Blu come il mare viola di Omero (o come un certo abito…)
Va bene, credo che chiunque la settimana scorsa avesse un accesso alla rete sia stato coinvolto nella querelle sul colore del famoso abito.
Questo articolo non parlerà di questo.
Il fatto è che a margine di tutta la questione mi è capitato di leggere un articolo interessante su Business Insider che riguarda il modo con cui vediamo i colori e come li vedevano nell’antichità, un articolo curioso e brillante che ho voluto tradurre (il titolo originale era: No one could see the color blue until modern times).
L’articolo fa riferimento alla trasmissione radiofonica Radiolab: pur trattandosi in entrambi i casi di (buona) divulgazione scientifica – e infatti l’ho tradotto – qualche cautela va adottata: l’incrocio fra biologia e psicologia cognitiva è piuttosto scivoloso e i rischi di partire per la tangente non sono pochi. E validare o smentire la teoria esposta richiede in parte una competenza filologica che io non possiedo.
Però è davvero un bell’articolo, e merita.
Colgo anche l’occasione per un’altra segnalazione. Come vedrete l’articolo prende spunto – oltre che dal famoso abito – dall’espressione di Omero οἴνοπα πόντον, che in italiano è resa come “mare color del vino” e in inglese con l’espressione, comune a ogni lettore colto, the wine-dark sea. Non lo sapevo ma l’espressione è così frequentemente citata – probabilmente come in italiano certi versi di Dante – che è da tempo che l’idea che il mare sia colore del vino fa problema ai lettori più attenti, generando una serie di dibattiti piuttosto complessi e reiterati nel tempo. Seguendo queste tracce ho scoperto il sito meraviglioso Hour25 del centro di studi sulla Grecia classica dell’Università di Harvard (con il progetto gemello HeroesX, su cosa volesse dire essere un eroe dell’antica Grecia). Fra le mille cose di Hour25 c’è un intero gruppo di studio sul mare color del vino, con una serie di articoli davvero imperdibili. Se fra i miei lettori ci sono insegnanti di lettere o meglio ancora di greco non possono perdere l’occasione di darci un’occhiata (oh, che meravigliosi progetti didattici si potrebbero immaginare…).
Un’ultima nota: le immagini, per motivi che capirete man mano, sono quelle dell’articolo originale, tranne le prime due, che sono mie.
Nessuno poteva vedere il blu fino ai giorni nostri
di Kevin Loria
Questo non è un altro articolo su quel vestito, o almeno, non realmente.
Riguarda invece il modo con il quale gli esseri umani vedono il mondo e il fatto che finché non abbiamo il modo di descrivere qualcosa, anche qualcosa di così basilare come un colore, possiamo perfino non accorgerci della sua presenza.
Fino a tempi relativamente recenti della storia umana il “blu” non esisteva, non nel modo con il quale lo pensiamo.
Come viene raccontato nel delizioso episodio Colori di Radiolab le lingue antiche non avevano una parola per il blu – non il greco, non il cinese, non il giapponese e nemmeno l’ebreo. E senza una parola per il colore, ci sono prove a sostegno della teoria che possano non averlo visto affatto.
Come ci siamo accorti che il blu mancava
È noto che nell’Odissea Omero descrive il «mare colore del vino». Ma perché colore del vino e non blu scuro o verde?
Nel 1858 uno studioso di nome William Gladstone, che sarebbe poi diventato Primo Ministro della Gran Bretagna, si accorse che questa non era la sola curiosa descrizione di un colore. Sebbene il poeta impieghi pagine e pagine in intricate descrizioni di vesti, armature, armi, visi, animali e altro, i suoi riferimenti ai colori sono strani. Il ferro e le pecore sono viola; il miele è verde.
Così Gladstone decise di contare i riferimenti ai colori nel libro. E mentre il nero è menzionato duecento volte e il bianco circa cento, gli altri colori sono rari. Il rosso è citato meno di quindici volte e il giallo e il verde meno di dieci. Gladstone iniziò a verificare altri testi greci antichi e si accorse dello stesso fatto – non c’era mai niente descritto come “blu”. La parola non esisteva nemmeno.
Sembrava che i Greci vivessero in un mondo scuro e fangoso, privo di colori, principalmente a tinte bianche e nere e metalliche, con l’occasionale lampo di rosso o giallo.
Gladostone pensò che questo fosse forse qualcosa di riferibile unicamente ai Greci, ma un filologo di nome Lazarus Geiger proseguì il suo lavoro e si accorse che questo fatto attraversava le culture.
