Hanno ucciso l’Unità
Devo dire che stamattina, quando ho sentito il signor Giuseppe l’edicolante annunciare a una cliente che l’Unità avrebbe chiuso a giorni, un po’ mi sono emozionato.
Lo zio Rufus va in sezione
Come sanno quelli che mi conoscono da molto tempo sono stato iscritto alla FGCI, la federazione dei giovani comunisti italiani, da quando avevo dodici anni fino ai quattordici, quando le posizioni dell’organizzazione al referendum sull’aborto mi fecero ritenere incompatibile l’iscrizione con la militanza in Azione Cattolica e scelsi l’AC.
Bei tempi il ’77, quando i ragazzini di dodici anni facevano politica attiva e decidevano se restare iscritti a una organizzazione o a un’altra sulla base della linea politica.
Mia mamma peraltro era iscritta da sempre alla sezione Lenin di via Leopardi e ci andavo pure io, al seguito, fin dall’infanzia.
So che il ricordo principale di mia sorella riguardo alla sezione è quello di stanzoni fumosi – è un ricordo preciso, intendiamoci, i divieti sul fumo erano fantascienza – in cui ci si annoiava a morte.
A me invece tutto sommato la sezione piaceva. Le riunioni e le liturgie degli adulti non mi dicevano niente, ma il tempo libero era uno dei pochi spazi di socializzazione alla pari fra ragazzi – bambini, nel mio caso – e adulti, come il negozio di Bartolino e, in misura appena minore, la parrocchia. Seduti in circolo nella sala principale si discuteva di tutto, compresi gli errori del compagno Berlinguer, cosa che, essendo io un parente, un po’ mi metteva in imbarazzo.
Ricordo al proposito anche una riunione del direttivo della FGCI (una dozzina di persone, praticamente tutti gli iscritti) in via Emilia con un giovanissimo Graziano Milia, già allora un fine ragionatore, finissimo, che allargava le braccia sconsolato dopo una Tribuna Politica, «Ma come si fa? “Chiediamo le dimissioni del governo”, dice, e gli chiedono: “E per fare cosa?”, e lui: “Beh, intanto buttiamolo giù, poi si vede”». E tutti là a dire la confusione della linea politica, si naviga a vista, come sarebbe a dire: e poi si vede?.
Toccò a Pietro Pani, credo, o forse a qualcun altro, capovolgere il punto di vista. Mostrava la prima pagina de l’Unità – non ci si crede a quanto il giornale fosse onnipresente in ogni momento della vita di sezione e di partito, quindi naturalmente era sul tavolo, in più copie – che annunciava una serie di misure economiche svantaggiose per le classi popolari: «All’indomani del governo di unità nazionale uscì un decreto-legge molto peggiore di questo, quindi il problema non è il contenuto. Ma un governo appena insediato che per prima cosa vara provvedimenti come questi palesemente dà un segnale politico ben preciso, quindi il Segretario ha ragione ha dire che buttarlo giù è la priorità».
Certo, guardando come sono andati a finire certi, un po’ viene da pensare retrospettivamente che Enrico non se lo meritavano, ecco. Ma la vita in sezione, comprese quelle riunioni, era educativa perché insegnava a confrontarti con punti di vista diversi da quelli familiari, per i quali Enrico era il nipote preferito di mia nonna e l’orgoglio familiare: imparavi che c’erano altre cose sotto il cielo e a trovare la tua, di posizione.
E quella riunione me la ricordo ancora perché fu la prima volta che imparai che una cosa può avere un significato politico diverso a seconda della situazione. Una scoperta di quelle che ti fanno diventare adulto.
Vendere l’Unità di Primo Maggio a Cagliari, cioè…
L’Unità era onnipresente, ho detto, in molte forme.
Era un giornale, all’epoca, che pubblicava avvisi tipo: «I senatori del PCI sono tenuti, SENZA ECCEZIONE ALCUNA, a essere presenti alla seduta del Senato del giorno tal dei tali alla tale ora». Mica si telefonava, tanto tutti leggevano il giornale e quindi non c’era bisogno.
