti nelle nostre interminabili sfide («Partita e rivincita a dieci, bella a sei») arrivati a metà dei gol rigorosamente si cambiava campo, perché anche l’altro portiere si potesse buttare. Tanto ci piaceva quel campo che prendemmo l’abitudine di controllare i resti degli altri tendoni minori, quelli dove venivano tenuti gli animali, e con pale e secchielli da spiaggia trasferire anche quella segatura sul campo principale per espanderlo, finché realizzammo che quella sabbietta gialla un po’ diversa dal solito era, presumibilmente, cacca di elefante disseccata.
Quando le piogge rendevano impraticabile lo sterrato si abbandonava la segatura e si giocava nel cortile della SARAS che era recintato da un muretto e più comodo rispetto a quello Superpila, anche se più piccolo, a pallone – in un campo “a C” nel quale le porte erano gli ingressi dei garage poste una a fianco all’altra – oppure a una varietà di altri giochi con la palla o senza. Di solito però ci battevamo, gruppo di un cortile contro gruppo dell’altro, tirandoci pietre. Quelli della SARAS erano avvantaggiati perché i cortili interni erano ricoperti di ghiaia, quindi avevano una scorta di munizionamento infinita, mentre noi dovevamo attraversare la strada e rifornirci nello sterrato.
Oltre la segatura, dove adesso c’è la sede del Banco di Sardegna, c’era la depositeria comunale delle auto rimosse, sostanzialmente uno sfasciacarrozze. Talvolta passavamo sotto la rete di recinzione e andavano a esplorare e giocare lì. Ricordo che verso i dieci anni ci andavo con il mio amico Marcello del piano di sotto a giocare a Tex Willer e Kit Carson (lui era maggiore di un anno e aveva il diritto di fare Tex): ci immaginavamo che dalle cataste di carcasse di auto emergessero i seguaci del voodoo al servizio del sinistro Mefisto o, più prosaicamente, bande di Sioux ribelli.
Se pensate che uno sterrato ingombro di detriti o il deposito di uno sfasciacarrozze non sia un ambiente di gioco adatto per dei bambini, per tacere delle battaglie a colpi di pietre, sappiate che per un periodo abbiamo avuto un altro meraviglioso ambiente di gioco, un palazzo in costruzione abbandonato in via Ancona, pieno di materiali edili accatastati e ricco di impalcature sulle quali arrampicarsi fino al secondo piano – ovviamente senza parapetti o scalette. Per arrivare al terzo piano tutti usavano le scale in cemento grezzo; i bambini più piccoli, fra i quali io, usavano sempre le scale invece delle impalcature, tenendosi ben lontani dalla tromba dell’ascensore, ovviamente non protetta. Uno dei giochi preferiti, per dire, era lanciarsi dalle porte-finestra del primo piano sui mucchi di sabbia ai piedi del palazzo. Ci costruimmo anche delle capanne coi blocchetti di cemento, sul terrazzo (costruimmo anche delle capanne nel grande sterrato dietro il campetto di via Ravenna, dove si aggirava uno che i miei amici mi additavano dicendomi: «Vedi, quello è un maniaco»). In un periodo solo appena più tardo andavo anche a Monte Urpinu con altri due ragazzini, scavalcavamo la recinzione della cava – o della base militare, non so – e con martello, scalpello e pie’ di porco procurati chissà come staccavamo pezzi delle rocce calcaree del dirupo perché avevamo scoperto che c’erano dei fossili e volevamo iniziare una collezione. Ammetterete che palazzo in costruzione e cava battono di gran lunga lo sterrato.
Certo, poi sono entrato nel sano ambiente della parrocchia e lì ho imparato davvero a delinquere, ma questo l’ho già raccontato. Comunque queste mie esperienze infantili spiegano perché ho trovato molto interessante un articolo di Hanna Rosin pubblicato su The Atlantic col titolo The Overprotected Kid. Sono arrivato all’articolo, sorprendentemente, seguendo una segnalazione di Jennifer Flanders (più o meno l’ultima persona che avrei pensato fosse d’accordo con questa impostazione pedagogica, e invece vedi come ci si sbaglia, a volte) e ho deciso di tradurlo. Le foto sono quelle dell’articolo originale. Nello stesso giorno The Atlantic ha pubblicato anche l’intervista all’autrice di un documentario sullo stesso argomento, Erin Davies: ho incluso il trailer del documentario nella stessa posizione in cui la Rosin aveva posto un altro estratto dal film. L’articolo cita diversi saggi, purtroppo non pubblicati in Italia: ho tradotto i titoli ma aggiunto i link alle pagine originali di Amazon.
La lettura mi ha riportato alla mente ricordi di infanzia, ma la trovo soprattutto interessante perché affronta, delicatamente ma esplicitamente, parecchie questioni pedagogiche attuali importanti – e la nostra concezione di sicurezza. Su alcuni punti ho anche dei mie dubbi personali, naturalmente, ma di questi ci sarà tempo di discutere in seguito.
Il bambino troppo protetto
di Hanna Rosin
Un trio di ragazzini marcia lungo uno steccato, avanti e indietro, gridando come imbonitori da luna-park. «La Landa! Apre fra mezz’ora». Più giù sul sentiero e oltre una piazza erbosa Dylan, di cinque anni, li può sentire attraverso la finestra del salotto di sua nonna. Tenta di immaginarsi quanto sia mezz’ora e se può aspettare così a lungo. Quando il grande cancello finalmente si apre Dylan, i ragazzini e una dozzina circa di altri bambini si lanciano di corsa verso i loro posti preferiti, sebbene sia difficile capire come possano orientarsi così abilmente in mezzo al caos. «È una discarica?», chiede mio figlio di cinque anni, Gideon, che è venuto con me in visita. «Non esattamente», rispondo, anche se è la fonte di ispirazione. La Landa è un parco giochi che occupa quasi un acro di terra [quattromila metri quadri, NdRufus] all’estremo di un tranquillo quartiere residenziale nel Galles settentrionale. Ha solo due anni di vita ma non ha nessun segno di novità e potrebbe benissimo essere stata qui da decenni. Il terreno è a tratti fangoso e alla fine degrada bruscamente verso un torrentello dove una grande, scolorita barca di plastica che la maggior parte delle persone avrebbe gettato via è incuneata sulla riva. Il centro del parco giochi è dominato da un’alta pila di copertoni che sta diventando sempre più piccola man mano che una ragazzina coi capelli rossi e il suo amico li fanno rotolare giù dalla collina e nel torrente. «Perché state facendo rotolare i copertoni nell’acqua?», chiede mio figlio. «Perché sì», risponde la bambina.
È ancora mattina ma qualcuno ha già acceso il fuoco in un tamburo di latta nell’angolo, forse perché è autunno inoltrato e c’è un freddo umido, o più probabilmente perché ai bambini qui piace accendere fuochi. Tre ragazzi si rilassano attorno alla fiamma nelle uniche sedie intatte; sono i più grandi, quindi nessuno si lamenta. Uno di loro accende la radio – c’è Shaggy (Honey came in and she caught me red-handed, creeping with the girl next door) – mentre gli altri si controllano le tasche per assicurarsi che le barrette di dolci e le lattine siano ancora là. Là vicino un paio di ragazzi sta facendo pazze piroette su un mucchio di materassi luridi, che rappresenta uno splendido trampolino. Dall’altra parte del parco giochi una dozzina circa dei bambini più piccoli saetta dentro e fuori di grandi strutture fatte di pedane di legno accatastate le une sulle altre. Talvolta un gruppo fa cadere qualche pedana – giusto per il piacere di farlo o per costruire qualche nuovo tipo di scivolo o forte o struttura ignota. Domani la Landa potrebbe avere un’intera nuova geografia.
