Purpuzza e giochi di ruolo nelle piazze di Gavoi
Come vi raccontavo la scorsa settimana tre Fabbricastorie su quattro, con l’aggiunta di Maria Bonaria, sono stati alla XII edizione di Isola delle storie a Gavoi.
Nessuno di noi era mai stato al festival, anche se io l’avevo sfiorato più volte: ma per tutti noi il periodo in cui si tiene la manifestazione è sfortunato dal punto di vista lavorativo o familiare e quindi insomma non ci era mai capitato.
Dopo esserci stati rimpiango di non essermi organizzato meglio come visitatore anche negli anni scorsi: a parte l’interesse per la presenza di mille personalità c’è un clima, un ambiente, un senso dell’accoglienza che ci ha molto colpito e che ci ha fatto stare benissimo.
Punti di forza
In parte il festival beneficia certamente del fatto che il centro è piccolo e si vive per forza continuamente tutti quanti fianco a fianco, autori, staff e visitatori, allegramente mischiati in un clima un po’ da villaggio vacanze e un po’ da convivenza in un campus universitario (a me ricordava un pochino il vecchio Festival del gioco di Gradara). A questa simpatica coesistenza si aggiunge il fatto che si percepisce che attorno al festival c’è quasi un intero paese che lo sostiene, se lo coccola, gli fa intelligentemente da cornice, ed è un altro punto di forza. E infine, mi veniva da pensare, non bisogna essere ingenui: oltre tutte le condizioni ambientali e il lavoro generoso di volontari, amici e sostenitori perché tutto funzioni così bene si deve supporre l’esistenza di un pensiero progettuale, una filosofia portante e, vivaddio, una imprenditorialità e una professionalità che in Sardegna non è comune e meriterebbe di essere approfondita: non so se qualcuno l’ha mai preso come case study, il festival, ma a occhio e croce meriterebbe di essere indagato – stile di progettazione, meccaniche di rete, dinamiche decisionali, scelte di governance e altre cose di questo genere – e sarei davvero molto curioso di vedere i risultati dello studio. Poi, naturalmente, puoi avere tutta la professionalità che vuoi ma se sei gentile dentro, in maniera naturale (con noi la segreteria e tutti sono stati sempre carinissimi, e insomma noi non siamo certo Carofiglio, quindi non c’era affettazione), la cortesia e l’accoglienza hanno un sapore in più, e così torniamo in loop al punto di partenza.
Non è detto che la ricetta del successo sia replicabile, anzi probabilmente no, perché dipenderà da mille altri imponderabili che non possono essere catalogati, però secondo me sarebbe lo stesso uno studio di best practice interessante.
Noi eravamo lì per giocare e siccome è stata un’esperienza interessante e per molti aspetti anche formativa questo articolo vorrebbe concentrarsi sugli aspetti ludici: prima, però, due o tre note di contorno.
In giro col badge
Durante il festival Gavoi è piena di gente che gira con un cartellino al collo. C’è il rosso dei volontari e dello staff, il verde degli autori, l’azzurro degli ospiti e il giallo della stampa. I Fabricastorie tecnicamente erano “autori” (una condizione inaspettata che ci ha molto divertito), tranne Maria Bonaria che in quanto moglie con suo dispetto era solo ospite.
Girare con il badge è stato ogni tanto un’esperienza un po’ straniante: Tino per esempio giura e spergiura che a un certo punto è entrato in un bar senza cartellino e ha pagato un tot la bottiglietta. Più tardi è rientrato con il badge verde e la seconda bottiglietta gli è costata notevolmente meno. Se anche fosse sarebbero riguardi in fondo più che comprensibili – un segnale “da Trentino”, mi ha detto un amico, intendendo il top dell’offerta turistica – ma che ugualmente ti stupiscono: «Un autore? Chi, io?».
Maria Bonaria, invece, giura che quando si è tolta il badge nessuno fra i numerosissimi fotografi che giravano per il paese l’ha più presa in considerazione: senza il badge non esisti. E quindi c’è continuamente questa ricerca sottotraccia: anche tu mentre cammini spii i badge controllando istintivamente il colore e guardi con curiosità gli altri autori, quelli veri, cercando di riconoscere l’uno o l’altro.
