La Medea di Euripide: un musical. Ma femminista? Forse no
La Medea di Euripide
Devo confessarlo: non avevo mai letto interamente la Medea. Scoprirla preparando questo ciclo di puntate è stato, per molti aspetti, un regalo inaspettato.
D’altra parte la ricchezza di possibili percorsi di lettura ha finito per rappresentare, al momento di registrare, una difficoltà aggiuntiva: nel senso che scegliere con esattezza quel che volevo dire non è stato per niente facile (poi, come al solito, nella foga della trasmissione un po’ di cose le ho anche dimenticate). Mai come in questo caso, quindi, accoppiare alla puntata anche questo articolo di commento mi sembra utile.
Questa strana storia del musical
Lo so che sentirmi dire che va letto un grande classico della letteratura mondiale come se fosse il testo di un musical come Jesus Christ o il Notre-Dame di Cocciante può apparire bizzarro (già il riferimento all’opera lirica – che io nella concitazione della puntata ho chiamato, chissà perché, opera teatrale – suona meno strano, comunque).
Rimango però della mia idea: senza l’idea di pezzi forti affidati a cantanti, alternati a duetti o al dialogo col coro non si coglie del tutto la struttura dell’opera e, in fondo, neppure la modernità in termini di approccio alla narrazione teatrale.
Approfitterei qui per far notare che anche una certa idea scolastica degli antichi Greci come genti “civili” impegnate principalmente magari in elevati dibattiti filosofici – in parte dovuta, ovviamente, alla loro stessa propaganda – costituisce una difficoltà aggiuntiva alla lettura del testo. Se ci immaginassimo i protagonisti come vichinghi, poniamo (Brunilde o Crimilde sono cugine, se non direttamente sorelle, di Medea) probabilmente vivremmo la vicenda in modo molto diverso, e più esatto.
Una vicenda ineluttabile
Una cosa che non ho detto per bene, temo, è la maestria di Euripide nel costruire una vicenda nella quale l’incedere progressivo degli eventi (appena interrotto al momento in cui compare Egeo) trasmette una sensazione di ineluttabilità sempre più soffocante: immagino che a teatro nel momento in cui Creonte cede alle richieste di Medea e acconsente a farle passare qualche ora in più in città, permettendole così di costruire la sua vendetta, il pubblico collettivamente abbia un sussulto, più o meno come quando l’eroina di un horror invece di aspettare l’autobus al sicuro decide di incamminarsi verso casa lungo una strada buia e solitaria.
… spesso per pietà feci il mio male.
Ed or vedo che sbaglio, o donna; eppure
ciò che brami, otterrai; ma ti prevengo:
se la vampa del sol, dimani al sorgere
vedrà te coi tuoi figli in questa terra,
tu morrai: non sarà vana parola.
Giasone, un eroe borghese
Ripensando a quella discussione mi sono molto interrogato sulla figura di Giasone: Burian sosteneva che l’eroe euripideo non è più quella figura violenta e volitiva, estremamente individualistica, che era in precedenza nel pensiero greco – un eroe tipicamente aristocratico – ma era divenuto un eroe “democratico”, adatto alla polis e alla collaborazione con i suoi pari nella stretta e coesa formazione oplitica.
Qui c’è però qualcosa di più: la collaborazione di Giasone sembra il maneggio di un sensale
… E tuttavia
io non manco agli amici; e sono qui
per provvedere alla tua sorte, o donna,
perché non vada coi tuoi figli in bando
attento, con cura ragionieristica, a stabilire in ogni cosa perdite e guadagni:
Che mi salvassi, qual ne sia la causa,
male non fu; ma dalla mia salvezza
più ricevesti che non desti; e adesso
te lo dimostrerò. Primo, ne l’Ellade
abiti adesso, e non in terra barbara;
e sai giustizia, e l’uso delle leggi,
e non l’arbitrio della forza; e tutti
gli Ellèni sanno che sei dotta, e sei
venuta in fama: se abitato agli ultimi
confini avessi della terra, niuno
fatto di te parola avrebbe.