A parte qualche muro rischiarato da graffiti non ci sono colori vivaci o nient’altro che appartenga al panorama comune dei parchi giochi: nessuno scivolo di lucido metallo sormontato da un volante rosso o da una griglia per il gioco del tris; nessuna altalena gialla con un contrappeso centrale incardinato nel terreno per impedire che qualcuno si ribalti; nessuna altalena col sedile allacciabile per i piccolissimi. C’è, però, una corda sfilacciata che può trasportarti oltre il torrente e lasciarti dall’altra parte, se puoi farcela fin là (altrimenti ti deposita nel torrente). I veri giocattoli (un piccolo elefante imbottito, un Winnie Pooh macchiato) rimangono ignorati, uno a faccia in giù nel fango, l’altro poggiato dietro una sedia di plastica verde. Oggi i bambini sono entusiasmati da un deambulatore che è stato donato da un anziano vicino e che viene riciclato, in vari momenti, come motoretta, cella di prigione e attrezzo da ginnastica.
La Landa è un “parco avventura”, sebbene il termine sia forse un po’ troppo evocativo dei parchi a tema per rispecchiare esattamente il senso. Nel Regno Unito parchi come questi sorsero e divennero popolari negli anni ’40, come risultato degli sforzi di Lady Marjory Allen di Hurtwood, paesaggista e sostenitrice dei diritti dei bambini. Allen era delusa da parchi giochi che descrisse in un documentario come «quadrati di asfalto» con «qualche attrezzatura meccanica». Voleva progettare parchi giochi con parti movibili che i ragazzini potessero spostare e manipolare per creare le loro proprie strutture improvvisate. Ma cosa ancora più importante voleva incoraggiare «un’atmosfera libera e tollerante» con meno controllo adulto possibile. L’idea era che i bambini dovessero affrontare ciò che a loro dovevano sembrare «rischi realmente pericolosi» e superarli da soli. È questo, diceva, che fa crescere autostima e coraggio.
I parchi giochi erano un’innovazione ma erano in sintonia con le aspettative culturali di Londra nei primi giorni dopo la II Guerra Mondiale. Bambini che avrebbero potuto crescere per trovarsi a combattere delle guerre non dovevano essere protetti dal pericolo; ci si aspettava che lo affrontassero con decisione e perfino incoscienza. Oggi questi parchi giochi sono così poco allineati con le norme sull’allevamento dei figli delle classi medie e agiate che quando di ritorno a casa ho mostrato ad amici genitori un video di ragazzini accoccolati al buio ad accendere fuochi la frase più comune che ho sentito è stata: «Questa è una pazzia» (i genitori della classe operaia condividono almeno parte degli stessi ideali, ma sono di solito meno orientati al controllo – per necessità, e magari per un maggior rispetto per l’essere dei duri). Questo può spiegare perché ci sono così pochi parchi avventura rimasti al mondo e perché uno appena istituito, come la Landa, sembri un atto di sfida.
Se un ragazzino di dieci anni accendesse un fuoco in un parco giochi negli Stati Uniti qualcuno chiamerebbe la polizia e il bambino sarebbe indirizzato alla supervisione di uno specialista. Nella Landa i fuochi spontanei sono un caso frequente. Il parco è gestito da “giocolavoratori” professionalmente addestrati che sorvegliano attentamente i bambini ma non intervengono granché. Claire Griffiths, la responsabile della Landa, definisce il lavoro come «bighellonare con uno scopo». Sebbene i giocolavoratori non interrompano quasi mai i ragazzi in quello che stanno facendo, già da prima che il parco aprisse avevano riempito faldoni di “valutazioni del beneficio del rischio” per praticamente tutte le attività (nei due anni dall’apertura nessuno si è fatto male, a parte l’occasionale ginocchio sbucciato). Questa è la lista dei benefici del fuoco: «Può essere un’esperienza di socializzazione sedere in cerchio con amici, fare amicizia, cantare canzoni da ballare in cerchio, stare a guardare, può essere un’esperienza cooperativa in cui ciascuno ha un incarico. Può essere qualcosa con cui fare esperimenti, prendere rischi, verificare le sue proprietà, il calore, la potenza, rivivere il nostro passato evolutivo». I rischi? «Ustioni dal fuoco o dal braciere» e «bambini che accidentalmente si possano bruciare l’un l’altro con cartone in fiamme o legno». In questo caso vincono i benefici, perché un giocolavoratore è sempre nei pressi pronto a evitare potenziali incidenti lasciando però liberi i bambini di trarre conclusioni sul fuoco per conto proprio.
«Voglio mettere questa scatola di cartone nel fuoco», dice uno dei ragazzi.
«Sai che farà un sacco di fumo», dice Griffiths.
«Non c’è fumo senza arrosto», risponde, e via con la scatola. Istantaneamente il fumo riempie l’aria e ci fa bruciare gli occhi. Gli altri ragazzi attorno al fuoco tossiscono, ritraggono la testa e lo maledicono. Nel mio parco giochi le chiameremmo “conseguenze naturali”, sebbene noi abbiamo raramente il coraggio di lasciar sviluppare scenari anche molto più mansueti di questo. Al contrario l’usanza della Landa è che i genitori non intervengano. Anzi, che i genitori non vengano del tutto. Le dozzine di ragazzini che sono passati per il parco giochi il giorno che l’ho visitato sono andati e venuti per conto loro. In sette ore, a parte Griffiths e gli altri giocolavoratori ho visto solo due adulti: la nonna di Dylan, che l’ha accompagnato perché ha solo cinque anni, e Steve Hughes, che ha un negozio di materiali per la pesca nella zona ed è passato a lasciare in prestito degli attrezzi.
Griffiths iniziò a fare opera di convinzione sulla proposta di parco giochi presso le famiglie della zona nel 2006. Illustrò i benefici del gioco libero all’aperto per la crescita e la salute e spiegò che il parco giochi sarebbe sembrato disordinato ma sarebbe stato recintato. Ma soprattutto fece un appello basato sulla nostalgia. Spiegò alcune delle cose che i ragazzini avrebbero potuto fare e poi chiese ai genitori di ricordare le propria infanzia. «Ahh, non l’hai mai fatto?», chiedeva. È così che li ha conquistati. Hughes si è trasferito nel vicinato dopo che la Landa era già aperta, ma quando si è fermato da me gli ho chiesto come avrebbe risposto alla domanda. «Quando ero ragazzo non avevamo tutte queste norme sulla salute e la sicurezza», disse. «Io andavo a nuotare nel Dee, che è uno dei fiumi più pericolosi esistenti. Se i miei genitori l’avessero scoperto mi avrebbero richiuso in casa a vita. Ma a quei tempi noi abbiamo combinato ogni sorta di monellerie».
Come la maggior parte dei genitori della mia età ho ricordi della mia infanzia così diversi dal modo con cui i miei bambini stanno crescendo che talvolta mi chiedo se me li sto inventando, o almeno se li sto esagerando. Sono cresciuta in un isolato di palazzi di sei piani quasi identici nel Queens, a New York. Nei miei anni delle elementari io e i miei amici passammo un sacco di pomeriggi a giocare a guardie e ladri nei garage di due appartamenti collegati, dopo avere scoperto una porta fra loro che potevamo forzare. Una volta quando avevo più o meno nove anni io e la mia amica Kim “incarcerammo” un gruppo di bambini più piccoli in una immaginaria prigione dietro un basso cancello. Poi a Kim e me venne fame e facemmo una passeggiata fino alla pizzeria Alba’s un paio di isolati oltre e ci dimenticammo del tutto di loro. Quando tornammo un’ora dopo erano ancora in piedi nello stesso punto. Non saltarono il cancello, anche se l’avrebbero potuto fare facilmente; i loro genitori non li vennero a cercare, e nessuno se l’aspettava. Un paio di loro erano piuttosto seccati ma a quei tempi il rispetto del codice fra bambini era assoluto. Gli avevamo detto che erano in prigione, così rimasero in prigione finché non li facemmo uscire. L’opinione di un genitore sulla lunghezza del loro periodo di pena sarebbe stata irrilevante.
