Il reboot di Montalbano
Guardavo lunedì una puntata de Il giovane Montalbano in televisione.
Messo sull’avviso da una osservazione acuta di Maria Bonaria, mi sono reso conto che si tratta di un telefilm singolarmente povero di contestualizzazione: leggo in giro che dovrebbe svolgersi negli anni ’90, ma mancano quasi completamente segnali che identifichino l’epoca con precisione (un periodo in cui avvenivano Mani Pulite e le stragi di mafia, per dire, e in cui la moda, la musica e il costume erano molto caratterizzati) .
Può darsi che questo dipenda dal volere tenere in qualche modo i piedi in due staffe: stando alla ufficialità dei libri Montalbano è nato nel 1950 e nei primi anni ’90 aveva già quarantanni (il primo romanzo esce nel 1994 e il commissario è quarantino), quindi se in questa serie è trentenne la vicenda dovrebbe essere ambientata invece nei primi anni ’80, che però forse parrebbero eccessivamente distanti agli spettatori; lasciare il contesto storico indeterminato permette di non sciogliere l’ambiguità e di avere le mani più libere nella narrazione.
In realtà credo però che il punto sia un altro: e cioè che Il giovane Montalbano non vada interpretato tanto come un prequel della serie principale, quanto come un reboot del personaggio, una “riaccensione”, cioè un modo per raccontare nuove storie del commissario (le stesse storie) senza dovere tenere perennemente in pista Zingaretti e il resto del cast, costretti a ripetere eternamente se stessi. Leggo in questo senso la mancata caratterizzazione d’epoca accoppiata invece con la insistita caratterizzazione dei personaggi, affidati ad attori diversi ciascuno dei quali però veste, è pettinato e si muove esattamente come il se stesso più anziano (tranne Mimì, ma su questo torneremo): possibile che nessuno di loro in dieci anni o più non abbia mai cambiato gusti, modo di fare, atteggiamenti? Salvo, per dire, ha i capelli e la barbetta (con un gusto molto anni 2010, tra l’altro), ma veste esattamente come vestiva nella serie precedente. Dipende dal fatto che si vuole avere la giustificazione che spieghi al pubblico perché gli attori sono cambiati per continuare, sostanzialmente, a produrre lo stesso sceneggiato televisivo.
Il solo fatto che sia stato possibile concepire e gestire un reboot del genere è la conferma che Montalbano è oggi l’unica vera franchise italiana e la dimostrazione di una capacità di Camilleri in primis e del resto dello staff di confrontarsi con linguaggi produttivi e narrativi internazionali: il personaggio si è sempre mosso con disinvoltura su media e mercati differenti, adesso è capace di rigenerare se stesso neanche la RAI fosse la Marvel che gestisce I Fantastici Quattro.
Il problema è che non sempre i reboot sono fortunati (la Marvel, appunto, insegna) e qua non tutto sembra essere andato a posto, o comunque diciamo che la run (cioè il ciclo narrativo) degli autori attuali non è straordinaria: alla riproposizione insistita di tutti i vari cliché di contorno per rassicurare il pubblico, da Catarella in giù, fa da contraltare una regia davvero televisiva (direte: bella forza, ma forse si poteva osare di più), un cast non particolarmente indimenticabile e soprattutto delle sceneggiature, mi pare, un po’ qualunqui: sono storie che potrebbero in fondo essere affidate a qualunque altro commissario, perfino, forse, di qualunque altra parte d’Italia. Per essere un reboot si sente, cioè, la mancanza di una volontà di reinterpretare i personaggi, offrendone una nuova intepretazione, fedele ai caratteri essenziali dei libri ma originale. Non a caso l’unico personaggio su cui gli autori si sono esercitati in questo modo è Mimì, e infatti è uno di quelli che funzionano meglio.