Poi più di una volta mi è capitato che quelli, visto che li guardavo e considerato che in fondo c’ho una faccia comune, la barba, gli occhiali, facilmente può sembrarti di avermi già visto e per di più avevo il cartellino e quindi ero un autore anch’io allora visto che io li guardavo nell’incertezza mi salutavano calorosamente: «Ciao!», immagino pensando di avermi incrociato da qualche altra parte. È anche vero che al terzo giorno le facce ti si confondono e non sai più se quello che vedi passare l’hai visto in televisione, era al bar il giorno prima o ci hai fatto le scuole insieme a Cagliari molti anni fa. Così per non sbagliare saluti tutti, e tutti si salutano.
Tranne Paolo Piras di Bravi e camboni che credevo mi avesse salutato a sproposito e invece si è ricordato che più di vent’anni fa ci siamo incrociati a La Porta d’Argento (chapeau per la memoria). Per sdebitarmi ho comprato il suo libro, che avevo colpevolmente ignorato: vedi la potenza di un saluto gentile.
Guccini
Tra gli autori veri del festival c’era Guccini, orpo. Con Loriano Macchiavelli, un altro mito, scusate se è poco.
Mentre li incrociavo a Santa Rughe col buono pasto in mano mi dicevo che quando mia sorella stava a Prato siamo andati più volte a pranzo a Pavana al ristorante di Zummo fantasticando di incontrare per caso Guccini e magari offrirgli un bicchiere e dirgli quanto lo stimiamo da sempre. E invece inopinatamente lo incontri davvero al ristorante ma dall’altra parte del Tirreno e quello poveretto sta mangiando in santa pace, disturbarlo ti sembra brutto e tutto d’un tratto l’idea di offrirgli un bicchiere e farci due chiacchiere acquista tutto un altro sapore: una cretinata, diciamo, anche perché il festival è informale proprio perché gli autori possono fare vita normale senza essere assillati ogni minuto da uno che vuole spiegargli il senso della vita, l’universo e tutto quanto.
E d’altra parte tre Fabbricastorie possono incontrare un loro idolo come Guccini e fare completamente finta di niente? È stato Andrea Salidu, mentre noi pavidamente ci coprivamo dietro di lui, a prendere in mano la situazione. «Scusate, non vogliamo interrompervi: noi domani avremo un laboratorio e quindi non possiamo venire ad ascoltarvi, ma ci tenevamo lo stesso a salutarvi».
Bravissimo, e Guccini gli ha detto: «Grazie!». Quindi oggi noi possiamo dire che un giorno Guccini ci ha ringraziato, più o meno come Jack Aubrey, nei romanzi di O’Brian, racconta che un giorno Lord Nelson gli aveva rivolto una richiesta personale («Mi passa il sale, signore?»). O come nella famosa storiella di Paolo Rossi, che un giorno disse di no a Berlusconi (erano in un qualche corridoio di Mediaset, e quello gli chiese: «Scusi, sa dov’è la lavanderia?», «No!»).
In ogni caso abbiamo avuto torto a tornare a Cagliari il sabato e a non trattenerci per la festa finale: perché lì, come si vede, magari lo spazio per due battute c’era, e in ogni caso c’era anche molto altro, un arrosto alla sarda…
Culicchia ‘cipicchia
Non solo non abbiamo sentito la conferenza di Guccini e Macchiavelli, ma praticamente non abbiamo assistito a nessun altro incontro, escluso un reading divertentissimo di Giuseppe Culicchia con Federica Maffucci (una versione di un loro spettacolo precedente, credo). Ci siamo fatti un bel po’ di sane risate e Culicchia è stato una rivelazione che mi porterà sicuramente a recuperare questo scrittore che, lo confesso, non conoscevo (lo so che la mia ignoranza talvolta vi sconcerta).
E la purpuzza?
Ecco, quella non l’abbiamo mangiata: fra inviti a pranzo in ristorante che avevo promesso a Maria Bonaria, buoni pasto e disponibilità della mensa non ci siamo mai fermati alle decine di posti di ristoro che offrivano ottimi panini con purpuzza (e un bicchiere di vino, ça va sans dire). Non perché la purpuzza non mi piaccia, anzi: semplicemente non c’è stata occasione.