E poi c’erano paginoni e paginoni di puro testo con tutti i gli interventi pronunciati durante le riunioni della Direzione del partito o di qualche altro organismo, per non parlare delle temute – da me – paginate e paginate di tesi congressuali. Per un ragazzino come me erano terribili, insopportabili, ma mia mamma e molti altri compagni adulti se le leggevano e rileggevano religiosamente, e in fondo era già un bel segno di trasparenza, in tempi in cui lo streaming era di là da venire. Del resto un ragazzino come me non aveva davvero bisogno di leggerle: c’erano gli interminabili dibattiti pomeridiani o della domenica mattina per riceverne il contenuto, già premasticato dagli adulti, per non parlare degli interventi durante i dibattiti ufficiali e gli attivi di sezione (l’attivo era una riunione plenaria, credo).
Sul giornale io leggevo tutto il resto: prima di tutto Fortebraccio, il notista satirico in prima pagina, il mio primo contatto con la satira. E poi ogni pagina: non era bella come il Giorno che leggeva mio nonno, l’Unità, perché sul Giorno c’erano i fumetti di Modesty Blaise, Gianni Brera e le cronache tennistiche di Gianni Clerici, ma era un bel giornale lo stesso e mi piaceva parecchio leggerla. E c’erano ottime firme, in ogni caso, soprattutto mi pare di ricordare fra i corrispondenti dall’estero.
E poi c’era la Festa dell’Unità. Un giorno d’estate quando avevo tredici anni andai con i compagni, vecchi e giovani, allo stadio Sant’Elia. Dai sotterranei cavammo fuori un vagonata di tubi Innocenti che portammo coi camion fino ai Giardini Pubblici. Là mi misero in mano una pinza a pappagallo e per un’intera giornata sotto la direzione di un paio di adulti montammo le intelaiature per gli stand. Loro erano attrezzatissimi – dovevano essere operai – con guanti da lavoro, tute, scarponi: io ero in maglietta e pantaloncini in jeans stracciati – all’epoca riciclavo così quelli che sbucciavo al ginocchio – e tornai a casa letteralmente coperto di ruggine, sebbene soddisfattissimo: ero rimasto là tutto il giorno, a pranzo mi avevano passato una rosetta col salame e avevo fatto una giornata di lavoro da uomo. Mi ero perfino inerpicato sulla cima degli stand – ero magro, all’epoca – per fissare i tubi che reggevano le coperture. Sono soddisfazioni, a quell’età.
Ma la cosa che ricordo di più erano le uscite domenicali, anche lì in un gruppo misto di ragazzini e adulti, a vendere il giornale. Mi pare che si dicesse fare diffusione. Siccome all’epoca la domenica mattina cantavo a messa col gruppo dell’Azione Cattolica le uscite erano riservate all’estate, quando l’animazione liturgica andava in ferie, o a casi particolari come il Primo Maggio.
Non si vendeva il giornale per strada: si andava invece palazzo palazzo e pianerottolo pianerottolo, si suonava in ogni casa – immaginatevi la gioia della gente, di domenica mattina – e quando aprivano gli si proponeva l’acquisto.
La prima cosa che imparai fu come farsi aprire la porta. Quando da dentro chiedevano chi è? tu dovevi rispondere dicendo amici! (Tolkien e le Porte di Moria non c’entrano).
Per un motivo sconosciuto che tuttora ignoro la gente apriva davvero, e la cosa mi è stata utile anche in seguito, ogni volta che ho avuto bisogno di farmi aprire la porta da sconosciuti. Ricordo invece che c’era un altro ragazzino più piccolo di me che si chiamava Gigi e che era un po’ il nostro Wellington – cioè era stupido come quello dei modellisti – il quale aveva capito male e al chi è? invece rispondeva: compagni! A lui, chissà perché, non apriva mai nessuno.
