Aerei caduti e viaggi dalla scrivania
Non so per quali strani collegamenti Feedly mi abbia proposto un articolo del 2012: è tratto da TheAppendix.net, un sito creato da alcuni giovani storici con il motto: Noi pubblichiamo le storie interessanti che altrimenti finirebbero nel cestino della carta straccia della Storia.
Il sito è purtroppo in via di estinzione dopo avere pubblicato delle cose bellissime, che mi spiace di avere scoperto solo ora; spero che l’archivio rimanga disponibile anche in futuro e vi invito a visitarlo. Nel frattempo l’articolo che oggi ho trovato sul palmare mi è sembrato bellissimo e l’ho tradotto.
L’articolo originale è in inglese. Le foto che vedete a corredo sono tratte da quelle dell’articolo, ma sul sito originale ce ne sono anche altre, che meritano di essere viste. Ci sono anche una serie di note, che non ho tradotto. Curiosando un po’ ho anche trovato un reportage dell’epoca di Life sullo stesso argomento, meraviglioso.
Amazzonia 1952: TROVATO
Di Felipe Fernandes Cruz
Era una mattina d’autunno ma abbastanza calda da farmi sudare. Mentre salivo con l’ascensore della biblioteca, il gelido condizionamento mi fece gelare. Tutto normale a Miami.
Ding. Ottavo piano – Raccolte speciali. Lasciai l’ascensore, salutai l’amichevole bibliotecario e sedetti per passare un’altra giornata priva di colpi di scena a scartabellare i documenti aziendali della raccolta PanAmerican World Airways. Chiesi l’ennesimo scatolone pieno di rapporti, grafici, lettere e ritagli e poi disposi i miei attrezzi da lavoro sullo spoglio tavolo nero in formica. Mi sedetti di nuovo. Guardando fuori della finestra volta a sud, oltre l’oceano verso Cuba, lasciai che i miei pensieri si perdessero.
Come gli aerei da crociera della PanAm che un tempo volavano a sud da Miami portando con sé ricchi passeggeri verso i miraggi esotici promessi dalle locandine di viaggio, ero spinto vero il Brasile. Avrei dovuto essere già lì, ma pastoie burocratiche mi avevano trattenuto da quella fase delle mie ricerche. Invece ero in quel moderno palazzo di uffici, mordendo il freno mentre i miei amici si affrettavano verso posti più esotici e archivi più bizzarri. Sedevano in prigioni coloniali a Città del Messico, case doganali imperiali in Siviglia e sgabuzzini di museo a Washington, mettendo in ordine sconosciuti testi alchemici, diari di marinai, lettere di rivoluzionari e perfino scaffali pieni di teschi precolombiani.
Miami era emozionante, ma avevo vissuto in Florida ormai da molti anni ed ero pronto per imbarcarmi per la mia personale missione di servizio archivistico all’estero. Ero ansioso di visitare raccolte in lungo e in largo in Brasile – lo immaginavo come un’avventura frenetica, come se Jack Kerouac fosse stato un topo d’archivio in Sulla strada. Provavo la variante dello storico del desiderio di vagabondaggio.
Un carrello cigolante che portava cinque scatole girò l’angolo, interrompendo le mie fantasticherie.
Era un blocco d’archivio del tipo da cinque scatole alla volta. Dentro le cinque poggiate sul carrello c’era una bella sorpresa: delle vecchie carte geografiche da aviatore che avevano avuto bisogno delle cure del restauratore prima di raggiungere le mie mani prive di guanti. Presi la scatola numero nove e ne estrassi il primo oggetto, una spessa busta da lettere con la frase Evento nella jungla 1952 scritto davanti.
Lo disposi delicatamente sul tavolo, come se stessi maneggiando una reliquia. Aprii l’obiettivo della mia macchina fotografica. Click. E poi aprii la busta.
Un chiassoso branco di cinghiali selvaggi esplose fuori dal fogliame. Era una serata scura di maggio del 1952, nei pressi del fiume Araguaia nell’Amazzonia orientale. I componenti della spedizione, indios Carajá, operai brasiliani e dipendenti della PanAm, si precipitò verso gli alberi e attese mentre centinaia di zanne minacciose passavano sotto di loro. Era solo uno dei molti rischi che affrontavano mentre si aprivano la strada attraverso trentasei miglia di fitta foresta pluviale per raggiungere il relitto del volo 202 della PanAm.