Mi è capitato in passato di essere piuttosto perplessa riguardo a una particolare evidenza statistica che frequentemente viene citata in articoli sull’uso del tempo: anche se le donne lavorano per molte più ore adesso di quanto non facessero negli anni ’70, madri – e padri – di tutti i livelli di reddito passano molto più tempo coi loro bambini di quanto non facessero prima. La cosa mi sembrava impossibile fino a poco tempo fa, quando ho iniziato a riflettere sulla mia vita. Mia madre non lavorava poi tanto quando io ero più giovane, ma non passava nemmeno lunghi periodi di tempo con me. Non mi organizzava appuntamenti di gioco o mi portava in macchina a lezioni di nuoto o mi faceva conoscere la musica interessante che le piaceva. I giorni feriali dopo la scuola si aspettava semplicemente che mi presentassi a cena; nei fine settimana la vedevo a malapena. A me, d’altra parte, potrebbe facilmente capitare di passare ogni ora di veglia del sabato con uno, se non con tutti, dei miei tre figli, portandone uno a una partita di calcio, il secondo a un progetto teatrale, il terzo a casa di un amico, o semplicemente passando del tempo con loro a casa. Quando mia figlia aveva più o meno dieci anni, mio marito improvvisamente si rese conto che nella sua intera vita non aveva probabilmente passato più di dieci minuti senza sorveglianza da parte di un adulto. Non dieci minuti in dieci anni.
È difficile capire quante norme riguardanti l’infanzia si sono spostate nell’arco di solo una generazione. Atti che sarebbero stati considerati paranoidi negli anni ’70 – accompagnare personalmente i ragazzini di terza elementare a scuola, proibire ai ragazzi di giocare con la palla nella strada, fare lo scivolo col bambino in grembo – sono adesso routine. In effetti sono segni di buona, responsabile genitorialità. Uno studio molto esteso sulla “mobilità indipendente dei bambini” condotto in aree urbane, suburbane e rurali nel Regno Unito mostra che nel 1971 l’80% dei ragazzini di terza andava a scuola a piedi da solo. Nel 1990 il dato era sceso al 9% ed è ora ancora più basso. Se si chiede ai genitori perché siano più protettivi di quanto lo fossero i loro genitori, potrebbero rispondere che il mondo è più pericoloso di quanto lo fosse quando loro stessi erano ragazzi. Ma non è vero, o almeno non lo è nel modo che pensiamo. Per esempio, è adesso normale per i genitori di dire ai loro bambini di non parlare con gli sconosciuti, sebbene tutti i dati disponibili suggeriscano che i bambini hanno la stessa probabilità (molto bassa) di essere rapiti da uno sconosciuto di quanta ne avessero una generazione fa. Forse la vera domanda è come è potuto succedere che queste paure abbiano acquistato una tale presa su di noi? E cosa hanno perso – e guadagnato – i nostri figli mentre noi abbiamo ceduto ad esse?
Nel 1978 un bambino piccolo di nome Frank Nelson salì sulla cima di uno scivolo alto tre metri e mezzo nell’Hamlin Park di Chicago con sua madre, Debra, pochi passi dietro di lui. La struttura, installata tre anni prima, era conosciuta come “lo scivolo tornado” perché si attorcigliava lungo la discesa ma il bambino non ci arrivò mai. Cadde attraverso lo spazio fra il corrimano e i gradini e picchiò la testa sull’asfalto. Un anno dopo i genitori fecero causa al Dipartimento dei parchi di Chicago e alle due società che avevano costruito e installato lo scivolo. Nella caduta Frank si era fratturato il cranio e aveva subito un danno cerebrale permanente. Era paralizzato sul lato sinistro e aveva problemi nel parlare e alla vista. I suoi avvocati fecero notare che era costretto a indossare in ogni momento un elmetto per proteggere la sua fragile scatola cranica.
Il caso dei Nelson fu solo uno di un certo numero di cause legali che alimentarono una reazione contro attrezzature per parchi giochi potenzialmente pericolose. Theodora Briggs Sweeney, un sostenitore dei diritti dei consumatori e consulente sulla sicurezza della John Carroll University, vicino a Cleveland, testimoniò in dozzine di processi e divenne il riferimento pubblico di una crociata per la riforma dei parchi giochi. «Il nome del gioco che si fa al parco continuerà a essere roulette russa, col bambino come l’ignara vittima», scrisse Sweeney in un articolo del 1979 pubblicato su Pediatrics. Era interessata a molte cose – l’altezza degli scivoli, lo spazio fra ringhiere, il pericolo di uncini a forma di S usati per tenere insieme delle parti – ma soprattutto ciò che la allarmava era l’asfalto e la terra battuta. Nel suo articolo Sweeney dichiarò che prove di laboratorio mostravano che un bambino poteva morire da una caduta di così poco come trenta centimetri se la sua testa avesse picchiato sull’asfalto, e meno di un metro nel caso di terra battuta.
Un rapporto del governo federale pubblicato circa nello stesso periodo verificò che decine di migliaia di bambini si rivolgevano al pronto soccorso ogni anno a causa di incidenti di gioco. Il risultato fu che nel 1981 la U.S. Consumer Product Safety Commission pubblicò il primo Manuale per la sicurezza nei parchi giochi pubblici, un breve elenco di linee guida generali – la parola linee guida era in grassetto, per distinguere il contenuto da requisiti obbligatori – che avrebbero dovuto orientare le attrezzature. Per esempio nessun componente di nessuna attrezzatura avrebbe dovuto formare angoli o aperture che potessero intrappolare parti del corpo di un bambino, specialmente la testa.
Per alzare la pressione, Sweeney e un altro consulente sulla sicurezza dei parchi giochi, Joe Frost, cominciarono a catalogare gli orrori che potevano capitare ai bambini nei parchi giochi. Fra tutti e due avevano testimoniato in quasi duecento casi e potevano esporre dettagliatamente particolari raccapriccianti – diversi bambini avevano avuto la testa intrappolata o schiacciata da giostre; uno si era impiccato con una corda attaccata alla ringhiera di una piattaforma; uno era stato ucciso da una moto che si era schiantata su un parco giochi non recintato; uno era caduto mentre giocava a football su un terreno roccioso. In un articolo che scrissero insieme, Sweeney e Frost richiesero una «ispezione immediata» di tutte le attrezzature che erano state installate prima del 1981, e la rimozione di tutto ciò che risultasse difettoso. Richiesero anche che in tutta la nazione i parchi giochi installassero pavimenti di gomma in zone cruciali.
Nel gennaio 1985 il Dipartimento dei parchi di Chicago concluse la vertenza coi Nelson. A Frank Nelson fu garantito un minimo di 9,5 milioni di dollari. Maurice Thominet, il responsabile tecnico del Dipartimento, riferì al Chicago Tribune che la città avrebbe: «guardato freddamente e con durezza a tutte le nostre attrezzature» e presumibilmente rimosso gli scivoli tornado e alcune altre strutture. All’epoca, un lettore scrisse al giornale:
Capitano ancora incidenti? …
Può una madre prendersi il rischio di portare il suo bambino in cima a unno scivolo tornado, con le migliori delle intenzioni, e avere un incidente?
Chi è responsabile per un bambino in un parco, il dipartimento o i genitori? Le altalene colpiscono bambini di un anno alla testa, sono sicuro talvolta con serie conseguenze. Eliminiamo le altalene?
Ma queste si rivelarono le divagazioni di un’età morente. Più o meno all’epoca in cui la transazione del caso Nelson divenne pubblica, i gestori del verde pubblico in tutto il paese iniziarono a rimuovere attrezzature ora considerate pericolose, in parte perché non potevano permettersi di essere citati in giudizio, specialmente ora che un manuale governativo poteva essere utilizzato dai ricorrenti come prova di standard non rispettati dai parchi giochi. In previsione di cause legali i costi delle assicurazioni si impennarono. Come il lettore del Tribune aveva intuito la comprensione culturale del rischio accettabile aveva iniziato a spostarsi, cosicché qualunque rischio conosciuto divenne sinonimo di azzardo.
Nel corso degli anni il manuale ufficiale sui prodotti messi in vendita ha subito diverse revisioni; include adesso un elenco di linee guida tecniche per i produttori. Sempre più i parametri sono definiti da ingegnere, esperti tecnici e avvocati, con pochissimi suggerimenti significativi da parte «di persone che capiscono qualcosa di gioco dei bambini», dice William Weisz, un consulente di progettazione che ha fatto parte di diversi comitati destinati a supervisionare le linee guida. Il manuale comprende specifiche prescrizioni per l’esatta altezza, pendenza e altri angoli per quasi qualunque elemento di attrezzatura. Il pavimento in gomma o in segatura è praticamente obbligatorio; l’erba e la terra battuta sono «non considerati efficaci perché il logorio o i fattori ambientali possono ridurre la capacità di attutire gli urti».
