Destinazione Sardegna
La destinazione è uno strano film.
Superficialmente, la trama non è particolarmente originale: Emilio Todeschini, riminese (interpretato da Roberto Magnani, un ragazzo che pare il clone di Valentino Rossi), dovendo fare il servizio di leva, sceglie di fare il carabiniere, per avere una paga un po’ più alta e vedere/fare qualcosa di interessante. Lo seguiamo nel corso dell’addestramento, duro e faticoso come vuole la tradizione. Lo seguiamo poi nella sua prima destinazione, Coloras, un paese dell’interno della Sardegna, dove siamo con lui testimoni allucinati di un mondo diverso, incomprensibile e spietato.
Detta così la trama, conviene subito specificare che cosa non è La destinazione. Intanto, non è uno spottone a favore dell’arruolamento nell’Arma dei Carabinieri: sotto questo punto di vista è partecipe (il regista è un brigadiere con quarant’anni di servizio alle spalle) ma realistico ed estremamente sobrio: niente marescialli Rocca. Non è un film sul rapporto fra un giovane uomo e la struttura militare spersonalizzante nella quale viene inserito, o sul rapporto con l’uso delle armi: siamo in Italia, e il primo pensiero del maresciallo comandante di stazione nei confronti del nuovo arrivato è chiedergli se ha mangiato e mettere sul fuoco l’acqua per gli spaghetti. Non è neanche un romanzo di formazione: Emilio esce dal film (quasi) uguale a come c’é entrato, e comunque rimane semplicemente un testimone – allucinato, incapace di capire, rattristato a volte, perplesso – ma il suo personaggio non cresce, non matura mai.
No, Sanna si serve di schemi tipici di altri generi per fare un film sulla Sardegna, o meglio, come si direbbe da queste parti, sull’identità.
Usa con esso donno Michel Zanche
di Logodoro: ed a dir di Sardigna
le lingue lor non si senton stanche
Inferno 22, 88-90
Dall’epoca del padre Dante ad oggi, una cosa che i sardi sentono il bisogno continuo di fare è parlare di se stessi. Definirsi. Dire la propria identità. È una cosa che sospetto dal di fuori sia difficile da capire, ma questo è un tema che attraversa tutta la vita della Sardegna da almeno centosessant’anni. L’identità è un tema ad un tempo culturale, politico, economico, di programmazione sociale.
Così qualunque spettatore sardo guarderà La destinazione come un film sull’identità, e su questo lo giudicherà. Probabilmente in vari momenti questo spettatore si incavolerà non poco. Io per esempio quando Emilio ha preso un trenino a vapore per andare a Coloras, mi sono seccato: il vapore non si usa più in Sardegna da una quindicina d’anni. E allora? direte voi. Bene, ho temuto che il film volesse indulgere in quelle rappresentazioni della Sardegna false, un po’ agiografiche un po’ falsamente focloristiche che detesto come una gabbia per la mia identità di sardo. E poi mi sono, lo ammetto, sentito offeso. Ricacciato fuori da una modernità a cui aspiro di appartenere. Cito l’episodio per tentare di farvi capire l’atteggiamento dello spettatore sardo medio.
Ora, di imprecisioni come queste in La destinazione ce ne sono a bizzeffe. Un po’ perché Sanna ha tentato di evitare di localizzare il film in maniera troppo netta nel tempo, e ha voluto raccontare una storia che sembrasse di ieri, autobiografica, ma anche di oggi, operazione che non gli è del tutto riuscita. Un po’ (molto) perché ha tentato di spiegarsi, di rendere comprensibile il suo discorso anche allo spettatore che non fosse sardo: e così ha estremizzato tutto, raccontando una Sardegna più vera del vero, una Sardegna che mostra tutti quegli elementi che la gente si aspetta di vederci: i mammuthones, il matrimonio in costume… e mille altri particolari.
Per fortuna, questo handicap che stroncherebbe un bisonte non affonda La destinazione. Gli si perdona, perché questo è l’involucro. Il contenuto invece è attuale e, per un sardo, graffiante. I sardi sono un popolo di teraccos, schiavi. La Sardegna è il posto fuori dal mondo più vicino che Emilio possa trovare. E io (spettatore sardo medio) penso che era ora che qualcuno lo dicesse.
Il film con cui inevitabilmente La destinazione deve confrontarsi è un film credo poco noto fuori della Sardegna, eppure bellissimo. È Banditi ad Orgosolo, di Vittorio De Seta, un film che vinse a Venezia nella sezione documentari nei primi anni ’60… in realtà non un documentario ma un film neorealista. Banditi a Orgosolo narra di un pastore che, nella Orgosolo di Mesina e dell’occupazione poliziesca da parte dello Stato, si trova involontariamente dalla parte opposta rispetto alla giustizia e per salvare le pecore, e sempre non comprendendo la logica della giustizia di uno Stato “altro” e violento, intraprende un percorso di dannazione che ne farà un bandito senza speranza di riscatto. È un film magnificamente tragico, in cui il destino è già scritto per tutti, a partire dall’ignoranza e dall’insipienza dello Stato.
Chi ha visto Banditi a Orgosolo quarant’anni dopo riconosce ne La Destinazione la volontà di continuarne il discorso, alcune volte in modo veramente palese. Ma qui il contesto è profondamente differente: lo Stato oppressore non c’é più, la sua logica e la sua giustizia sono compresi e sostanzialmente accettati. Le vecchie spiegazioni sociologicheggianti, la disoccupazione, la società pastorale, non reggono più. O meglio: non reggerebbero più, se non ci fosse una società che ad esse si abbarbica rabbiosamente per giustificare la propria esistenza, i propri modi di fare. Nessuno oggi in Sardegna è bandito senza avere avuto la capacità, la possibilità, di capire l’esistenza di un’alternativa. E senza sapere che non ci si contrappone allo Stato, ma si è, più semplicemente, carnefici dei propri compaesani, conterranei, fratelli. È il ritornello del film; ci si dice: «Voi siete di qui, dunque ci capiamo», e si passa a parlarsi in dialetto (1). Ma in realtà non ci capiamo, o meglio non vogliamo: alcuni restano da questa parte del confine, ed altri si incamminano volontariamente dall’altra parte. Punto.
Così, se guarderete La destinazione, sappiate che parla di questo. Potete apprezzare squarci, costumi, folclore, paesaggi (in un momento si vede una casa mia!), la recitazione, una splendida colonna sonora, e due o tre momenti di un cinema purissimo che non ci si aspetta in una piccola produzione. Ma il film andrà sempre oltre tutto questo.
(1) prima che qualche purista pignolo mi faccia una ramanzina, ho usato dialetto a ragion veduta: ogni personaggio sardo del film parla infatti nel suo dialetto: molti dei carabinieri, per esempio, parlano più o meno campidanese, mentre i paesani di Coloras parlano due o tre varianti di barbaricino. Mentre personalmente ho apprezzato l’impasto linguistico, questo è un altro degli aspetti deboli del film dal punto di vista della verosimiglianza, ma non affronto l’argomento perché altrimenti facciamo notte.
Su iACine il 18/05/2003.