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Giornate indimenticabili

Perfect day (Fernando León de Aranoa, Spagna 2015)

C’è un posto dove si buttano cadaveri nei pozzi per inquinare l’acqua.

Uomini, non animali, perché il bestiame in guerra è troppo importante per l’alimentazione e quindi non può essere sprecato.

Così, in un qualche giorno del 1995 in una qualche parte non meglio identificata della Bosnia, spiega con aria saggia Mambrú, capo della sicurezza dell’immaginaria ONG Aid across borders, a Sophie, giovanissima cooperante al suo primo cadavere.

In realtà non è proprio così: perché ben presto scopriamo che la regola non vale per le mucche, ammazzate in mezzo alla strada e lasciate di là per costringere le auto a passare sul campo minato.

In questo 1995 nel quale la guerra sta per finire e tutto è avvolto in una strana rassicurante bambagia ovattata  – nella quale però la tragedia può sempre esplodere da un momento all’altro – le regole non valgono: tutto ha una sua logica inesorabile ma del tutto incomprensibile, come le strade che continuamente il film ci propone, che serpeggiano fra burroni intransitabili – o campi minati – si avvolgono su se stesse, tornano indietro e ripartono come concepite da un ingegnere ubriaco. Logiche chiarissime ai locali, peraltro: come quando con molta calma gli avventori di uno spaccio argomentano che se qualcuno ha buttato un corpo in un pozzo una ragione ci dev’essere e, non sapendola, è meglio lasciare il corpo dov’è (una scena che, uhm, avrebbero potuto pure girare in qualche bar della Sardegna).

Lungo queste strade e queste logiche incomprensibili si muove la squadra dei cooperanti, per i quali il compito apparentemente semplice di cavare un cadavere dal pozzo si trasforma ben presto in un’epopea labirintica degna dei viaggi di Ulisse o di Teseo, fra civili minacciati o minacciosi, gente che se ne approfitta o che è sfruttata, i sottili confini del conflitto che non è mai lecito attraversare e le bizantine liturgie dei militari dell’ONU.

Chissà perché quando si parla della Bosnia e dei caschi blu dell’ONU questi ci fanno sempre una brutta figura.

Chissà perché.

A distanza di vent’anni dal conflitto de Aranoa non ripete la denuncia cruda e disperata di Danis Tanović in No man’s land e sceglie un punto di vista esterno e privilegiato per definizione, quello dei cooperanti internazionali i quali, pur compromessi con la situazione – certo molto più compromessi dei serafici caschi blu – sanno sempre di avere il biglietto d’uscita già pagato.

Se da un momento all’altro non ci lasciano inavvertitamente la pelle, peraltro: magari un ragazzino improvvisamente tira fuori la pistola, o due che fanno la borsa nera si stufano di sentirsi dire che l’acqua non si può vendere. O sbagli il lato della mucca dal quale si può passare.

Perfect day è molto criticabile per tante cose che non ci sono: non si capisce bene chi ha combattuto e perché, per esempio. La tragedia è tante volte appena accennata: non elusa, ma sembra sempre che de Aranoa se la cavi per il rotto della cuffia dal cadere nella superficialità. Manca un po’ di più di humour nero, o di cattiveria.

Ma Perfect day è notevole per tutto quello che invece de Aranoa riesce a farci stare, che è troppo per essere elencato davvero: una riflessione sulla guerra al livello micro e il ricordarci che la guerra nella ex Iugoslavia, così spesso rimossa, c’è stata e che cosa è stata, per cominciare.

Una riflessione sulla cooperazione internazionale, il suo senso e la vita di coloro che la fanno, per esempio. Con delle strane conclusioni – eppure molto credibili – sul curriculum necessario per lavorarci: probabilmente una laurea in relazioni internazionali, per cominciare. Un certo savoir faire e un certo tanto di diplomazia. Saper padroneggiare il rischio del burn out. Un fisico resistente all’alcool. La capacità di saper cavare un cadavere dal pozzo, probabilmente. Un paio di divorzi, già passati o all’orizzonte. Ridere mentre sturi una latrina. Ridere mentre sturi mille latrine, ancora. Non perderti davanti a Olga Kuryelenko. Saper evitare di prendere a pugni un casco blu dell’ONU, perfino più difficile che corteggiare la Kurylenko.

E infine de Aranoa ci mette una riflessione sul senso della vita, dell’impegno e tutto quanto: siamo qui, chissà per quanto, e nel frattempo che facciamo, stiamo fermi? E se ci muoviamo, da che parte della mucca passare? E se passiamo e alla fine arriviamo da qualche parte, a cosa è servito? Valeva davvero la pena? E muoversi non comporta invece il perdersi, come il cooperante B (un grandioso Tim Robbins) che non sa nemmeno più cosa – non dove – sia “casa”?

La risposta è “quarantadue”, ovviamente.

Quarantadue mucche. Se vedrete il film sarete d’accordo con me.

Non è poco, come vedete, ed è proposto per di più in maniera davvero divertente, anche se l’umorismo è piuttosto soffuso e sul momento non sembra colpire a fondo per ritornare invece più tardi, nel ricordo.

Un’ultima discussione meriterebbe il cast, che vede tutti bravissimi e in parte, anche se curiosamente incredibili: non sono mai stato su un campo di battaglia ma ho bazzicato un po’ di organizzazioni e ONG e devo dire che una concentrazione di sex symbol come Benicio del Toro, Mélanie Thierry e la citata Kurylenko non mi è mai capitato di incontrarla. Posso essere stato sfortunato io, naturalmente, ma insomma non credo e per quanto i tre possano essere un gran bel vedere un pochino stonavano, soprattutto le due ragazze.

Non che mi lamenti, naturalmente. Qual è il prossimo film con la Kurylenko?

 

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