Forse proprio perché un po’ mi è rimasta la voglia riflettevo, passeggiando, su come un piatto tutto sommato minore e fino a non molti anni fa sostanzialmente sconosciuto si sia trasformato, negli anni, a emblema delle cortes apertas e di tutte le manifestazioni locali del genere, con segni di diffusione ormai anche fuori della sua zona originale. Un meccanismo interessante, mi pare, e se nno fosse un piatto più invernale e legato quindi al turismo locale mi aspetterei fra un po’ di vedere un effetto purpuzza conquistare financo la Costa Smeralda (meglio dell’effetto Ichnusa, comunque).
Ah, se non sapete cosa sia la purpuzza ho trovato in rete una ricetta piuttosto semplice per farvela da voi e poterla assaggiare.
Cose ludiche
Quello che abbiamo fatto
Il progetto con cui siamo andati a Gavoi era quello di far giocare a gruppi di bambini fra gli otto e i dieci anni una nostra avventura di gioco di ruolo che è nota col nome di lavorazione di Baby zapping e sfrutta l’immaginario dei bambini legato ai cartoni animati e ai telefilm che guardano più frequentemente (Zapping è una vecchia avventura di Andrea Assorgia e Baby zapping ne è l’adattamento per bambini curato da Tino Dessì).
Durante gli ultimi beta test, però, sono emerse alcune perplessità su Baby zapping, legate al fatto che andavamo a giocare con bambini sconosciuti (e se non hanno mai visto Frozen? Maddai… E se però non l’hanno mai visto davvero??) e quindi abbiamo deciso di ripiegare su Hero Kids, un regolamento di gioco statunitense diretto specificamente ai bambini di quella fascia d’età e molto maneggevole. In più io, senza dirlo agli altri Fabbricastorie, una mia versione personale e piuttosto eretica di Baby Zapping me la sono messa in valigia (salvo dimenticarmene completamente appena arrivato, ehm). E poi ci siamo portati dietro due tavole da curling per avere qualcosa da proporre durante eventuali tempi morti, per esempio mentre si aspetta che si radunino abbastanza giocatori per formare un tavolo.
La realtà peraltro è stata che nei due giorni di lavoro la situazione si è rivelata molto variabile: nel primo laboratorio ero da solo e avevo una decina di ragazzi di un’età che andava dagli otto ai sedici anni. Per loro ho aggiustato ad hoc una avventura di Hero Kids per gestire non tanto il numero quanto la differenza d’età e nell’ultima mezz’ora gli ho proposto un pezzetto del nostro seminario Mondi che funzionano – Hands on, con buoni risultati.
La presenza di molti adolescenti spingeva a rivalutare alcune cose del nostro progetto e così quando Andrea e Tino mi hanno raggiunto ci siamo convinti che fosse necessario approntare qualcosa di specificamente rivolto a loro: sotto il glicine della casa di Orani abbiamo abbozzato un gioco/avventura di gioco di ruolo a tema horror, che per il momento ha il titolo provvisorio Supernatural e che penso svilupperemo anche in futuro.
Il giorno dopo ho condotto con l’appoggio di Tino un’avventura regolare di Hero Kids per cinque bambini fra i sette e i dieci anni, mentre Andrea si è preso un paio di ragazzine più grandi che avevano già giocato il giorno prima e gli ha proposto Supernatural. Al secondo turno il numero degli iscritti è aumentano fino a una quindicina e forse oltre, però l’età era piuttosto omogenea (scuola media) e quindi gli abbiamo proposto Mondi che funzionano per scioglierli e abbiamo poi concluso la sessione con Supernatural.
Moderata soddisfazione e programmi futuri
Tutto sommato mi sembra (non toccherebbe a me dirlo) che siamo stati bravini e che abbiamo fatto fronte per bene a tutte i vari imprevisti – in particolare la presenza di giocatori di età molto diverse – e che tutti i ragazzi si siano divertiti. Il 2015 per i Fabbricastorie è un anno di test successivi riguardo alla qualità dei nostri materiali, delle nostre idee e pure sulle nostre qualità personali. Anche il test di Gavoi è positivo e quindi sinora… tutto bene, il che ci spinge a pensare che forse dovremmo far quagliare un po’ meglio tutte queste cose.