L’eroe omerico avrebbe guadagnato onori e ricchezze solo con la forza del suo braccio o con la fermezza della sua volontà; più modestamente Giasone si adatta al ruolo del gigolò, o forse del maschio riproduttore d’eccezione:
Quanto alle nozze poi, che mi rimproveri
con la figlia del re, vo’ dimostrarti
primo, che saggio fui, poi riflessivo,
poi grande amico ai miei figliuoli e a te.
Rimani calma. Poi che venni qui
dalla terra di Iolco, trascinandomi
dietro molte sciagure immedicabili,
quale potuto avrei sorte migliore
trovare, che sposar del re la figlia,
io fuggiasco? E non già per la ragione
onde ti struggi: perché tedio avessi
dell’amor tuo, perché di nuova sposa
fossi colpito dalla brama, né
di molti figli per desio: mi bastano
quelli che abbiamo, né di ciò mi lagno;
ma perché noi con ogni agio vivessimo,
senza penuria, ben sapendo ch’evita,
se in lui s’imbatte, ognun l’amico povero;
per educare i figli in modo consono
al mio casato, e, generando ai figli
nati da te, fratelli, e quelli a questi
pareggiando, e la stirpe accomunandone,
fossi felice. E che bisogno hai tu
d’altri figliuoli? A me convien coi figli
venturi avvantaggiar quelli che vivono.
Gli altri temi: gli stranieri, l’esilio
Preso com’ero a raccontare il modo d’incedere della vicenda e tante altre cose non ho accennato se non di sfuggita a un tema che pervade la tragedia e che mi pare, per quanto ho potuto vedere dell’indagine critica moderna, molto trascurato: quello dell’essere stranieri e esuli e quello, parallelo, dell’essere scacciati dalla propria terra: un tema evidentissimo e di grande attualità ma messo fra parentesi, forse, dalla riflessione sulla condizione femminile, più facile da cogliere dalla critica ottocentesca e del secolo scorso.
Eppure è un tema che proprio gli eventi di questi ultimi anni dovrebbe invitare a riscoprire, in questa tragedia e più in generale nel pensiero greco: ho l’impressione che siamo tutti molto appiattiti su interpretazioni tutto sommato superficiali di quella parola che i Greci ci hanno trasmesso, barbari, ignorando la ricchezza dei rapporti fra mondo greco e resto del Mediterraneo e la complessità della riflessione sulla terra, la cittadinanza, l’esilio, i viaggi, di cui anche questa tragedia è testimone. Mi chiedo come renderebbe, per esempio, la Medea se messa in scena con barconi e CIE, oppure ambientata in una metropoli multiculturale.
E infine: una tragedia femminista?
Mi è molto dispiaciuto che la mancanza di tempo non mi abbia consentito di leggere per intero lo straordinario monologo di Medea, un testo che per la sua modernità fa fare più di un sobbalzo al lettore (o allo spettatore):
Fra quante creature han senso e spirito,
noi donne siam di tutte le più misere.
Ché, con profluvii di ricchezze prima
dobbiam lo sposo comperare, e accoglierlo
– male dell’altro anche peggiore – despota
del nostro corpo. E il rischio grande è questo:
se sarà tristo o buon: ché separarsene
non reca onore alle consorti, né
repudiar si può lo sposo. E, giunta
quindi a nuovi costumi, a nuove leggi,
indovina dovrebbe esser: ché appreso
in casa non ha già come piacere
possa allo sposo. E quando, a gran fatica,
vi siamo giunte, se lo sposo vive
di buon grado con noi, se non sopporta
il giogo a forza, invidiata vita
la nostra! Ma se no, meglio è morire.
Quando in casa si cruccia, un uomo può
uscir di casa, e presso un coetaneo,
presso un amico, cercar tregua al tedio:
noi, di necessità, sempre allo stesso
uomo dobbiamo essere intente. Dicono
che passa in casa, e scevra dai pericoli
la nostra vita, e invece essi combattono;
ed hanno torto: ch’io lo scudo in guerra
imbracciare vorrei prima tre volte,
che partorire anche una sola.