Nella notte del 29 aprile 1952 il volo PanAm 202 non aveva preso contatto con uno dei suoi riferimenti radio fra Rio de Janeiro e Port of Spain. Non raggiunse mai la sua destinazione, Port of Spain, da dove avrebbe continuato a nord verso New York. Gli aerei di soccorso si alzarono in volo e la mattina del 1° maggio uno avvistò una nuova radura nella fitta jungla. Ed eccola lì – la carcassa bruciata di un Boenig StratoCruiser, vista per l’ultima volta al decollo dall’aeroporto Santos-Dumond di Rio con a bordo quarantuno passeggeri e nove membri dell’equipaggio. Dopo avere sorvolato il luogo per ore e non avere visto nessun sopravvissuto i piloti dell’aereo di soccorso decisero che non c’era motivo di rischiare altre vite paracadutando la loro squadra medica. Fecero ritorno alla base di Belém e iniziarono a pianificare una spedizione via terra.
Ufficiali delle aviazioni di Brasile e Stati Uniti e esperti di disastri aerei, insieme con rappresentanti della PAnAm, esaminarono a fondo le mappe e decisero di portare un aeroplano anfibio il più vicino possibile al sito del relitto, nel villaggio di Lagoa Grande sul fiume Araguaia. Una volta là organizzarono un campo base e chiesero l’aiuto del Servizio di Protezione Indiano brasiliano – la struttura incaricata di supervisionare i contatti fra stranieri e popoli nativi. L’agenzia inviò uno dei suoi funzionari insieme con un gruppo di Carajá con la funzione di guide. Partirono il prima possibile. Sarebbe stato un lavoro duro. Dovevano aprirsi la strada a colpi di machete attraverso trentasei miglia di fitta foresta. Con alberi alti più di trenta metri che oscuravano in permanenza il sole non stavano tracciando una pista: si scavavano un tunnel attraverso lo spesso sottobosco della foresta.
Quella notte ai primi di maggio, quando i cinghiali selvaggi infine passarono oltre uno dei Carajá balzò giù dal suo rifugio sull’albero per abbatterne uno con una freccia. Quella notte la cena fu migliore delle abituali razioni militari ma la squadra continuò a muoversi a un passo estenuante. Avevano anche altre minacce di cui preoccuparsi. Per quanto umida possa sembrare l’Amazzonia, nell’area era difficile trovare acqua potabile. La spedizione spesso si affidava all’acqua raccolta da liane e foglie mentre uno dei Carajá si spingeva avanti alla ricerca di un ruscello.
Perfino mantenere il loro senso di direzione era difficoltoso e, senza equipaggiamento radio, anche tenere le comunicazioni con il mondo esterno. Ricevevano le loro istruzioni dal campo principale via aeroplano. Se il gruppo avanzato udiva un motore accendeva un segnale di fumo (la loro pista era invisibile dall’alto) e l’aeroplano avrebbe voltato in cerchio su di loro e gettato un pacco con istruzioni e altri messaggi.
Al campo base di Lagoa Grande alle loro spalle un altro dramma si andava sviluppando. La spedizione ufficiale si accorse che non erano il solo gruppo di soccorso in zona. Nuovi voli di sorveglianza rivelarono paracadute sulle cime degli alberi circostanti. Un altro gruppo di soccorritori si aggirava già attorno al relitto! I giornali del mattino lo confermarono: un gruppo indipendente di paracadutisti, finanziato dal turbolento ex governatore di San Paolo, Adhemar de Barros, si era paracadutato direttamente sul luogo dello schianto. Be seguì un’accesa guerra di parole. Barros progettava di presentarsi alle successive elezioni presidenziali brasiliane e la spedizione ufficiale lo accusò di esibizionismo, di aver lanciato la sua operazione privata a fini politici. Barros contrattaccò, affermando che ci potevano essere sopravvissuti e che gli americani non avevano il coraggio di raggiungere il luogo paracadutandosi dai propri aerei.