Studiò le saghe islandesi, il Corano, le antiche storie cinesi e una versione della Bibbia in ebraico antico. A proposito degli inni Vedici scrisse: «Questi inni, di più di diecimila versi, pullulano di descrizioni celesti. Quasi nessun altro argomento è evocato con maggiore frequenza. Il sole e il gioco rosseggiante dell’alba, il giorno e la notte, nuvole e fulmini, l’aria e l’etere, tutto ciò si dispiega davanti a noi, ancora e ancora… ma c’è qualcosa che nessuno potrebbe imparare da questi antichi canti… e cioè che il cielo è blu».
Non c’era blu, non nel senso con cui noi conosciamo il colore – non veniva distinto dal verde o da sfumature più scure.
Geiger si mise a cercare quando il “blu” avesse cominciato ad apparire nelle varie lingue e trovò uno strano schema ricorrente su tutto il mondo.
Ogni lingua aveva dapprima una parola per il bianco e il nero, o per il chiaro e lo scuro. La parola successiva a giungere in esistenza per indicare un colore – in ogni linguaggio studiato in giro per il mondo – era il rosso, il colore del sangue e del vino.
Dopo il rosso, storicamente, compare il giallo e, in seguito, il verde (sebbene in un paio di lingue il giallo e il verde si scambino di posto). L’ultimo di questi colori a comparire in ogni lingua è il blu.
La sola cultura antica a sviluppare una parola per il blu fu quella degli Egiziani – e come capita, essi erano anche la sola cultura che era in grado di produrre una tintura blu.
Se vi fermate a riflettere, il blu non appare spesso in natura – non ci sono quasi animali blu, gli occhi azzurri sono rari e i fiori blu sono quasi sempre creazioni artificiali. C’è, naturalmente, il cielo, ma è davvero blu? Come abbiamo visto nel lavoro di Geiger, anche scritti che contemplano continuamente il cielo non necessariamente lo vedono come “blu”.
E infatti uno studioso con il quale Radiolab si è messa in contatto – Guy Deutscher, l’autore di La lingua colora il mondo. Come le parole deformano la realtà – ha condotto un esperimento estemporaneo al proposito. In teoria una delle prime domande dei bambini è: «Perché il cielo è blu?». Così ha educato sua figlia facendo attenzione a non descriverle mai il colore del cielo, e poi un giorno le ha domandato, mentre guardava in alto, che colore vedesse.
Alma, la figlia di Deutscher, non ne aveva idea. Il cielo era privo di colore. Alla fine decise che era bianco, e in seguito, che dopotutto era blu. Quindi il blu non è stato la prima risposta che ha dato o verso cui si è orientata, sebbene sia quel che ha scelto alla fine.
E quindi prima di avere a disposizione una parola adatta, le persone non vedevano naturalmente il blu?
Questa è la parte che diventa un po’ complicata, perché noi non sappiamo esattamente che cosa passasse per la testa di Omero quando descriveva il mare color del vino o la pecora viola – ma sappiamo che gli antichi Greci e altri nel mondo antico avevano le nostre stesse caratteristiche biologiche e perciò la stessa capacità di vedere i colori.
Ma si può realmente vedere qualcosa se non si ha una parola per indicarla?
Un ricercatore di nome Jules Davidoff si è recato in Namibia per indagare sull’argomento, e lì ha condotto un esperimento con la tribù degli Himba, che parla una lingua in cui non c’è parola che indichi il blu e non si differenzia fra blu e verde.
Quando agli Himba venne mostrato un circolo composto da undici quadrati verdi e uno blu non sono stati in grado di indicare quale fosse differente dagli altri – oppure quelli che riuscivano a vedere una differenza impiegavano molto più tempo e e facevano più errori di quanto sia comprensibile per noi, che possiamo vedere con evidenza il quadrato blu.
Ma gli Himba hanno più parole per indicare varie sfumature di verde di quante ne esistano in inglese [e presumibilmente in italiano, NdRufus].
Quando posti davanti a un cerchio di quadretti verdi di cui uno solo in una tinta lievemente differente, essi riuscivano immediatamente a indicare quello speciale. Voi ci riuscite?
Per la maggior parte di noi, è più difficile.
Il quadratino speciale era questo:
Davidoff sostiene che senza una parola per il colore, senza un modo per identificarlo in maniera differente, è molto più difficile per noi notare ciò che è unico in esso – anche se i nostri occhi vedono i quadretti allo stesso modo.
E quindi prima che il blu diventasse un concetto comune, forse gli umani lo vedevano. Ma sembra che non sapessero di vederlo.
Se vedete qualcosa ma contemporaneamente non lo vedete, esiste? I colori sono giunti all’esistenza nell’arco degli anni? Tecnicamente no, ma la nostra abilità di riconoscerli può averlo fatto…
Per altre informazioni sui colori, comprese notizie su come delle donne con la supervista possono vedere colori nel cielo dei quali nessuno si è mai immaginato l’esistenza, ascoltate l’intero episodio di Radiolab.
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