Non succede più con facilità di trovare un parco giochi che abbia un elemento di sorpresa, non importa quanto lontano si viaggi. I ragazzini possono trovare gli stessi scivoli con la stessa altezza e pendenza come quelli del loro quartiere, con parecchi degli stessi accessori. Io vivo a Washington, vicino a una sezione del Rock Creek Park, e ai tempi del mio primo anno nel quartiere un angolo periferico del parco conduceva a suo estremo a quello che i nostri vicini chiamavano il parco giochi dimenticato. Lo scivolo aveva i gradini in legno, e aveva una pendenza così angolata che i ragazzini dovevano imparare a controllare a loro velocità per non atterrare con troppa forza sulla terra. Ancora più esaltante, una casa sull’albero appollaiata a quattro metri dal suolo, dove i ragazzini del vicinato si radunavano dividendosi nelle gerarchie di branco che ricordo dalla mia infanzia – i bambini più piccoli a terra a “cucinare”, mentre i ragazzi più grandi dominavano il rifugio in alto. Ma nel 2003, quasi un anno dopo il mio arrivo, i gestori del parco abbatterono la casa sull’albero e sostituirono l’intero parco giochi con un insieme di attrezzature prefabbricate con una base in gomma. Ora il parco giochi può attirare l’attenzione solo di un bambino molto piccolo, e non a lungo. I ragazzi passano la maggior parte del loro tempo nel cassone della sabbia; forse gli piace perché i vicini l’hanno trasformato in un mini campo avventura, gettandoci un casuale frullino o colapasta o una macchinina rotta.
Negli ultimi anni Joe Frost, il vecchio alleato della Sweeney nella crociata sulla sicurezza, ha cominciato a preoccuparsi che forse ci siamo spinti troppo avanti. In un articolo del 2006 propone l’esempio di due genitori che hanno chiesto un risarcimento quando il loro bambino è inciampato sul ceppo di un albero abbattuto in una piccola foresta di sequoie che era parte di un parco giochi. L’azione legale era giustificata. Dopo tutto l’ultimo manuale sulla sicurezza consiglia ai progettisti di: «considerare rischi di inciampo, come basi non coperte di cemento, ceppi d’albero e rocce». Ma gli adulti sono giunti all’errata convinzione che i bambini debbano essere protetti da ogni rischio di farsi male», scrive Frost. «Nel mondo reale la vita è piena di rischi – finanziari, fisici, emotivi, sociali – e rischi ragionevoli sono essenziali per il sano sviluppo di un bambino».
Al centro dell’ossessione per la sicurezza c’è una visione del bambino che è l’esatto opposto di quella di Lady Allen, «un’idea che i bambini sono troppo fragili o così poco intelligenti da valutare correttamente i rischi di ogni data situazione», sostiene Tom Gill, l’autore di Niente paura [segnalo anche il sito di Tom Gill, Rethinking childhood, NdRufus], una critica del rifiuto del rischio nella nostra società. «Oggi la nostra ipotesi di lavoro è che non ci si può fidare che i bambini risolvano a modo loro situazioni problematiche dal punto di vista fisico o sociale e emozionale».
Che cosa va perduto in mezzo a tutta questa protezione? A metà degli anni ’90 in Norvegia venne approvata una legge che richiedeva che tutti i parchi giochi osservassero certi parametri di sicurezza. Ellen Sandseter, una docente di educazione delle prima infanzia al Dronning Mauds Minne Høgskole di Trodheim aveva appena avuto il suo primo figlio e osservò come uno dopo l’altro i parchi giochi del suo quartiere venivano trasformati in luoghi noiosi. Sandseter aveva scritto la sua tesi di dottorato sui preadolescenti e sul loro bisogno di eccitazione e di rischio; aveva osservato che se non potevano soddisfare quel desiderio in forme socialmente accettabili, alcuni si sarebbero indirizzati a comportamenti più spericolati. Si chiese se una dinamica simile potesse trovare spazio fra ragazzini più piccoli man mano che i parchi giochi divenivano più sicuri e meno interessanti.
Sandseter iniziò a osservare e intervistare i bambini nei parchi giochi norvegesi. Nel 2011 pubblicò i suoi risultati in un articolo intitolato Il gioco pericoloso dei bambini in una prospettiva evoluzionistica: gli effetti antifobici delle esperienze emozionanti. Secondo le sue conclusioni i bambini hanno una necessità sensoriale di sperimentare pericolo e eccitazione: questo non vuol dire che ciò che fanno deve essere davvero pericoloso, solo che devono sentire che stanno correndo un grande rischio. Questo li spaventa, ma poi sconfiggono la paura. Nell’articolo Sandseter identifica sei tipi di giochi pericolosi: 1) Esplorare altezze, o avere «la vista d’uccello», così la chiama – «in alto abbastanza da evocare la sensazione di paura; 2) Maneggiare oggetti pericolosi – usare forbici appuntite o coltelli, o martelli pesanti che dapprima sembrano ingestibili ma che il bambino impara a padroneggiare; 3) Essere vicino a elementi naturali pericolosi – giocare nei pressi di vasti specchi d’acqua, o vicino a un fuoco, cosicché i bambini sono coscienti che c’è un pericolo vicino; 4) Giochi maneschi – fare la lotta, combattere per gioco – cosicché i bambini imparano a negoziare aggressione e cooperazione; 5) Velocità – andare in bicicletta o sciare a un ritmo che sembra troppo rapido; 6) Esplorare per conto proprio.
Di quest’ultimo Sandseter dice che: «è il più importante per i bambini». Mi ha detto: «Quando sono lasciati per conto loro e possono assumersi la piena responsabilità per e loro azioni e per le conseguenze delle loro decisioni, è un’esperienza emozionante».
Per valutare gli effetti del perdere queste esperienze, Sandseter si rivolge alla psicologia evolutiva. I bambini nascono con l’istinto di prendere rischi nel gioco, perché storicamente imparare a affrontare rischi è stato cruciale per la sopravvivenza; in un’altra era avrebbero dovuto imparare come scappare da un pericolo, difendere se stessi da un altro, essere indipendenti. Anche oggi crescere è un processo che comporta gestire le paure e arrivare a decisioni sensate. Impegnandosi in giochi rischiosi i bambini si stanno effettivamente sottoponendo a una terapia per esposizione, in cui si costringono a fare la cosa che temono per poter sconfiggere quel timore. Ma se non superano mai tutto quel processo la paura può trasformarsi in fobia. Paradossalmente, scrive Sandseter, «la nostra paura che i bambini subiscano danni», di solito di scarsa importanza, «può avere come risultato nei bambini più paurosi un aumentato livello di psicopatologie». Cita uno studio che mostra che i bambini che si sono fatti male cadendo da altezze fra i cinque e i nove anni hanno meno probabilità di avere paura delle altezze ai diciotto anni. «Un gioco rischioso che coinvolge grandi altezze fornirà un’esperienza con effetti desensibilizzanti o di assuefazione», scrive.
Potremmo essere disponibili ad accettare un po’ più fobie in cambio di meno ferite. Ma l’ironia conclusiva è che la nostra stretta attenzione alla sicurezza non ha fatto una gran differenza sul numero di incidenti subiti dai bambini. Secondo il Sistema Nazionale di Sorveglianza Elettronica delle Lesioni, che monitora il numero di ingressi in ospedale, la frequenza di interventi del pronto soccorso legati a incidenti con attrezzature dei parchi giochi, comprese attrezzature domestiche, era di 156 000 nel 1980, o un intervento ogni 1 452 americani. Nel 2012 era di 271 475, o uno ogni 1 156 americani. Anche il numero delle morti non è cambiato di molto. Dal 2001 al 2008 Consumer Product Safety Commission ha segnalato 100 morti associate con attrezzature dei parchi giochi – in media 13 all’anno, o dieci in meno di quelle indicate per il 1980. Ferite alla testa, motociclette impazzite, una fatale caduta su una roccia – la maggior parte degli orrori descritti da Sweeney e Frost tutti quegli anni fa si scoprono essere tragedie inaspettate mostruosamente rare, tali che nessuna quantità di controlli di sicurezza può prevenirle.