Ve lo anticipo ma non ditelo troppo in giro: stiamo pensando a un nuovo libro, probabilmente nel 2016, e a un altro progetto sempre per il 2016 che, scaramanticamente, per il momento ha il nome in codice Sole. Discover Cagliari è sulla rampa di lancio e stiamo preparando Trame che funzionano, Compagnie che funzionano e forse Horror che funzionano. Ora se solo si riuscisse a trovare i fondi per il progetto Mangiastorie sarei un uomo felice.
Si può giocare coi bambini
La volgata comune fra i giocatori di ruolo è che si tratti di giochi non adatti al di sotto di una età indefinita, grosso modo collocata intorno ai tredici anni. In realtà poi sulle riviste specializzate si legge con una certa frequenza di papà che organizzano partite per i figli e i loro amichetti e altre cose del genere (ricordo anche una lettera su Dragon in cui si raccontava di una campagna in cui man mano erano stati incorporati i figli dei giocatori). Si tratta sempre di resoconti in cui si sottolinea l’eccezionalità di queste occasioni, ma proprio il fatto che capiti spesso di sentirle raccontare dovrebbe mettere in sospetto: forse sono invece cose piuttosto normali.
Rispetto a questo il nostro esperimento di Gavoi va nella direzione di dimostrare che si può giocare di ruolo con bambini almeno fin dagli otto anni (i settenni che ci sono capitati, anche nei playtest precedenti, hanno sempre fatto un po’ di fatica). Certo i bambini non possono fare i conduttori di gioco (non è dimostrato, ma è probabile) e certo le partite con loro assumono delle caratteristiche particolari
Sto spiegando il gioco. Sono al punto nel quale spiego che si usano i dadi per risolvere le situazioni nelle quali un giocatore incontra una difficoltà o un’opposizione e faccio un esempio.
«Per esempio, Giovanni», sette anni, «tu sei un cavaliere e il cattivo Cavaliere Nero vuole combatterti. Allora tu prendi la tua arma… già, che armi usi per combattere?»
«Una bomba!!».
«Ah-ah, no, non ci sono le bombe, non le hanno ancora inventate. Scegli un’altra arma».
«La PISTOLA!».
«Ma noooo, non ci sono queste cose, è un mondo tipo Medioevo, spade, archi…».
E il piccolo saputello di dieci anni a fianco a me fa: «Nel Medioevo però c’erano i cannoni, l’ho visto sul canale di Focus…».
«Allora uso il cannone!!».
E fu così che il Cavaliere Nero si trovò di fronte una strana sorpresa!
Coi bambini la partita non può durare troppo perché si stancano, l’arbitro è un adulto e quindi il gioco ha un grado di libertà in meno e ci sono ogni tanto dei buchi neri cognitivi. Però senz’altro si può giocare, e con ottimi risultati.
Giocare coi bambini con Hero Kids
Come ho detto abbiamo deciso di utilizzare il regolamento di Hero Kids, pensato da Justin Halliday specificamente per far giocare i bambini. Tolta un po’ di patina volta a rassicurare genitori ed educatori (per esempio il paragrafo sui benefici del gioco nell’apprendimento della matematica) si tratta di uno strumento ludico intelligente e soprattutto molto maneggevole, con dinamiche di gioco semplici e facili da imparare e un numero di pagine limitato da leggere prima di poter giocare.
Il gioco si ispira evidentemente alle prime forme di Dungeons & Dragons (ooops, anche alle ultime, forse!) tanto da sembrare quasi un gioco da tavolo: mappe, miniature e molte illustrazioni.
Secondo me dal punto di vista del gioco coi bambini questa enfasi posta da Hero Kids sui combattimenti e la tattica non è particolarmente utile: per esempio io ho trovato più faticoso che utile disporre sulla mappa tutti i figurini che rappresentavano i personaggi e i vari mostri (anche perché con tanti giocatori spesso la mappa risultava molto affollata); invece è stato utilissimo tutto l’apparato grafico, illustrazioni, schede personali e le stesse mappe: non perché i bambini non abbiano la capacità di astrarre, ma perché sono immediatamente accattivanti. Del resto sul sito di Halliday vedo che le campagne di Hero Kids usano materiali come questi: chi non si sentirebbe immediatamente affascinato?