È un testo giustamente famoso e che ha ispirato, negli anni, un campo sterminato di contributi critici e di interpretazioni della tragedia di taglio femminista. Quando ho iniziato la lettura della Medea ne ero ben conscio: l’avevo scelta per questo, dopotutto.
Alla fine della lettura, e dopo avere leggiucchiato sulla rete un po’ dei suddetti contributi, non sono più così sicuro.
Soprattutto non è facile capire, in realtà, come la pensi Euripide.
Non è solo il fatto che il coro, che inizialmente approva la vendetta di Medea in quanto ristabilisce l’equilibrio sociale spezzato dalla rottura del giuramento matrimoniale – e però, attenzione, è un giuramento che relega la donna in un ruolo comunque subalterno – il coro, dicevo, si ritrae poi esplicitamente dall’orrendo infanticidio di cui la donna si macchia e che però nel momento in cui architetta la sua vendetta doveva avere già calcolato, cosa di cui il coro stesso doveva essere conscio.
Questo monologo di Medea, cioè, me ne ha ricordato un altro anch’esso famosissimo, quello della creatura del dottor Frankenstein:
Come posso commuoverti? Nessuna supplica può spingerti a volgere uno sguardo benevolo sulla tua creatura, che implora la tua bontà la tua compassione? Credimi, Frankenstein, io ero benevolente; la mia anima ardeva di amore e umanità, ma sono solo, miseramente solo! Tu, il mio creatore, mi detesti: che speranza posso raccogliere dai tuoi simili che non mi devono nulla? Essi mi disprezzano e mi odiano. Le montagne deserte e i ghiacciai desolati sono il mio rifugio. Ho vagato qui intorno per molti giorni; le caverne di ghiaccio, che solo io non temo, sono una dimora per me, ed è l’unica che l’uomo mi concede. Io saluto questi pallidi cieli, perché sono più gentili dei tuoi simili. Se la moltitudine dell’umanità sapesse della mia esistenza, farebbe come hai fatto tu, e si armerebbe per distruggermi. Non dovrei dunque odiare coloro che mi detestano? Non raggiungerò mai un accordo con i miei nemici. Io sono un miserabile, e loro condivideranno la mia sventura.
Quando il mostro dice questo, ha già ucciso un bambino innocente. Quando Medea enuncia il suo piano di vendetta deve già sapere che questo comporterà la morte dei figli. L’insistenza di Euripide sulla barbarica ferocia di Medea è sospetta, e il pubblico che ascoltava doveva sapere che un monologo così commovente era però pronunciato da una figlia di Ecate, la dea degli inferi, un tipo di caratterizzazione del personaggio che forse alla nostra sensibilità sfugge completamente e che può portarci a sbilanciarci nella lettura del personaggio.
Il problema è ulteriormente complicato, mi pare, dal fatto che molti dei contributi critici che ho letto in rete – molti dei quali, peraltro, si addentrano in complicazioni tecniche sulle quali io francamente non sono competente – soffrono del difetto di leggere il testo come se gli antichi pensassero con gli stessi nostri concetti – cosa che evidentemente non è – un errore che semiologi, filologi e esperti di studi di genere possono fare più spesso degli storici, che devono per forza far cozzare la lettera del testo teatrale con altre evidenze di diverso tipo.
Alla fine io credo che sia più corretto, in realtà, prendere il testo euripideo come il segnale certo di un disagio – una tensione molto forte, esattamente come quelle di cui ho parlato l’anno scorso nelle puntate sulle saghe. Un disagio, anzi più di uno: subordinazione della donna, disparità di ruoli, la sessualità vissuta come violenza, disequilibri familiari, la felicità delle relazioni vincolata al possesso della ricchezza, terrore del parto: direi che anche così ce n’è più che abbastanza.