Perfino le superfici in gomma non sembrano aver fatto molta differenza nel mondo reale. David Ball, un docente di gestione del rischio all’Università del Middlesex, ha analizzato le statistiche dei ferimenti nel Regno Unito e ha scoperto che come negli USA non c’è una tendenza chiara nel tempo. «L’avvento di tutte queste superfici speciali per i parchi giochi ha contribuito molto poco, se anche l’ha fatto, alla sicurezza dei bambini», mi ha detto. Ball ha trovato qualche prova che fratture delle ossa lunghe, che sono molto più comuni delle ferite alla testa, stanno di fatto aumentando. La teoria migliore è quella della “compensazione del rischio” – i bambini non si preoccupano più di cadere sulla gomma, così non sono tanto attenti e finiscono per farsi male più spesso. Il problema, dice Ball, è che «siamo arrivati a pensare agli incidenti come prevenibili e non come una pare naturale della vita».
La categoria della lista di Sandseter che probabilmente rende i genitori dell’attuale generazione più nervosi è quella che comporta che i bambini si perdano, o almeno che si sottraggano al controllo degli adulti. «Ai bambini piace girovagare da soli e andare in esplorazione lontano dagli occhi degli adulti», scrive. Essi «sperimentano un sentimento di rischio e il pericolo di ritrovarsi perduti» quando «gli viene data la possibilità di “incrociare” per conto proprio esplorando aree sconosciute; anzi, hanno il bisogno di farlo». Qui di nuovo Sandseter cita dati che mostrano che il numero di esperienze di separazione prima dei nove anni è correlata negativamente con i sintomi di ansietà da separazione all’età di diciotto anni, cosa che suggerisce un effetto di “inoculazione”.
Ma i genitori di questi tempi hanno scarsa tolleranza per il vagabondare dei ragazzini, per ragioni che, così come la crescente paura per gli incidenti nei campi giochi, hanno le loro radici negli anni ’70. Nel 1979, nove mesi dopo che Frank Nelson cadde da quello scivolo a Chicago, un bambino di sei anni, Etan Patz, lasciò l’appartamento dei suoi genitori nel centro di New York per andare da solo a piedi alla fermata dell’autobus. Etan aveva implorato a lungo sua madre perché gli permettesse di andare da solo; molti sui amici lo facevano e quella mattina era la prima volta che lei glielo permise. Ma, così come praticamente chiunque che sia cresciuto a New York a quell’epoca sa, non torno mai a casa (nel 2012 un uomo del New Jersey è stato arrestato per l’omicidio di Etan). Avevo quasi dieci anni all’epoca, e ricordo i telegiornali della sera e la sua foto di scuola, con un sorriso grande quasi quanto quello di Mick Jagger. Ricordo anche che, in un qualche momento durante le settimane di interminabile copertura mediatica della ricerca di Etan, per la prima volta i genitori del vicinato si organizzarono per accompagnare a turno i bambini in gruppo alla fermata dell’autobus.
Il caso di Etan Patz fece iniziare l’era dell’onnipresente bambino scomparso, come racconta Paula Fass in Rapiti: sottrazioni di bambini in America. I visi dei bambini cominciarono ad apparire sui cartoni del latte e Ronald Reagan scelse la data della scomparsa di Ethan come Giornata Nazionale dei Bambini Scomparsi. Sebbene nessuno sapeva cosa fosse successo ad Etan, prese piede la teoria che avesse subito un abuso sessuale; ben presto il New York Times citò uno psicologo che diceva che il caso Patz annunciava una «epidemia di abusi sessuali di bambini». In breve tempo, scrive Fass, gli americani si convinsero che i casi di molestie di bambini erano diffusi. Nel tempo, la paura promosse una nuova regola assoluta per i genitori: i bambini non devono mai parlare con gli sconosciuti.
Ma i casi di rapimento come quelli di Etan Patz erano incredibilmente poco comuni una generazione fa, e lo rimangono oggi. David Finkelhor è il direttore del Centro di Ricerca dei Crimini contro i Bambini e l’autorità più affidabile nel campo delle statistiche legate agli abusi sessuali e ai rapimenti di bambini. Nella sua ricerca Finkelhor evidenzia una categoria di reato che chiama “il rapimento per definizione”, con cui intende quel tipo di rapimento che probabilmente arriverà sui telegiornali, durante il quale la vittima sparisce da un momento all’altro, o viene portata più di 50 miglia lontano, o è uccisa. Finkelhor sostiene che i casi estremamente rari e non sembrano essere aumentati dalla metà degli anni ’80, e secondo lui dagli anni ’70, sebbene allora non raccogliesse i dati. Complessivamente i reati contro i bambini sono in calo, in linea con il calo generale della criminalità a partire dagli anni ’90. Un bambino con una famiglia felice e intatta che va a piedi alla fermata dell’autobus e non torna più a casa è ancora una tragedia individuale, non una epidemia nazionale.
Un tipo di reato che è in aumento, dice Finkelhor, è la sottrazione in famiglia (che nei resoconti dell’FBI è accorpata al rapimento per definizione, spiegando così i numeri apparentemente allarmanti talvolta riportati dai media). L’esplosione di divorzi degli anni ’70 ha comportato molte più guerre per l’affidamento e molti più bambini fatti sparire da uno o dall’altro dei genitori. Se una madre ha paura che il figlio possa essere rapito, la sua regola ferrea non dovrebbe essere: non parlare con sconosciuti. Dovrebbe essere: non parlare con tuo padre.
La distanza fra ciò che le persone temono (rapimento da parte di uno sconosciuto) e ciò che in realtà avviene (crisi familiari e battaglie per l’affidamento) è rivelatrice. Ciò che è cambiato dagli anni ’70 è la natura della famiglia americana, e il più ampio senso di comunità. Per una varietà di ragioni – divorzi, più famiglie con genitore unico, più madri che lavorano – sia le famiglie che i quartieri hanno perso la loro coesione. Forse è natura che la fiducia in generale sia stata erosa, e che i genitori si siano sforzati di controllare più strettamente ciò che potevano – più di tutto, i figli.
Man mano che noi genitori abbiamo cominciato a considerare gli spazi pubblici – parchi giochi, strade, campi sportivi pubblici, la distanza fra scuola e casa – come pericolosi, altre, più piccole decisioni sono state inserite nel quadro. Se chiedete a qualcuno dei miei colleghi genitori di descrivere una tipica settimana della vita dei loro figli vi citeranno probabilmente la scuola, i compiti, il doposcuola, appuntamenti per giocare, squadre sportive allenate da un altro genitore, a molto poco tempo libero, senza supervisione adulta. L’incapacità di sovraintendere i bambini è divenuta, in effetti, il sinonimo di una incapacità a essere genitori. Il risultato è un «continuo e alla fine drammatico declino nelle possibilità per i bambini di giocare e esplorare nei modi da loro scelti», come scrive Peter Gray, uno psicologo del Boston College e l’autore di Liberi di imparare. Niente più giochi casuali in strada, passeggiate senza scopo da scuola a casa, o guardie e ladri in garage tutto il pomeriggio. La cultura infantile dei miei giorni nel Queens, con le sue specifiche tradizioni e regole, è i sui particolari piaceri e sofferenze, è virtualmente estinta.
Nel 1972 lo studente di geografia di origine inglese Roger Hart si assegnò un progetto di tesi inusuale. Si trasferì in una città rurale del New England e, per due anni, seguì gli spostamenti di 86 bambini della scuola elementare locale, per creare quella che chiamò una “geografia dei bambini”, comprese vere mappe che avrebbero mostrato dove e quanto lontano i bambini tipicamente si aggiravano fuori casa. Di solito le ricerche sui bambini si fanno intervistando i genitori, ma Hart decise di andare direttamente alla fonte. Il preside della scuola gli prestò un’aula che divenne nota come “la stanza di Roger” e lentamente si diede a conoscere i bambini. Hart gli rivolse domande riguardo a dove andassero ogni giorno e cosa pensassero di quei posti, ma soprattutto andò in giro con loro. Anche adesso che è un padre e un accademico posato Hart ha un’aria sognante da folletto. I bambini si trovavano a proprio agio con lui e erano contenti di mostrargli i propri momenti di orgoglio. Spesso lo portarono in posti che gli adulti non avevano mai visto – capanne per giocare o fortini che i ragazzi avevano costruito solo per se stessi.