Humphrey Toomey era il direttore delle operazioni della PAnAm per l’America Latina dell’epoca e il compito di coordinare la missione ufficiale di soccorso partita da Lagoa Grande ricadde su di lui. Inviò una lettera all’Aviazione Militare brasiliana a Belém, implorando di intervenire e fermare la squadra irregolare. Le autorità accettarono, ma i paracadutisti erano già sul posto. Toomey temeva che potessero interferire con le condizioni del relitto e rovinare così le indagini. Forse si aggirò ansiosamente per il campo, poi si volse verso uno dei meccanici che la PanAm aveva trasferito via aereo da Miami, chiese un fiammifero e si accese un sigaro.
O almeno questo è ciò che io penso che fece. Ritornando a Miami, 2011, quando estrassi la lettera di Toomey alle autorità brasiliane dalla busta ammuffita cadde sul tavolo nero dell’archivio una scatola di fiammiferi. Era di un bar di Miami chiamato Il faro. Questa busta chiamata Evento nella jungla 1952 conteneva le carte personali di Toomey della spedizione e comprendeva anche una serie di vari oggetti sparsi, come se tutto ciò che aveva addosso durante i fatti fosse stato infilato frettolosamente in questa busta da un assistente e poi archiviato.
La scatola di fiammiferi sembrava avere accumulato un buon numero di miglia. Rigirandola nelle mani mi immaginai che fosse stata presa da un meccanico della PanAm in un bar della spiaggia di Miami, tenuta nel taschino della camicia o dei calzoni durante il volo fino nel cuore dell’Amazzonia e poi prestata al signor Toomey, che la portò con sé a Rio de Janeiro. Poi, qualche tempo dopo la prematura morte per omicidio di Toomey a Rio de Janeiro [Toomey, già in pensione, fu ucciso per rapina nel 1974 durante un viaggio in Brasile; dagli inizi come trasvolatore solitario e pioniere dei voli commerciali era arrivato a essere vicepresidente della PanAm, NdRufus] fu trasportato all’indietro verso Miami dentro la busta per divenire parte della raccolta di documenti d’archivio dell’Università di Miami. Prima di tornare a Miami è probabile che abbia fatto anche una sosta lungo la strada nella sede aziendale della PanAm a New York, dove precedentemente erano ospitato l’archivio.
La busta conteneva un buon numero di oggetti interessanti e misteriosi. Una era una lettera che Toomey aveva ricevuto da un sensitivo, il quale sosteneva non solo che vi erano dei sopravvissuti, ma che sapeva dove si trovassero. «Lei dovrebbe andare in un posto (probabilmente un villaggio indigeno) chiamato Gatatuaton dove troverete sette sopravvissuti». Il sensitivo lo avvisava anche che «deve tornare a Belém» poiché «i supposti indios amichevoli che sono con lei adesso, non sono amichevoli».
Un’altra lettera era più pungente e racconta di che impatto l’incidente e la stessa missione di soccorso della PanAm avessero sulla coscienza dei residenti più miserevoli dell’area. In una scrittura malferma un contadino scrisse una nota al «signor Toomey» vantando sette anni di esperienza come ragioniere e chiedendo una buona sistemazione negli uffici della PanAm di Rio de Janeiro.
Alcune sono semplicemente tristi, come il copione che la PanAm forniva ai dipendenti per le chiamate di condoglianza alle famiglie delle vittime. Ce n’erano versioni in inglese e portoghese, dato che molti dei passeggeri erano brasiliani: «Qui è [nome] della PanAmerican World Airways. La chiamo di nuovo per esprimerle le nostra ininterrotta vicinanza e cordoglio e anche perché desideriamo rassicurarla che stiamo facendo tutto ciò che è possibile per raggiungere il luogo dell’incidente e svolgere le indagini più complete». A un certo punto il copione prevede che l’impiegato della PanAm si fermi e ascolti la famiglia della vittima: «A QUESTO PUNTO ASPETTARE RISPOSTA E PRENDERE APPUNTI SCRITTI, SE APPROPRIATO».
Seduto nell’archivio anche io presi degli appunti. Probabilmente non erano appropriati. Gli appunti sui documenti di archivio – la forma più grezza di analisi storiografica – sono raramente appropriati.
