Meno etica, per favore
Sto leggendo un piccolo saggio (liberamente disponibile in rete) sull’eccidio di Codevigo, una grave serie di uccisioni che ebbero luogo in un piccolo centro della Bassa padana o nei dintorni nell’estate del ’45, nei giorni immediatamente successivi alla resa delle forze tedesche e dei loro alleati italiani. Nei giorni dell’eccidio furono passati per le armi in quella zona più di un centinaio di repubblichini e di altri ex fascisti: il caso è tornato d’attualità per vari motivi negli anni scorsi (il saggio è del ’99).
Nonostante l’introduzione, non voglio qui parlare del saggio: la linea di indagine storiografica è infatti abbastanza nota e si collega al lavoro di storici come Mario Isnenghi, Guido Crainz e Claudio Pavone, che riflettono sul collegamento fra violenza politica e transito pressoché indisturbato di pezzi del vecchio regime fascista nei nuovi assetti politici e istituzionali.
Quello che mi ha colpito è invece la riflessione sul revisionismo storico, in cui l’autore del saggio riflette su una lettura della Resistenza tutta incentrata sull’etica e però privata di letture storiche non agiografiche. Permettetemi di citare i pezzi rilevanti (l’enfasi sui pezzi evidenziati in grassetto è mia):
Ricordo di aver giocato con i miei compagni delle Elementari – si era negli anni ‘60 – a “tedeschi e partigiani”, proprio così come si sarebbe potuto giocare a “indiani e cow-boys”: non c’erano particolari regole, ma quelli di noi che facevano i partigiani non potevano ricorrere a certi colpi “bassi” riservati solo ai “tedeschi”. La storiografia resistenziale e di sinistra per troppo tempo ha cercato di arginare il dilagare dei vari “revisionismi” orchestrati dalle destre, negando il fatto che nella guerra partigiana non sempre le cose andarono come ingenuamente potevano credere dei bambini, oppure sottolineando il valore morale di quella violenza; in altre parole, al cosiddetto revisionismo storico si è teso a dare delle risposte sostanzialmente etiche piuttosto che sul piano storico.
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Di conseguenza ogni altra visione della Resistenza, quali quelle contrastanti di guerra sociale o di guerra civile, fu puntualmente negata o minimizzata e tutta l’articolata e diversificata esperienza della lotta armata partigiana fu ammantata dal tricolore e amputata delle sue radici storiche che affondavano nell’antifascismo proletario e sovversivo del Biennio Rosso, degli Arditi del Popolo e della guerra di Spagna.
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Questo costante lavoro di manipolazione e svuotamento, svolto nei confronti di quel dirompente fenomeno politico e sociale che era stato la guerra partigiana, non solo permise ai vari governi democratici succedutisi nel dopoguerra di riabilitare e reinserire nelle istituzioni considerevoli settori fascisti già pesantemente compromessi con il regime del Ventennio e la Repubblica Sociale Italiana, ma disarmò la storiografia nei confronti di quanti, da destra, avevano iniziato una lunghissima e sistematica opera di denigrazione della Resistenza andando a “pescare nel torbido” di fatti di sangue ed episodi di violenza rimossi e nascosti dagli stessi protagonisti della lotta partigiana, criminalizzati sul piano giudiziario e indotti al senso di colpa.
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Sicuramente, come ogni rivoluzione, neanche la lotta di Liberazione fu “un pranzo di gala”, e sarebbe assurdo negare gli eccessi che furono compiuti sia collettivamente che individualmente; ma, invece di consegnare all’oblio o alla celebrazione strumentale quegli avvenimenti, sarebbe stato necessario avviare un effettivo processo di ricerca storica che aiutasse a comprendere il peso del passato, le contingenze belliche, le condizioni di vita, l’ambiente, le culture, le dinamiche sociali e i fattori psicologici che misero in moto comportamenti violenti che non potevano fermarsi, come per incanto, nel momento in cui il potere politico decise che l’insurrezione era da ritenersi terminata e che tutti, buoni o cattivi, dovevano tornare a casa facendo finta che non fosse successo niente.