La metodologia di Hart era innovativa, ma non pensava di stare registrando niente di radicale. Molte delle sue osservazioni all’epoca dovevano sembrare banali. Per esempio: «Fui colpito dalla grande quantità di tempo che i bambini passavano a modificare il paesaggio per costruire luoghi per sé e per il proprio gioco». Ma leggere la sua tesi oggi dà a sensazione di imbattersi in una civiltà perduta, una cultura infantile con i suoi propri modi di giocare e pensare e sentire che oggi sembra totalmente sconosciuta. I bambini passavano immense quantità di tempo per conto proprio, a creare territori immaginari di cui talvolta i loro genitori non sapevano nulla. I genitori non avevano alcun ruolo nel loro radunarsi – «è attraverso l’andare in giro i bici che i ragazzi più grandi si trovano per caso a giocare insieme», osservò Hart. I fortini che costruivano non erano lodati e vezzeggiati dai loro genitori, perché i genitori non li vedevano quasi mai.
Attraverso le sue mappe Hart scoprì degli schemi generali: fra la seconda e la terza, per esempio, il “campo libero” dei bambini – quanto gli era concesso allontanarsi da casa senza chiedere prima il permesso – tendeva a espandersi significativamente perché gli era permesso andare in bici da soli a casa di un amico o a un campo sportivo. Entro la quinta i ragazzi maschi soprattutto conquistavano una «drammatica nuova libertà» e potevano andare praticamente dove volevano senza dover chiedere nessun permesso (le bambine avevano più restrizioni, poiché spesso aiutavano le mamme con lavori di casa o commissioni o stavano a casa a badare a fratellini più piccoli). Per i bambini ogni piccola aggiunta al loro campo libero – il permesso di attraversare una strada asfaltata, o andare in centro città – era un segno di crescita. I bambini erano particolarmente orgogliosi, notò Hart, nel «sapere come andare nei posti» e nel trovare scorciatoie che gli adulti normalmente non usavano.
La ricerca di Hart divenne la base per un documentario della BBC, che da poco mi ha mostrato nel suo ufficio alla City University di New York. Una lunga scena ha luogo oltre un fiume dove i ragazzi andavano a costruire quelle che chiamavano case sul fiume, strutture fatte di frasche e oggetti disparati portati via furtivamente da casa. In una scena Joanne e sua sorella Sylvia mostrano ai cineasti la “casa” che hanno fatto, principalmente con teli arancioni e marroni sospesi sui rami. I mobilio è stato costruito con amore e sagacia – il televisore, per esempio, è una scatola su una pietra con una foto di un giornale di moda incollato sul davanti. Il telefono è una pietra con un pezzo di spago arricciato che gli spunta da sotto.
Le ragazzine dovrebbero essere intimidite perché vengono riprese, ma invece sono completamente a proprio agio, scuotono i capelli, siedono vicine su scatole e progettano come ristrutturare. Vicino il loro fratellino di quattro anni sta abbattendo un alberello con un’accetta per una nuova aggiunta. Le ragazze e i loro fratellini hanno impiegato centinaia di ore in questo luogo lungo gli anni; la loro madre non è mai venuta qui, non una volta, dicono, perché non le piace bagnarsi i piedi.
In un’altra scena Andrew e Jenny, fratello e sorella di 6 e 4 anni rispettivamente, esplorano una parte del bosco alla ricerca delle migliori felci con cui fare un letto. Jenny va i giro coi suoi calzettoni bianchi al ginocchio, trecce che oscillano, alla ricerca delle fronde più grandi. Il suo fratello grande cerca di sistemarle nel modo migliore. Il sole splende attraverso il folto degli alberi e la telecamera rimane sui bambini a lungo. Quando sono soddisfatti del loro letto si coricano uno a fianco all’altro. «Non prendere le mie felci», si lamenta Jenny, e Andrew le fa la lingua. A questo punto mi sentivo in testa il genitore che interviene: «Su, ragazzi, dividete. Ce n’è abbastanza per tutti». Ma non ci sono genitori; i bambini sono ormai lontani dalla vista dei genitori da diverse ore. Mi sono commossa guardando il film ed è stato solo qualche giorno dopo che ho capito perché. In tutti i miei anni come genitore non mi sono mai imbattuta in bambini così interiormente focalizzati, così in sintonia con ciascun altro, così completamente assorbiti dal mondo che hanno creato, e penso che sia perché in tutti i miei anni come genitore ho principalmente incontrato bambini che danno per scontato che sono sempre sorvegliati.
Nel 2004 Hart è tornato nella stesa città per fare uno studio di verifica. Il suo obiettivo era quello di rintracciare tutti i bambini di cui aveva scritto che ancora vivessero entro 100 miglia dalla città e verificare come stavano facendo crescere i loro figli, e seguire anche alcuni dei ragazzini che ora vivevano in città. Ma fin dal primo giorno capì che non avrebbe mai potuto fare la ricerca nello stesso modo. Hart iniziò dalla casa di un ragazzo che aveva conosciuto, ora un padre, e chiese se poteva parare col figlio fuori casa. La madre disse che potevano andare nel cortile posteriore, ma li seguì, rimanendo sempre più o meno duecento metri dietro di loro. Ad Hart non sembrò che i genitori fossero sospettosi nei suoi confronti, piuttosto che si «fossero abituati all’idea di essere sempre vicini ai loro figli, e che non gli piacesse che si allontanassero». Si rese conto che questa volta avrebbe potuto giungere ai ragazzi solo attraverso gli adulti; anche i bambini non sembravano interessati a parlare da soli con lui; godevano già di abbondante attenzione da parte di adulti. «Erano così abituati ad avere a vita organizzata dai loro genitori», mi ha detto. Nel frattempo il nuovo preside della scuola ha dichiarato che non vuole che Hart vi faccia ricerca, perché non è direttamente legata ad attività curricolari.
A un certo punto Hart riuscì a rintracciare Sylvia, una delle ragazzine riprese nella casa sul fiume. «Roger Hart! Mio Dio, la mia infanzia è esistita», gridò a telefono. «È solo che dico contiuamente alle persone quello che facevamo, e non mi credono!». Sylvia era ora una mamma borghese con due figi (di cinque e quattro anni) e lei e suo marito si erano trasferiti in una nuova casa distante 30 miglia. Quando Hart si recò a visitare Sylvia, filmò il dialogo. In peidi all’aperto nel cortile posteriore, Sylvia gli dice che ha comprato questa casa perché voleva dare ai suoi figli quel tipo di esperienza infantile che anche lei ha avuto, e quando ha visto la piccola area boscosa sul retro, il suo «cuore ha fatto un balzo». Ma «non c’è modo di farli uscire nel bosco», aggiunge. «La mia città adesso è così variegata, con gente che va e che viene e un sacco di vagabondi». Hart le ricorda come fosse abituata a passare la maggior parte del suo tempo da sola oltre il fiume, a giocare. «Non c’è fiume qui», gli dice lei, e poi sussurra: «e ne sono veramente contenta». Presto ci sarà uno steccato attorno al cortile – menziona lo steccato più volte – «così saranno controllati» e potrà sempre vedere i suoi ragazzi dalla finestra della cucina. Mentre Sylvia viene intervistata suo figlio fa un paio di tentativi non troppo convinti di tagliar ela siepe con un paio di forbici, ma in realtà non sembra proprio avre idea di come fare e non si allontana mai più qualche decia di centimetri dal padre.