Nel frattempo nel 1952 la squadra di investigazione doveva ancora vedersela con la spedizione concorrente. Con i paracadutisti già sul posto decisero di abbandonare il tentativo di tracciare una pista (dopo giorni persi a farsi strada attraverso una jungla compatta) e volare direttamente sul sito dello schianto con un elicottero dell’aviazione americana che era stato appena trasportato da Panama. Dopo alcuni voli di elicottero gli investigatori fissarono il campo vicino ai paracadutisti di San Paolo. Immediatamente si svilupparono tensioni fra i due gruppi, che poterono solo aumentare man mano che si ridussero i rifornimenti.
Intanto iniziò l’indagine. Il sensitivo si era sbagliato: non c’erano sopravvissuti. Specialisti della sicurezza aerea tracciarono su carta la disposizione del relitto, cosa che li aiutò a ricostruire le complessità dell’incidente aereo. La forma con la quale un cavo di metallo si era sfilacciato, come un velo d’olio si era formato su una superficie o come una particolare lamiera d’acciaio si era deformata erano tutti indizi importanti che indicavano ciò che era successo e offrivano informazioni che potevano prevenire future tragedie. In effetti poco tempo prima quello stesso anno il volo PAnAm 526A era riuscito a posarsi fortunosamente sull’acqua (operazione conosciuta tecnicamente come ammaraggio) vicino a Puerto Rico, ma molti passeggeri confusi non erano riusciti a lasciare l’areo col mare grosso e erano affondati con l’aereo. Proprio quell’incidente è il motivo per il quale i passeggeri oggi ricevono istruzioni dettagliate su come uscire da un aereo e lanciarsi in acqua nel caso di un “atterraggio” sull’acqua. Da qui gli sforzi erculei per investigare il caso del volo PanAm 202: poteva salvare delle vite in futuro.
Tuttavia divenne chiaro che le condizioni non erano ideali per una inchiesta tecnica dettagliata. I paracadutisti di Adhemar de Barros non avevano fatto bene i bagagli. Esaurirono le scorte e non c’era abbastanza acqua sul posto per il loro gruppo e gli investigatori ufficiali. Senza una pista che connettesse il campo base i rifornimenti potevano essere trasportati solo via elicottero; a causa dell’altezza degli alberi l’elicottero doveva calare i rifornimenti con una corda che non era abbastanza lunga. Il contenitore da consegnare precipitò, causando la rottura delle ghirbe d’acqua. I nervi della spedizione della PanAm erano anche messi alla prova dalla tecnica impiegata dai paracadutisti per scacciare gli animali selvaggi nell’oscurità: tiravano delle bombe a mano nella jungla a ore casuali della notte.
A rendere le cose ancora peggiori l’elicottero, il solo collegamento della squadra con il campo base, aveva un problema meccanico e gli rimaneva solo un numero limitato di voli. Il gruppo ufficiale decise per l’evacuazione. Presero i loro ultimi appunti e fotografie, seppellirono i corpi in una fossa comune e iniziarono a partire con l’elicottero.
Se solo fosse stato così semplice. I paracadutisti, senza possibilità di ritorno, volevano la garanzia di ua via d’uscita dal sito dello schianto. L’elicottero americano era agli sgoccioli e poteva a malapena portare via gli investigatori ufficiali. Un dipendente della PanAm, irritato, scrisse più tardi sul suo taccuino che quando gli chiesero: «E noi?», fu tentato di replicare: «Così come vi siete lanciati giù, provate a uscirne saltando!».
La tensione raggiunse l’apice quando il gruppo della spedizione “Adhemar de Barros” chiese che uno degli americani rimanesse indietro per garantire che anche loro venissero evacuati. Scott Magness, dell’amministrazione dell’Aviazione Civile degli Stati Uniti, e il maggiore Miranda Correa, delle Forze Aeree brasiliane, si offrirono volontari per agire come garanti dei paracadutisti – in sostanza, a divenire ostaggi. Il pilota dell’elicottero offrì a Magness una possibilità di saltare di nascosto sull’elicottero, ma lui fece notare che le loro Colt .45 non potevano stare alla pari dei mitra dei paracadutisti.
La storia era già sulle prime pagine in entrambi i paesi. Per evitare che la tragedia si trasformasse in vergogna la spedizione ufficiale accettò il patto. L’elicottero americano portò via il resto degli investigatori, lasciandosi dietro Scott Magness, il maggiore Correa e la seconda richiesta dei paracadutisti: una grossa sega elettrica. I paracadutisti usarono la sega elettrica per aprire una pista d’atterraggio lunga a sufficienza perché un piccolo aereo potesse atterrare e portarli via.