Girare per palazzi di quartieri sconosciuti era un’esperienza addirittura epica per un ragazzino tredicenne, molto più esotica che andare col parroco a raccogliere carta nelle case del nostro quartiere per portarla poi al macero, perché lì l’ambiente era familiare, i palazzi ben individuati e gli abitanti spesso già conosciuti: qui invece era tutto insolito, compresa la ragazza che ci aprì la porta in camicia da notte rosa piuttosto trasparente – a me non fece una grande impressione ma i compagni più grandi la commentarono, in seguito, centimetro per centimetro. Oltretutto ci aveva comprato il giornale, quindi oltre che bona era anche compagna, era perfetta.
Come tutti sanno a Cagliari non si fa alcuna manifestazione per il Primo Maggio, perché è la festa di Sant’Efisio e c’è la processione; del resto il 25 aprile c’è la festa della Madonna di Bonaria, quindi è un evidente complotto clericale contro le feste popolari e antifasciste.
Comunque.
E quindi ricordo che il Primo Maggio si andò, per dare un chiaro segnale politico, a fare diffusione al pubblico di Sant’Efisio. Non vendemmo una copia che fosse una e a metà mattina decidemmo di tornarcene nei palazzi, che perfino la gente svegliata di malagrazia era più probabile che ci comprasse qualcosa.
Insomma, adesso io un po’ l’ho buttata a ridere, ma l’Unità era tutto questo, e anche di più. L’Unità non era un giornale, era il giornale, con buona pace di Guareschi e le sue battute stupide sui trinariciuti.
Beh, a questo punto ci sta una pausa musicale, una canzone di Guccini che si apre, appunto, con l’Unità (ci sta bene anche con un certo tono malinconico dell’articolo, del quale ovviamente vi chiedo scusa).
Ripensandoci
È stata per molti aspetti una stagione magica, quella, e brevissima. Già negli anni ’80, pur continuandola a leggere perché in casa si comprava, trovavo l’Unità molto meno interessante. Nei primi anni ’80, dopo una sconfitta elettorale del PCI lessi su un giornale di Comunione e Liberazione, per la quale essendo dell’AC non avevo alcuna simpatia, uno sfottò tagliente nei confronti di un Fortebraccio che vagheggiava rivincite fuori della realtà e dovetti ammettere che non trovavo poi grandi argomenti per pensarla altrimenti: del resto Fortebraccio era quasi ottantenne e spendeva gli ultimi spiccioli di una carriera giornalistica straordinaria. Ma il problema, ovviamente, non era il vecchio corsivista: è che mi pesava sempre più la preoccupazione del giornale di dettare la linea, non tanto nei commenti e nelle analisi politiche quanto in tutto il resto, la cronaca, la politica estera, il costume. L’Unità sbandava, ma gli anni ’80 erano anni difficili e in fondo era tutta la sinistra che di fronte alla Thatcher e a Reagan sbandava.
Ma ancora l’Unità sarebbe stato il giornale di Tango e di Cuore, del primo Michele Serra, di tante altre firme esemplari, il giornale di Vetroni e dei film e delle figurine Panini: un giornale dal quale progressivamente mi sentivo più lontano ma per cui continuare a provare affetto.
Certo, qualche volta l’affetto era quello per un vecchio zio un po’ trombone: perché se si sbandava negli anni ’80 non so che vocabolo usare per il ventennio berlusconiano, e retrospettivamente non credo che si possa dire che l’Unità sia riuscita a capire e far capire la realtà dell’Italia che cambiava: forse ha prevalso, come da tante altri parti a sinistra, da un lato la rassicurante elencazione di santini poi puntualmente deludenti, l’annuncio sempre imminente della rivincita, e dall’altro lato il progressivo unificarsi al pensiero dominante.
Ma sono analisi che magari si possono fare in altri momenti: oggi per me è il tempo un po’ agrodolce dei ricordi.
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