Quando Hart mostra a Jenny e Andrew il film in cui li si vede giocare nelle felci sono entrambi profondamente commossi, perché non si sono mai visti in un film da bambini e perché anche per loro i ricordo si è trasformato in una nebbiosa fantasia. Hanno figli entrambi e vivono ancora nella cittadina del New England. Di tutte le persone che Hart ha ritrovato sembrano essere quelli che hanno provato più duramente a creare per i propri figli alcune delle possibilità ricreative che loro stessi hanno avuto. Jenny ha comprato una casa con un granaio, vicino a una vasta zona di boschi; non permette ai suoi figli di guardare a lungo la TV o giocare coi videogames, incoraggiandoli invece a andare nel granaio e giocare nel fieno o a badare al giardino. Dice che non le importerebbe molto se vagabondassero nei boschi, ma che «loro non vogliono andare dove non li si può vedere». In ogni caso, l’esercizio fisico necessario lo fanno nelle varie squadre sportive in cui giocano. Jenny recupera un po’ della sua identità infantile quando racconta come lei e i ragazzi ammucchiano rocce nel cortile per costruire un trampolino o usano bastoni per costruire un fortino. Ma è Jenny a dare inizio a queste attività; i ragazzi di solito non le scoprono da soli.
Fra questa nuova generazione di ragazzini, il campo libero è abbastanza limitato. Non si aggirano mai molto lontano da casa e non sembrano nemmeno volerlo fare. Hart ha parlato con un poliziotto della zona che gli ha detto che non c’erano tutti questi vagabondi e che nel corso degli anni i reati soo irmasti allo stesso livello – un livello basso. «C’è una paura» fra i genitori, mi ha detto Hart, «una esagerazione dei pericoli, una perdita di fiducia che non è completamente spiegabile con chiarezza». Hart non ha ancora pubblicato i risultati di questa sua ricerca più recente, e mi ha detto che è timoroso di essere influenzato dalla sua personale nostalgia per i bambini rousseauiani dei suoi ricordi. Per esempio, mi ha detto che deve essere onesto riguardo alle cose che sono migliorate nella nuova versione di infanzia. Ai vecchi tempi, quando i bambini erano lasciati a se stessi, le gerarchie infantili si formavano con rapidità e alcuni bambini rimanevano sempre in basso, o erano del tutto esclusi. Inoltre i padri erano largamente assenti; adesso i bambini sono molto più vicini ai loro papà – più vicini a entrambi i loro genitori di quanto lo fossero allora. IO aggiungerei che gli anni ’70 furono gli anni del boom dei divorzi, e che molti bambini si sentirono trascurati dai loro genitori; forse l’attenta supervisione odierna è il risultato dell’essersi giurati di non ripetere quell’errore. E tuttavia nonostante tutto questo Hart non può evitare di chiederi che cosa sia scomparso con «l’erosione della cultura infantile», in cui i bambini «inventavano le proprie attività e costruivano un tipo di comunità per conto proprio di cui sapevano molto di più dei loro genitori».
La frequente preoccupazione dei genitori di questi tempi è che i bambini crescono troppo in fretta. Ma certe volte sembra che i bambini non ottengano per niente lo spazio per crescere; diventano solo bravi a imitare le usanze degli adulti. Come dimostra la ricerca di Hart, un tempo i bambini acquisivano responsabilità gradualmente, anno dopo anno. Attraversavano la strada, andavano al negozio; ala fine alcuni di essi si procuravano lavoretti nel quartiere. Il loro orgoglio era composto di competenza e indipendenza, che crescevano man mano che provavano e padroneggiavano attività che non avevano svolto l’anno prima. Ma oggi questi bambini, perlomeno nella classe media, saltano queste pietre miliari. Passano molto tempo in compagnia di adulti così parlano e pensano come loro, ma non si formano mai la sicurezza di sé dell’essere davvero indipendenti e autosufficienti.
Negli ultimi tempi i genitori sono arrivati a ragionare lungo le linee descritte dalla sociologa della University of Pennsylvania Annette Lareau. I genitori della classe media vedono i propri figli come progetti: si impegnano in quella che lei chiama “educazione concordata”, un perseguimento attivo dell’arricchimento dei loro figli. I genitori della classe operaia e i poveri, nel frattempo, parlano meno coi loro figli, controllano i loro progressi meno attentamente, e promuovono quella che Lareau chiama il “risultato della crescita naturale”, lasciando forse i loro figli meno preparati a condurre vite da classe media da adulti. Molte persone interpretano i suoi risultati come la prova che lo stile di genitorialità della classe media, complessivamente, è superiore. Ma questa può essere una conclusione eccessivamente semplicistica e egoistica; forse entrambe le forme di allevamento della prole hanno qualcosa da insegnare all’altro.
Quando Claire Griffiths, il manager dela Landa fa richiesta di fondi per finanziare il suo innovativo spazio di gioco, elenca spesso i vantaggi concreti di attirare i bambini all’aperto: combattere l’obesità, sviluppare abilità motorie. Parla anche dello stesso scopo di cui parlava Lady Allen tanti anni fa – incoraggiare i bambini a prendersi dei rischi così che possano costruire la loro fiducia in se stessi. Ma i benefici più nebulosi di una cultura infantile più libera sono più ardui da indicare in una richiesta di fondi, sebbene ci siano esperimenti che li evidenziano. Per esempio nel 2011 la scuola elementare di Swanson, in Nuova Zelanda si sottopose a un esperimento universitario e accettò di sospendere tutte le regole del campo giochi, permettendo ai bambini di correre, salire sugli alberi, scivolare giù da una collina fangosa, saltare dalle altalene e giocare in una “fossa di oggetti spaiati” che era una specie di mini parco avventura. Gli insegnanti temevano il caos, ma in realtà ciò che ottennero furono meno capricci e bullismo – perché i bambini erano troppo indaffarati e coinvolti per causare guai, dichiarò il preside.
In un saggio intitolato The play deficit [“il deficit del gioco”, NdRufus] Peter Gray, lo psicologo del Boston College, racconta le ricadute della perdita della vecchia cultura infantile, ed è un elenco familiare degli abituali mali attribuiti ai cittadini del Millennio [Millennials, cioè la generazione nata fra gli anni ’80 e l’inizio di questo secolo, talvolta chiamati anche generazione Y, NdRufus]: depressione, narcisismo e un declino di empatia. Nell’ultimo decennio la percentuale di ragazzi dell’età della scuola superiore che sono curati con farmaci psichiatrici si è impennata, secondo uno studio del 2012 della American College Counseling Association. Psicologi che svolgono attività di cura hanno scritto (su questa rivista e altrove) della crisi unica di identità che questa generazione affronta – una paura di crescere e, nelle parole di Brooke Donatone, una psicologa di New York – una «incapacità a pensarsi per sé».
Nel suo saggio, Gray evidenzia il lavoro di Kyung-Hee Kim, una psicologa dell’educazione al College of William and Mary e l’autrice di un articolo del 2011 La crisi della creatività. Kim ha analizzato i risultati dei test di Torrance sul pensiero creativo e ha scoperto che i risultati dei bambini americani sono calati regolarmente lungo lo scorso decennio o più. I dati mostrano che i bambini sono diventati:
Meno capaci di esprimere emozioni, meno energici, meno loquaci e capaci di esprimersi verbalmente, meno umoristi, meno immaginativi, meno spregiudicati, meno vivaci e appassionati, meno percettivi, meno capaci di collegare fra loro cose apparentemente insignificanti, meno capaci di sintesi e meno inclini a vedere le cose da un punto di vista differente.
Il calo maggiore, secondo le osservazioni di Kim, è stato nell’indice di elaborazione, cioè la capacità di prendere un concetto ed espanderlo in modo innovativo.
Gli stereotipi riguardo ai Millennial hanno sufficientemente allarmato studiosi e genitori da indurli a reagire alla cultura del controllo genitoriale. Molti recenti libri di consigli per genitori hanno invocato una ritirata, fra loro Genitori col nastro rosso, Il bambino la sa più lunga e il prossimo The kids will be fine [“i ragazzi staranno bene”, NdRufus]. Nel suo recente ottimo libro, Tutta gioia e niente spasso, Jennifer Senior sviluppa l’idea che i genitori si stanno infliggendo sofferenze da soli col credere di dovere in ogni momento massimizzare la felicità e il successo dei figli.