Per il resto trovo Hero Kids un po’ un ibrido, che non si capisce bene se è diretto ai bambini che lo dovrebbero giocare o ai genitori o animatori ludici. Ovviamente il caso è il secondo, ma il regolamento è scritto non solo per avere regole semplici, ma anche per essere semplice in generale, e sono due cose diverse: servirebbe molto più materiale di supporto e un lavoro più ampio su come impostare le partite e eventuali campagne, il che richiederebbe un bel manualone corposo. Invece è un regolamento scheletrico, come se dovesse andare in mano ai bambini stessi, e questo lo fa scivolare un po’ da semplice a semplicistico; le regole base, in ogni modo, sono più che adeguate ed efficaci e secondo me è un acquisto consigliato.
Giocare con i preadolescenti
Almeno un paio delle partite che abbiamo fatto hanno visto una notevole presenza di ragazzi e ragazze sopra i quattordici anni, e questa dovrebbe essere considerata la situazione più normale per i giochi di ruolo: tutti abbiamo iniziato più o meno durante la scuola superiore. In realtà oggi ho l’impressione che l’età media nelle associazioni sia notevolmente più alta, ma comunque non mi sembra di dover fare molte osservazioni sul modo di giocare degli adolescenti (qualcosa trovate più giù, comunque). Invece mi sembra interessante il gruppo di gioco che si è formato il sabato e che era composto quasi interamente di preadolescenti in età di scuola media. Il gruppo era molto inventivo e grintoso, ma il tema più interessante era che giocare con loro, rispetto a ragazzi di solo un paio d’anni di meno, è come entrare in un altro mondo (non una gran scoperta, forse, ma mi sembra opportuno segnalarla). I ragazzi mostravano un mix inimitabile di ingenuità e aggressività che potrebbe rendere le partite di giochi di ruolo con questa fascia di età delle esperienze davvero esaltanti. E l’esperienza positiva che abbiamo fatto con loro di creazione condivisa del mondo mi suggerisce che una via interessante per un laboratorio, per esempio a scuola o all’oratorio, potrebbe essere quella della creazione (multidisciplinare?) dell’ambiente di gioco.
Diciamolo in altri termini: ricordate quel che si racconta di Stevenson, che creò la mappa dell’isola del tesoro giocando col figliastro, e da lì venne fuori poi la trama del romanzo? È un’esperienza che da un punto di vista materiale si può fare anche coi bambini (cosa c’è qui? come chiamiamo questo monte? cosa aggiungiamo adesso? disegniamo qualcos’altro) ma che con dei preadolescenti può assumere tutto un altro peso e un’altra profondità e diventare la palestra sia per imprese manuali (pensate alla costruzione del diorama della foto qui sopra) che per imparare a costruire “pezzi” di narrazioni da inserire nel mondo comune. Coi ragazzi più grandi l’aspetto manuale assumerebbe un altro profilo (o ti piace trafficare e dipingere oppure no), a questo livello di età si può costruire fra lavoro manuale e invenzione ideale un mix probabilmente perfetto.
L’importanza del riscaldamento
Sia che fosse fatto con il nostro curling (una vera macchina da guerra) oppure con semplici esercizi di acclimatamento il fatto di non iniziare mai a giocare a freddo si è rivelato vincente. Sembrerà una banalità ma in altri casi è capitato che ce ne fossimo dimenticati con esiti non proprio ottimali, e proprio alcune dure lezioni del passato ci hanno portato stavolta a essere attenti a questa dimensione, e infatti ha funzionato tutto al meglio; lo segnalo per chi si trovasse a gestire occasioni di questo genere: poco tempo a spiegare i regolamenti, molto tempo a creare il clima, e sarete ripagati ampiamente.
Railroading e altre cose che non si dovrebbero (forse) fare
Giocare con bambini, preadolescenti o giocatori neofiti in partite dimostrative permette – anzi: impone – di gestire la narrazione e il gioco in modi che l’ortodossia considera scorretti.
