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La fantasy dopo George R.R. Martin

The Red Knight (Miles Cameron, Gollancz 2013)

The red knight Miles Cameron.jpgSto leggendo diversi libri di fantasy, in questo periodo, e tutti mi suggeriscono l’idea di essere parte di una evoluzione del genere “post-martiniano”: come se il vecchio George fosse un riferimento imprescindibile, sì, ma anche un incidente di percorso che va messo da parte per proseguire verso altre direzioni, preferendo ricollegarsi ad altri autori ancora precedenti e ad altre tradizioni narrative.

Questo The Red Knight, che ho appena finito, è un buon esempio. Non solo l’ambientazione – un medioevo piuttosto avanzato, diciamo almeno circa il nostro 1300 – è molto simile a quella delle Cronache del ghiaccio e del fuoco, non solo ricompaiono alcune tematiche (l’enfasi sulla vita militare, la cavalleria, i mercenari, la vita delle corti) ma alcuni elementi sono proprio comuni: c’è un muro che separa le terre civilizzate da quelle selvagge (nella versione inglese chiamate The Wild), c’è una Regina che si candida di diritto al titolo di campionessa mondiale delle gatte morte, un Re più interessato a fare l’amore con la propria dama e a dimostrarsi il più forte sul campo d’allenamento che a governare, e così via. Non ci sono eroi solari o figure in bianco e nero ma solo chiaroscuri (o direttamente dei bastardi, però simpatici) e naturalmente c’è un sacco di sangue e brutalità, raccontati senza infingimenti, e un sacco di sesso, anche se più annunciato che vissuto; la soldataglia ruba e stupra, secondo lo stile realistico – o finto-realistico, secondo me – che è tipico attualmente, anche se (quasi sempre) fuori visuale.

E per di più si adotta lo stile narrativo a punti di vista multipli, con una folla di coprotagonisti e comprimari, a ciascuno dei quali è dedicato un capitolo o una sezione di un capitolo. E non c’è bisogno di dire che muore un sacco di gente, anche fra i protagonisti o quasi.

Eppure c’è molto più Moorcock, Gemmell, Tolkien e Steven Erickson (questi ultimi due citati esplicitamente nella postfazione) in The Red Knight di quanto ci sia Martin ed è questa la chiave di lettura che mi porto via dalla lettura di questo romanzo d’esordio e della quale vorrei discutere in questa recensione.

Red Knight sito.jpgL’elemento più interessante, e dal quale partirei, è l’ambientazione. Siamo esplicitamente nella nostra Terra, o perlomeno in una ucronia piuttosto ravvicinata: la popolazione è cristiana, si vive in un mondo in cui gli Antichi – che sono i greci e i romani – hanno espresso un livello di civiltà ora perduta (si studiano gli insegnamenti di Aristotele e degli altri grandi filosofi), ci sono cavalieri stranieri che vengono dalle Gallie e si commercia con un Impero che governa le terre di Morea.

In questo contesto facilmente riconoscibile dal lettore si inseriscono con abilità una serie di riferimenti fantastici, pescando però in un immaginario coerente con quello del Medioevo europeo: quindi per esempio Ermete Trimegisto è un santo della Chiesa, protettore dei maghi, e si esercita la magia con una dispensa papale o vescovile. Ci saranno mille autori che hanno scritto ucronie così, ma a me il procedimento ha ricordato in particolare un’opera minore di Moorcock, Gloriana, che modificava la realtà dell’Inghilterra elisabettiana introducendovi tutti gli elementi fantastici di The faerie queene di Spencer, che è una metafora della stessa Elisabetta I; allo stesso modo il mondo di Cameron è il nostro Medioevo come sarebbe stato se alcune delle cose che la gente dell’epoca credeva fossero state vere. Questa adozione del punto di vista medievale aiuta anche rispetto al fatto che la geografia, al contrario, è inventata di sana pianta: dalla presunta Inghilterra in cui si svolge la trama, per esempio, si va in Morea a piedi; la cosa non stride perché il punto di vista del narratore è identico a quello dei personaggi, e un contadino medio dello Yorkshire probabilmente non lo sapeva, nel Medioevo, se per andare a Costantinopoli si prendeva la nave oppure no (probabilmente lo sapeva, ma ci siamo spiegati, spero).

L’elemento più caratterizzante è il citato Wild, la cui descrizione riprende tematiche ben note nella fantasy almeno da Tolkien in poi. Si tratta del dominio di tutto ciò che non è umano, di ciò che l’uomo non ha domato, degli esseri fantastici: laddove l’uomo coltiva il Wild muore, laddove vi è la foresta e le terre non domate non valgono le regole della civiltà ma la legge del sangue e della zanna, cioè sostanzialmente quella del più forte. Nei due domini anche le regole della magia sono differenti: i maghi traggono il proprio potere dal sole, nel Wild dalla forza primigenia della natura.