Nel Regno Unito la paranoia securitaria si sta allentando. L’equivalente inglese della Consumer Product Safety Commission ha recentemente rilasciato una dichiarazione per la quale «vuole essere sicura che preoccupazioni erronee per la salute e la sicurezza non creino ambienti di gioco sterili che manchino di elementi di sfida e così prevengano i bambini dall’espandere le loro conoscenze e migliorare le loro abilità». Mentre ero in Inghilterra, Tim Gill, l’autore di No fear, mi ha portato in un parco giochi di Londra appena costruito che mi ha ricordato dei vecchi tempi, con lunghi, veloci scivoli giù per una collina rocciosa, una roccia per scalate con la possibilità di saltare dall’alto, e poche aree recintate. Nel frattempo il governo gallese ha esplicitamente adottato una strategia per incoraggiare il gioco attivo indipendente fra i bambini piccoli, piuttosto che l’imparare dai libri, spianando la strada per una manciata di parchi avventura come la Landa e altre iniziative di gioco.
È difficile dire se gli americani seguiranno la tendenza inglese, sebbene stiano apparendo alcuni segni di speranza. C’è un crescente interesse negli Stati Uniti per “asili nel bosco” in stile europeo, i cui i bambini ricevono poca istruzione formale hanno più libertà di esplorare la natura.E a Washington, non lontano da dove vivo, abbiamo finalmente il nostro primo parco giochi emozionante da quando il “parco dimenticato” è stato spianato. Situato in una scuola privata chiamata Beavuoir, ha una teleferica e strutture per arrampicarsi che bambini di tutte e età ritengono insidiose. Ho incontrato da paco qualcuno che lavora nel parco e gli ho chiesto se la direzione della scuola non fosse stata intimidita da preoccupazioni per la sicurezza, soprattutto perché rimane aperto al pubblico nei fine settimana. Mi ha risposto che la direzione teneva alla sicurezza ma voleva anche un parco giochi emozionante; le linee guida sulla sicurezza sono, dopo tutti questi anni, ancora solo delle linee guida.
Ma il vero cambiamento culturale deve venire dai genitori. C’è una grande differenza fra evitare degli azzardi importanti e prendere ogni decisione con l’obiettivo principale di massimizzare la sicurezza dei bambini (o l’arricchimento, o la felicità). Non possiamo creare l’ambiente perfetto per i nostri figli più di quanto possiamo creare dei bambini perfetti. Credere altrimenti è illusione, e una dannosa; ricordiamocene ogni volta che ci prende il panico.
Mentre il sole calava sulla Landa, ho notato con la coda dell’occhio un cesto grigio, del genere nel quale si tengono i materiali da riciclare, che stava per essere spinto giù dalla discesa che conduceva al torrente. La testa di un bambino faceva capolino dalla coma e mi sono accorta che era quella di mio figlio. Anche per i miei standard di genitore permissivo la situazione sembrava sgradevole. La luce stava diminuendo, la discesa era molto ripida e Christian, il ragazzino che stava spingendo, aveva solo sete anni. In più il torrente era gelido e non avevo cambio d’abito per Gideon.
Non avevo visto molto mio figlio quel giorno. I bambini lasciati a se stessi acquisiscono abitudini gregarie, e così in quanto il giocatore più piccolo e più recente i veterani della Landa se ne erano presi cura. Mi avvicinai abbastanza per sentire il dialogo.
«Potresti cadere nel torrente», disse Christian.
«Lo so, disse Gideon.
Christian aveva già insegnato a Gideon come scalare lo scivolo più alto e usare l’altalena di corda. A questo punto si era meritato un po’ di fiducia. «Ti spingerò piano, ok?». «Pronti, via!», disse Gideon per tutta risposta. E giù, fino a piombare nel torrente. Per mia esperienza, Gideon è molto pignolo riguardo all’acqua. Gli dà fastidio perfino se una goccia gli finisce sulla manica quando si lava i denti. Non avevo preso una macchina a nolo per questa gita, e la signora che ci aveva dato un passaggio era andata via un attimo. Cominciai a fare piani su come procurargli altri abiti. Potevo bussare alle porte dei vicini? Chiedere a Christian di chiamare suo padre? O, in mancanza di meglio, convincere Gideon a sedersi vicino al fuoco coi ragazzi grandi?
«Mi sono bagnato», disse Gideon a Christian, e corsero via a procurarsi dei martelli con cui costruire un nuovo fortino.
Bell’articolo. Mi ha dato assai da pensare. E mi ha ricordato estati passate fra boschi e torrenti, a esplorare e a costruire capanne e dighe: estati che spero avrà anche mia figlia.
Ieri l’ho portata a un “parco avventura”: imbracatura, moschettoni, cuffia, casco, guanti. Istruttori e genitori sempre a due metri. Mah…
Grazie, Andrea. Non so se sei d’accordo, ma su queste cose la mia ipotesi di lavoro è che una consuetudine sociale, una volta che è stata abbandonata, per essere fatta rivivere richiede la creazione di una vera e propria tecnologia apposita. Per dire: un tempo ci si scambiava favori fra vicini, oggi per reimplementare una cosa del genere ti devi inventare la “banca del tempo”, solo che non è più un meccanismo semplice, ma complesso: richiede i conti correnti delle ore messe a disposizione, una segreteria, un supporto organizzativo, una bacheca dei favori disponibili, un sito internet di sostegno, un ufficio comunale che sovrintende, eccetera.
Qui per ricreare il gioco “naturale” dei bambini costruisci un ambiente raffinatamente artificiale. Si vede che viviamo davvero nell’epoca cyberpunk:
Il peggio però sono appunto i luoghi come il tuo parco avventura, dove non esiste una “naturalità” di base da ricreare, e quindi sono… grossolanamente artificiali.
Ipotesi interessante. Ma è davvero la strada necessaria? O non piuttosto un modo un po’ macchinoso che suona più adatto alla nostra mentalità attuale, mentre se la mentalità cambiasse si potrebbe, più semplicemente, tornare un po’ indietro? Proprio perché di tecnologia non ne sarebbe necessaria. Come per certe norme di comportamento ecologico che sono un passo indietro rispetto ad atteggiamenti più consumistici, ma che non differiscono dai più sobri comportamenti pre-boom dei nonni.
Sono d’accordo: si usa la tecnologia perché non ci sono (più) norme sociali condivise
Grazie Roberto. È stata una piacevole e spiacevole riflessione, sicuramente uno spunto per lasciare in pace (e liberi) i bambini, più di quanto non succeda ora.
Ho letto di recente una critica al sistema dei Piedibus, basata sullo stesso ragionamento che riporti qui: è quasi inutile fare andare i bambini a scuola a piedi, se comunque si persevera nel non lasciare loro spazi autonomi di movimento in città/paese. C’è un eccesso di controllo sui bambini, una sorveglianza perenne che genera insicurezza e spegne il desiderio di fare da sé, di scoprire il mondo in autonomia. Mi viene da pensare che tutta quest'”ansia di sicurezza” che in realtà non ne genera affatto (di sicurezza, intendo) sia espressione comoda e non dissimile dai nostri micidiali Pacchetti-sicurezza, quelli che servono solo ad aumentare lo stato di polizia, anziché la libertà delle donne. Domandarsi come si sia arrivati a considerare nemico e sommamente pericoloso tutto l’ambiente esterno ai nostri idealizzati appartamenti, quando invece è proprio lì che accade troppo spesso l’inenarrabile, è saggia cosa. Io so che ho giocato in strada in città, negli anni Settanta, mentre nei Novanta i miei figli non hanno giocato abitualmente in strada nemmeno in un paese tranquillo come San Sperate. Anche il crollo delle nascite avrà la sua incidenza, dato che noi siamo i baby-boomers, ma nel frattempo è cambiata davvero la percezione del “fuori”. E l’interno delle case è infinitamente più attrattivo rispetto alla mia infanzia, anche per un fattore che è da una parte positivo (noi abbiamo giocato parecchio con i figli, cosa che i miei genitori non avevano il tempo o la testa per fare) ma sposta l’attenzione dal mondo esterno. Ciò che interessava i miei figli da bambini non era lo spazio esterno di prossimità, ma le escursioni più lontano. Che in mancanza di un gruppo numeroso di pari età il vicinato si faccia terribilmente banale?
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