Si chiama railroading (“imprigionare su rotaie”) l’azione per la quale l’arbitro conduce i giocatori lungo un percorso prefissato. Con i giocatori esperti, soprattutto se adulti, è molto irritante perché limita la loro libertà; con il tipo di giocatori con i quali ci siamo confrontati a Gavoi l’enfasi è sul meraviglioso, sull’avventura, sul vivere un’esperienza divertente e molto meno sull’approfondimento della dimensione psicologica del loro personaggio, quindi certe cose ci stanno.
«La grande caverna sotterranea è piena zeppa di grandi topi mannari. Sono troppi per voi: forse dovreste fuggire lungo la galleria che vedete alla vostra sinistra…».
«Attacchiamo!!».
«I topi vi saltano addosso e, forti del loro numero, vi catturano, vi conducono nella galleria alla vostra sinistra e vi chiudono dentro delle gabbie di ferro. Dovete cercare di fuggire».
E questo vale anche per il sacrificare la coerenza narrativa se si tratta di assecondare delle invenzioni dei giocatori: non credo che si possa affondare in quattro e quattr’otto un galeone usando una scure nella stiva, ma che importa? Queste sono situazioni di gioco nelle quali non è la coerenza il valore principale.
Lo stesso vale per le situazioni in cui la preparazione superiore dell’arbitro gli consente di porre una situazione per la quale sa in anticipo come reagiranno i bambini o ragazzi, con una specie di railroading indiretto. Per esempio quando spiegavo il gioco facevo sempre questo esempio: sceglievo una bambina o una ragazzina e gli dicevo:
«Allora, Anna, tu sei una principessa…».
Sorrisone automatico.
«… un giorno il re tuo padre viene e ti dice che purtroppo è costretto a farti sposare il malvagio Gobbo Nero, un cattivo e orribile principe del paese vicino. Allora la tua cameriera personale ti propone, per non sposare quel cattivo principe, di fuggire nel bosco. Cosa vuoi fare: sposare il principe o scappare nel bosco?».
Cento volte su cento la principessa scappa nel bosco, ovviamente. Tu puoi anche farti bello dicendole che vedi, la storia dipende dalle tue decisioni e da quel che vuoi fare, seeee, come no: fra voi due non c’è partita. Lo stesso vale per quelle situazioni in cui si fa presa sul senso di avventura dei bambini e dei ragazzi:
Mentre scappi nel bosco coi tuoi amici arrivi a una castello. Un castello tutto nero, con le sbarre alle finestre, i cornicioni e i merli a forma di drago con la bocca aperta a mostrare zanne appuntite e un grande cartello davanti al ponte levatoio con scritto: «Guai a chi entra». Cosa fate?
«ENTRIAMO!!!!»
che è esattamente quello che ti aspettavi.
Competenze narrative
Prima di giocare abbiamo sempre chiesto, come parte del riscaldamento e del meccanismo di conoscenza comune, che cosa leggessero i ragazzi, che TV e cinema guardassero e così via. Anche facendo la tara al ventaglio di età molto diverse presenti i risultati sono sempre stati per me sorprendenti: stando al nostro limitato campione nessuno legge fumetti o quasi; gli adolescenti non leggono nulla; i preadolescenti leggono una varietà di cose molto differenti fra loro, con una certa presenza di urban romantic (Twilight, Hunger Games) e guardano una quantità impressionante di TV spazzatura, soprattutto reality; soprattutto fra i ragazzi più grandi la fruizione consapevole di materiali narrativi è affidata quasi esclusivamente ai blockbuster cinematografici americani.
Parentesi: è stato per questo che quando il primo giorno ho usato la tecnica iniziale di Mondi che funzionano, che prevede di stilare un elenco di titoli di film o libri che poi si manipolano per creare altri titoli che diano spunto alla propria narrazione (un trucco che ci ha insegnato Beniamino Sidoti), mi sono trovato subito in difficoltà:
«Allora, ragazzi, adesso ciascuno dice il titolo del suo film, telefilm, romanzo o fumetto preferito, possibilmente di avventura, ok?»
«Inception». «The Avengers». «Hunger Games». «Iron Man»…
«Ehm, ok, scusate, facciamo così: il titolo deve essere almeno di due parole e possibilmente in italiano, d’accordo? E che ne dite se invece mettiamo “La ragazza di fuoco” e “L’uomo di ferro”? Possiamo fare così, che dite?».