Cameron The Red Knight alternate coverIn questo senso il muro di separazione non è una struttura fantastica ma il cui senso pratico è incomprensibile, come la Barriera, ma un ben preciso confine che viene mosso con l’avanzare delle terre coltivate, anche a costo di mezzi brutali come il mettere fuoco alla foresta per fare spazio ai campi (una contesa per le terre che in qualche modo mi ha ricordato il vecchio ciclo del Principe rapito di Paul Edwin Zimmer).

Chi ha un po’ di conoscenza della storia medievale apprezzerà la trasposizione in chiave fantastica della testarda lotta dei contadini europei per rendere sicure da disastri, inondazioni e bestie feroci le loro terre e farne un mezzo di sussistenza e di ricchezza; questo riferimento storico a me ha fatto apprezzare di più il tema tipicamente tolkieniano dell’estinzione della magia – perché con l’arretrare del Wild le creature fantastiche escono definitivamente dalla vita degli uomini e anche dall’esistenza – mostrandomi come il Professore avesse preso l’idea non solo dalle tradizioni letterarie nordeuropee (tutti gli eroi e le età dell’oro devono passare) ma anche da una serie di riferimenti storici paralleli.

Ho parlato di estinzione del Wild. Le cose non sono così semplici, perché le terre selvagge brulicano di vita che non è disposta a farsi scacciare così facilmente, tanto più che ci sono dei veri Poteri fra loro, e quindi siamo in un mondo in cui una semplice bonifica, o il taglio di un bosco, può scatenare una guerra. O almeno una faida di confine.

C’è qui una opportunità di mercato per un genere ben preciso di mercenari, che si specializzano nell’eliminare viverne, orsi parlanti o altre creature del Wild che mettano a rischio la vita delle comunità umane: la compagnia del Cavaliere Rosso del titolo è una di queste bande e l’inizio della storia la pone a difesa di una abbazia di suore indifese (seeee) e di una fiera agricola che hanno dei guai sovrannaturali. Da qui in poi (cerco di non fare spoiler) le cose prendono una brutta piega finché la lotta per il controllo dell’abbazia diventa la battaglia campale fra umanità e Wild di questa generazione (Gemmell, a cui piacevano gli assedi, avrebbe amato parecchio questo libro).

REDKNIGHTLa molteplicità dei punti di vista permette a Cameron di tratteggiare in maniera interessante non solo i vari componenti della compagnia mercenaria, della corte reale e delle altre realtà umane e civili, ma anche tutti i vari esponenti del Wild: non solo ci regala così uno dei maghi pazzi migliori che abbia mai visto, ma anche una versione interessante degli elfi e un magnifico milieu degli umani selvaggi che vivono oltre il confine – con un  difetto che però dirò dopo. Il resto degli esseri fantastici sono abbastanza standard anche se le particolarità di alcuni – i boglin più simili alle termiti che ai goblin – sembrano destinarli a un ruolo nel seguito della pentalogia.

Mi sono dilungato nella citazione di una serie di altri autori fantasy diversi da Martin non solo per fare il secchione saputello ma anche per dire che alla fine è appunto piuttosto a questi che Cameron si rifà: per esempio è vero che tanti personaggi muoiono – non è un grande spoiler questo – ma Cameron si dimostra abbastanza restio a uccidere quelli fondamentali; è vero che ci sono tanti punti di vista, ma la pentalogia annunciata sembra soprattutto la storia di un eroe – il Cavaliere Rosso, appunto – e del compiersi del suo destino; il fantastico, soprattutto, non è una remota presenza di discutibile consistenza aldilà della Barriera ma una realtà vitale e brulicante appena fuori dell’orto di casa. A me, devo dire, questo approccio “tradizionalista” piace.

Miles CameronCameron è anche un amante delle rievocazioni storiche dal vivo (la foto qui a fianco è presa dal suo sito). La competenza si vede nella minuta descrizione di armi e armature e nella costruzione degli scontri, che sono effettivamente molto credibili e avvincenti. È vero anche che tutta questa minuzia e l’enfasi sulle battaglie e gli assedi (ho già detto che a Gemmell questo libro sarebbe piaciuto un sacco?) protratta per oltre seicento pagine può stancare: il continuo succedersi di rovesci e colpi di scena, il lento cedere terreno degli assediati facendo pagare agli avversari ogni centimetro di terreno conquistato, la lunga sequenza in cui un gruppo di guerrieri delle colline (sostanzialmente: vichinghi) si oppongono nel muro di scudi a uno stuolo di uomini selvaggi d’oltre il Muro per me è servito a tenere alta l’attenzione e invogliarmi a voltare pagina, ma può non incontrare i gusti di tutti: in questo senso The Red Knight è un fantasy molto maschile, e anche in questo si va a riagganciare a una tradizione del genere più verso gli anni ’80 che successiva, anche se temperata dalla presenza dell’inevitabile sottotrama sentimentale e dalla presenza di alcuni buoni personaggi femminili.