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«A chi si propone una omologazione delle parti – ha intelligentemente osservato Santo Peli – non è difficile reperire episodi apparentemente rivelatori di una logica identica per entrambi i contendenti, caratteristici di una guerra senza prigionieri. Simili rivisitazioni hanno come presupposto e come effetto l’azzeramento del tempo storico, la rimozione o l’occultamento della sostanza di un approccio alla realtà che si pretenda storico, cioè almeno una corretta sistemazione dei fatti lungo un asse cronologico – stabilire il prima, il durante e il dopo –; e, di conseguenza, anche l’azzeramento dei molteplici nessi causali che solo la storicizzazione rende possibili».
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Contro questa strategia, da tempo perseguita anche in Italia, che sistematicamente si prefigge di smantellare la memoria dell’antifascismo, qualcuno sta prendendo posizione e qualcosa comincia a muoversi anche in campo accademico e tra gli intellettuali; ma si tratta di una difesa quasi sempre “statica”, legata ad una visione che ritiene l’antifascismo soprattutto un valore. Invece è necessario sviluppare una puntuale critica del revisionismo che, attraverso l’indagine storica, ne smascheri le mistificazioni e smonti pezzo per pezzo il meccanismo, senza aver paura di scendere sul suo terreno, a partire da situazioni locali o fatti volutamente dimenticati, come quelli accaduti a Codevigo.
Chiedo scusa se mi sono dilungato. A questo punto ho pensato ai migranti e a Salvini (e a tutti quelli peggio di lui).
Perché? Perché ho spesso la sensazione che Salvini tenda a vincere a mani basse nell’opinione pubblica non solo perché, come sostiene il mio amico Enrico Euli, è capace in accordo coi tempi e col mood generale di porre le questioni all’interno di cornici emotive (che sono velocissime e molto efficaci) mentre i suoi avversari tendono a rispondere sul piano delle argomentazioni, lente e poco efficaci e per di più comunque prigioniere delle cornici che l’altro gli ha già posto intorno: chi ascolta capisce le argomentazioni ma ha già la testa orientata in quell’altro modo.
Non è solo per questo. È anche perché, come il vecchio dibattito sulla Resistenza, una parte dei suoi avversari ha la coscienza sporca e non può permettersi di mettere le mani nel conflitto sociale, altrimenti verrebbero a galla magagne non da poco (tipo i rapporti Nord-Sud, chi ha creato le guerre, e perfino l’assetto sociale dei nostri paesi), e quindi favorisce una risposta di tipo retorico, tutta centrata sui valori etici (che sono veri, ci mancherebbe), ma che rappresenta
una difesa quasi sempre “statica”, legata ad una visione che ritiene l’antirazzismo soprattutto un valore.
La frase c’era anche nel saggio, non so se avete notato: ho solo sostituito antirazzismo a antifascismo; e la difesa statica è comunque meglio di tutti quei casi in cui le questioni delle migrazioni
sono invece di consegnate all’oblio o alla celebrazione strumentale
di fatti singoli e presentati slegati fra loro, che siano le stragi in mare oppure qualunque altra cosa.
La retorica, l’idea che l’etica si renda evidente da sola e solo per questo debba trionfare immediatamente finisce per lasciare campo libero, invece, a chi nel conflitto sociale non ha paura di mettere le mani. Non siete convinti? Vi ripropongo un brano già citato, rileggetelo pensando che non parli di Resistenza ma di presenza di stranieri fra noi (ci stanno bene anche le ruspe e i campi rom).
Simili rivisitazioni hanno come presupposto e come effetto l’azzeramento del tempo storico, la rimozione o l’occultamento della sostanza di un approccio alla realtà che si pretenda storico, cioè almeno una corretta sistemazione dei fatti lungo un asse cronologico – stabilire il prima, il durante e il dopo –; e, di conseguenza, anche l’azzeramento dei molteplici nessi causali che solo la storicizzazione rende possibili».