Conclusa la missione il gruppo ufficiale mandò un messaggio radio attraverso trentasei miglia di foresta al campo principale a Lagoa Grande: «Missione conclusa. Tutte le persone morte. Riconoscimento impossibile, corpi seppelliti, alcuni effetti personali recuperati».
«Alcuni effetti personali recuperati». Sulla mia sedia a Miami, mi sentii umiliato. Non avevo ancora considerato le vere persone, e ciò che apparteneva loro, al centro della tragedia. La successiva busta d’archivio che aprii rese impossibile evitarlo.
C’era scritto: «Oggetti recuperati dal volo 202». Conteneva una banconota semidistrutta da cinque franchi, un paio di lettere di posta aerea e un itinerario di viaggio mai completato.
Il denaro, scoprii più tardi, apparteneva probabilmente a Lucie Marie Claudie Pardieu. Era una suora francese dell’ordine del Sacro Cuore, di ritorno da un convento in Uruguay. C’era una lettera della madre superiora che autorizzava la PanAm a seppellirne i resti.
Anche le lettere erano commoventi. In una Richard temple, in Giamaica, scriveva a Lucy Wood, a Buenos Aires, per scusarsi di non avere mandato il piccolo Anthony (loro figlio) con un aereo per passare le vacanze a Buenos Aires. «So che devi essere terribilmente dispiaciuta, ma sono sicuro che capirai». Il ragazzo era malato, e il dottore aveva avvisato che la sua appendicite poteva aggravarsi. La malattia di Anthony potrebbe averlo salvato, poiché non era anche lui sul volo. Tristemente può anche darsi che abbia perso l’occasione di vedere sua madre per l’ultima volta. La lettera era fra i molti oggetti appartenenti a Lucy trovati sul relitto, compreso un passaporto canadese, un certificato di buona condotta del governo argentino, e due valigie. «Cinque teste di coniglio di cotone» e «giocattoli» erano anche fra gli oggetti recuperati dagli investigatori. Mi chiesi se fossero regali che Lucy portava ad Anthony.
La lista di oggetti recuperati dagli investigatori era un’istantanea dei lavoratori, i bambini e i ricchi viaggiatori che morirono insieme – giocattoli, un rullino spaccato di pellicola Kodak, una spilla di una hostess e la sua tessera sindacale, passaporti uruguaiani, brasiliani, argentini, canadesi e inglesi, migliaia di dollari in travellers cheques, biglietti da visita, un orologio d’oro, una collana di perle, la foto di una ragazza…
C’era anche l’itinerario di viaggio della vacanza di un mese del signore e della signora Heinel. Avevano viaggiato per New Orleans, Rio de Janeiro e San Paolo, pernottando in vari alberghi di lusso in camere con «letto matrimoniale e bagno». Avevano preso un traghetto per Rio de Janeiro e passato qualche giorno godendosi la «meravigliosa città» e prendendo la funivia per il Pan di Zucchero. A Trinidad si aspettavano un giro con «autovettura privata con chaffeur-guida che parla inglese […] attraverso boschetti di alberi del cacao, della noce moscata e del caffè, vedendo di passaggio il Grande Samaan [una albizia, NdRufus], l’albero più famoso delle Indie Occidentali».
Non videro mai il Grande Samaan. Il volo 202 si fermò lungo il percorso.
Erano le quattro e mezzo del pomeriggio e l’archivio stava per chiudere. Posi con gentilezza di nuovo nella loro scatola questi delicati documenti, ammuffiti per avere giaciuto a lungo nel cuore dell’Amazzonia. L’amichevole bibliotecario, Steven Hersh, lo mise da parte cosicché potessi continuare a leggerli la mattina dopo.
Presi l’ascensore e uscii in un fragrante pomeriggio di Miami. Entrai nella mia macchina e cominciai a guidare senza direzione per Miami. Mi chiesi se mi potessi imbattere nel bar e ristorante Il faro. Se lo avessi fatto volevo ordinare un bourbon, liscio, e chiedere dei fiammiferi.