Con questo ho anche un po’ iniziato a trattare il tema dei difetti del libro, perché ce ne sono. Prima di tutto nella mia edizione ci sono un buon numero di refusi, cosa sorprendente perché l’editore è una grande casa internazionale; non è in sé un difetto del romanzo, ma un po’ mi ha fatto interrogare se non sia mancata un’ultima revisione nella quale, per esempio, si sarebbero potute tagliare senza danni un centinaio di pagine, rendendo il libro più asciutto ed eliminando delle lungaggini. Forse meno di cento pagine: nel mio conto comprendo il fatto che secondo me tutto il capitolo finale un tempo sarebbe stato utilizzato come prologo del romanzo successivo, non messo a forza qui per catturare l’interesse del lettore, anche se è vero che spiega alcuni elementi rimasti inespressi e dice una parola interessante nel dibattito fra Tolkien («è meglio non parlare con i draghi») e Ursula K. LeGuin («se uno parla coi draghi, quelli non se lo mangiano»). Sarà il seguito della pentalogia, immagino, a decidere chi ha ragione.

D’altra parte il libro ha una battaglia conclusiva piuttosto confusa e con alcuni passaggi piuttosto contraddittori. Non dal punto di vista della logica militare, ma piuttosto da quello della logica fantastica. O meglio…

betrayalOltre che un rievocatore storico, Cameron è anche un giocatore di ruolo, e un po’ si sente. Per i primi tre quarti del libro è un punto di forza: un elemento di esperienza dell’autore che gli dà, insieme con i suoi studi storici e le sue competenze di rievocatore, maggiori strumenti di gestione del materiale narrativo: la presenza appena suggerita di classi di personaggi o la cura per la spiegazione del perché uno può fare così o cosà aiuta a evitare inciampi o a mettere in difficoltà la comprensione del lettore. Il primo stridio si ha quando di fronte al mago Thorn sfilano le truppe del Wild e un po’ sembra il manuale dei mostri di D&D, con i boglin e gli irks di tipo uno, più deboli, quelli di tipo due più forti e i cattivoni di tipo tre con un bonus al danno e alla classe d’armatura. Un po’ stride, così come nella battaglia finale emerge con troppa chiarezza l’infrastruttura del sistema magico, con i maghi che accumulano stanchezza e miracolosamente si ricaricano per continuare a combattere una volta esauriti i punti magia.

Nella categoria “giochi di ruolo” va inserita anche l’impressione di una campagna giocata dall’autore i cui eventi, collocati nel passato rispetto al presente del libro, fanno da background di una parte dei protagonisti. Non è un difetto, anzi dà profondità al libro e a alcuni personaggi, ma anche qui stride nel momento in cui serve a rivelare la vera identità di un personaggio chiave – non dico chi sia – quando tutti i personaggi del libro dicono: «Ah-ah, allora era lei!» e al lettore, che nella vecchia campagna non ha giocato, la cosa non fa tutta questa impressione. E un po’ ci va anche la caduta di stile di chiamare con nomi irochesi gli umani che vivono nel Wild: le loro vicende sono una bella parte del romanzo, ma i nomi riconoscibilissimi – e assolutamente non medievali – causano una caduta della sospensione di incredulità per una cosa del tutto non necessaria. Lo so che Cameron ha anche la passione per la vita dei nativi americani ma qui vale il criterio di Steven Brust: puoi mettere nei tuoi libri tutto quel che trovi figo, ma lo devi far funzionare. Qui funzionano benissimo… tranne che per il nome.

Avrei perdonato meglio i difetti del libro se fosse stato, come annunciato, un romanzo d’esordio. In realtà è poi emerso che Miles Cameron è il nome d’arte di Christian Cameron, un autore di romanzi storici che ha usato lo pseudonimo per distinguere la nuova produzione fantasy da ciò che aveva già pubblicato, e un po’ le mie perplessità sono aumentate: anche così, comunque, comprerò di sicuro il secondo libro della serie, The fell sword, e mi auguro che The Red Knight venga tradotto in italiano.

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