Insomma, apparentemente i ragazzi avevano una dieta narrativa un po’ povera, a cui invece faceva riscontro una buona competenza narrativa, anche se magari soprattutto istintiva. Per esempio i bambini del sabato mattina, di fronte ai topi mannari che rapivano i loro concittadini per venderli ai mercanti di schiavi hanno deciso di farsi catturare per potersi infiltrare sulla nave e liberare i prigionieri (sono cose che funzionano solo nelle storie di avventura, ma era un’idea di buona qualità), i ragazzi del giorno prima di fronte al numero esorbitante di topi hanno cercato e ottenuto la singolar tenzone fra un campione degli avventurieri e il più forte dei topi, e molte altre cose del genere.
Su un altro piano non solo la storia inventata dal gruppo del venerdì era un ottimo horror (titolo deciso da loro: La casa del sorriso); il meccanismo era che ciascuno doveva aggiungere un particolare rispettando quanto detto dai giocatori precedenti:
- A Paulilatino c’è una casa
- In questa casa viveva una strega
- Adesso la strega è morta
- C’era chi diceva che la strega non viveva lì da sola
- La strega curava le persone
- Ma una volta uno è andato a farsi curare gli occhi e la strega glieli ha cavati
- La casa era molto antica
- La casa sorgeva su un cimitero
A questo punto gli ho chiesto di allargare la storia, aggiungendo un altro “mattone” invece di continuare ad abbellire quel che avevano già creato, e loro non si sono fatti minimamente turbare:
- Adesso in quella casa ci hanno messo gli immigrati
- Gli immigrati cominciano a morire e vengono ritrovati senza occhi
Ripeto: secondo me un’ottima storia dell’orrore. Ma anche il giorno dopo, durante la costruzione di una complicata storia fantascientifica di streghe che davano la caccia a “stelle” fatte di latte e con gli occhi di biscotto, quando Andrea ha chiesto l’introduzione di un antagonista per evitare che il racconto si avvitasse su se stesso, subito sono saltati fuori dei Protettori e i ragazzi hanno consapevolmente alzato il livello dell’invenzione per rispondere alla sollecitazione ricevuta. Insomma: si deve supporre una esposizione prolungata a materiali narrativi e la presenza di un certo numero di strumenti critici… ma inconsapevoli, quasi assunti per osmosi.
Questa competenza, secondo me, è in realtà la chiave di accesso al giocare in maniera soddisfacente con gli adolescenti: se percepiscono che il linguaggio comune sul quale ci si vuole muovere è questo, che loro considerano come un dato, è fatta.
Horror, che passione
Naturalmente giocare con gli adolescenti in una cornice condivisa di questo genere vuol dire lavorare sui generi che vanno per la maggiore fra loro, fra i quali l’horror, mi pare di capire, la fa da padrone, sia fra i ragazzi che fra le ragazze. La cosa un po’ mi ha stupito perché dipende indubbiamente dal fatto che si tratta di un genere percepito come trasgressivo, e non pensavo che ancora l’horror mantenesse questa sua carica eversiva.
Oddio: più di una volta mi è capitato di stare vicino al banco dei libri. C’erano i fumetti della Kleiner Flug e fra loro una trasposizione da Edgar Allan Poe, La maschera della morte rossa. Ovviamente tutti i genitori volevano comprare un fumetto ai figli (non sapendo che i ragazzini non leggono più fumetti) e altrettanto ovviamente tutti sceglievano questo.
Oh, ci fosse stato un genitore che rispettasse la scelta del figlio?!
Nessuno.
«Prendiamo Donatello, invece». Maddai…
«Poi ti fa paura».
«Ma mamma. L’ho già sfogliato, non mi fa paura, l’ho già letto».
«No no, Donatello».
E quindi sicuramente tutto ciò che è pauroso è anche destabilizzante per i genitori. E naturalmente gli adolescenti sono affascinati dalla dimensione oscura, dalla morte e così via: fa parte della ricerca di autonomia tipica dell’età. Ma sono rimasto lo stesso un attimo perplesso: non pensavo che col grado di violenza comune sui media i ragazzi provassero ancora un brivido a immaginarsi in possesso di un oggetto acuminato atto a offendere, o all’idea di vedere spillare il sangue. A occhio non mi pare che ci siano molti strumenti ludici adatti a soddisfare l’esigenza di narrazioni di questo genere – e sicuramente non credo siano adatti tutti i vari materiali White Wolf, a parte che sono relativamente difficili da procurarsi – e trovo che qui c’è un campo aperto per sperimentazioni interessanti, e forse anche un campo promettente in senso commerciale.
Laboratori educativi?
Credo che tutti i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze che hanno giocato con noi si siano divertiti. E andando oltre: molti hanno probabilmente scoperto un mondo di giochi possibili che non conoscevano e che li attirano (a occhio: un quinto dei ragazzi farebbe dei giochi di ruolo un hobby in qualche modo continuativo). E quindi andando via ci siamo chiesti: e adesso?
È improbabile che molti dei ragazzi che hanno giocato con noi trovino, nel prossimo futuro, qualcuno che gli consenta di approfondire quella che potrebbe (avrebbe potuto) diventare una passione. Per i Fabbricastorie, ci siamo detti, è un problema. Un problema irrisolvibile, al momento, ma un problema che in qualche modo ci interroga. Faremo in futuro un lavoro coi ragazzi della scuola media di Villasor, e abbiamo chiesto e ottenuto di poter fare però anche un seminario di accompagnamento con gli insegnanti, o i capi scout, o gli educatori dell’oratorio: un modo, insomma, per lasciare delle competenze sul territorio. Mi sembra una strada opportuna e dopo questa esperienza probabilmente ce lo daremo come metodo.
Il discorso, però, è più sottile: è possibile, dopo un seminario di questo genere, non affidare la prosecuzione dell’esperienza alla mediazione di un adulto che continui il nostro lavoro, ma sviluppare direttamente delle competenze nelle persone – bambini – che fanno il seminario? Non ho dubbi che gli adolescenti che hanno giocato si possano essere portati via delle tecniche di lavoro che hanno visto mettere in pratica e delle idee, sui generi, sui “blocchi base” delle narrazioni, che potranno forse essere ricordate e dare frutto più avanti. Per i preadolescenti e i bambini, invece, non c’era niente che si potessero portar via, se non il ricordo di una bella esperienza. Come migliorare sotto questo punto di vista – che semi piantare – è un tema che probabilmente approfondiremo, soprattutto se ci accorgessimo che le occasioni di gioco coi bambini diventano frequenti.
Parentesi autobiografica: non è detto che queste cose da portarsi via dal seminario debbano essere complicate. Per esempio a otto anni mia madre mi comprò una serie di quaderni di scuola pubblicati dalla vecchia AIGI, l’associazione italiana dei giochi intelligenti: non ricordo bene che cosa ci avessero messo dentro ma io fui catturato dall’idea che ci potessero essere giochi intelligenti: quando molti anni dopo fu pubblicato Pergioco mi accorsi che lo avevo aspettato per tutti quegli anni.
E infine i ringraziamenti
Che vogliamo ringraziare calorosamente tutto lo staff del festival, a ogni livello, si sarà capito, no? Consentitemi però alcune menzioni individuali: prima di tutto per Teresa Porcella, che ci ha sollecitato inizialmente a formulare una proposta di seminario e ci ha portato al festival, poi per Marcella e Enrico della segreteria, per la libreria Novecento di Nuoro e infine tutti i volontari e gli insegnanti che prestavano servizio nell’area della scuola e della sezione ragazzi del festival.
E il ringraziamento più importante, per i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze che hanno giocato con noi. Loro non ci hanno creduto quando gli ho detto che per noi era stato un onore e un privilegio, ma era davvero così!
(le foto del festival vengono dalla pagina Facebook dell’associazione Isola delle storie)
questo tuo intevento è bellissimo, chiarissimo, intrigante, approfondito.
Eri, sei e rimarrai il migliore!
Del resto non te lo dico da oggi.
Dovresti scrivere libri ed articoli e farli il tuo vero mestiere (intendo come fonte di soldi e stipendio).
Ho un unico appunto: SUPERNATURAL sempre il titolo di un film porno.
un abbraccio
giuseppe
Sempre troppo buono, Giuseppe 😉
Peraltro, io non so quanto bene scrivo, ma sono certo che quel livello dipende dal fatto che non lo faccio per professione.