Macbeth in slow motion
Lo so che parlo spesso di Shakespeare, ultimamente: è una coincidenza, abbiate pazienza.
Quel bisogno di stupire
Ho visto la settimana scorsa il Macbeth di Justin Kurzel.
Mettere in scena Shakespeare, soprattutto al cinema, è un po’ come fare il regista dell’opera lirica: anche solo per distinguersi è necessario interpretare, quindi gli spostamenti di ambientazione o
le messe in scena sorprendenti abbondano, considerato che libretto e musica sono grosso modo sacri e intoccabili (e in ogni caso la musica è affare del direttore, non del regista). Sono quelle operazioni per le quali si ambienta una Carmen durante la guerra civile spagnola, per esempio, o L’elisir d’amore in uno stabilimento balneare di Rimini; oppure, per andare al cinema scespiriano, vale la pena di ricordare il Romeo + Giulietta di Luhrmann (che sembrava Miami Vice) o il Riccardo III di Loncraine, ambientato negli anni ’20 e tutto pieno di simbologie che rimandavano ai regimi totalitari dell’epoca… però parlato nell’originale inglese elisabettiano.
Sono operazioni – sia nella lirica che per Shakespeare – che hanno il problema che spesso ciò che dicono gli attori confligge con quanto invece si vede, generando una qualche forma di dissonanza cognitiva nello spettatore: Luhrmann per esempio faceva delle acrobazie mica male per piegare il testo alle sue esigenze, fino a ipotizzare che le pistole che usavano i personaggi fossero prodotte da marche come Spada o Pugnale, dato che appunto i suoi Romeo, Marcuzio e gli altri usavano armi da fuoco rispetto alle spade dell’originale. Anche il monologo L’inverno del nostro scontento con cui si apre il film di Loncraine è meraviglioso, un gran pezzo di sceneggiatura con un McKellen splendido fra i microfoni di una festa di gala e il bagno della sala da ballo, a cui si può perdonare l’incongruo riferimento di passaggio ai destrieri corazzati dei guerrieri medievali; poi però nel seguito le acrobazie cominciano a scarseggiare, i pezzi di bravura non bastano più e l’effetto è un po’ quello di un film che tentasse di rendere credibile il fatto che gli abitanti di Roma di oggi parlino in latino: alla fine fine, semplicemente non si può. D’altra parte dopo che il Riccardo III l’ha fatto Laurence Olivier qualche cosa te ti devi inventare.
C’è in realtà un altro grande interprete scespiriano che si può usare per un utile confronto, ed è Kenneth Brangh. Il quale ha avuto inizialmente successo con le sue trasposizioni al cinema degli allestimenti che proponeva in teatro non solo perché è bravo (ed è molto bravo) ma perché sia l’Enrico V che Molto rumore per nulla riuscivano a attualizzare Shakespeare cinematograficamente, cioè sfruttando tutte le forme espressive tipiche del mezzo e rinunciando alla messa in scena sorprendente tipica del teatro: il cinema crea nello spettatore una immedesimazione nel racconto tutta diversa, e l’allestimento cinematografico di un’opera teatrale dovrebbe tenerne conto. Sotto questo punto di vista l’Amleto di Branagh, per quanto magari imperfetto, è un monumento di bravura, che riesce a proporre una lettura integrale del testo all’interno di un discorso cinematografico coerente che giustifica anche lo spostamento di ambientazione dal Rinascimento originale al XIX secolo. Peccato che nel prosieguo Branagh si sia perso: in Pene d’amor perdute e Come vi piace tutto il modo di proporre le commedie è affidato, ancora una volta, solo a una trasposizione temporale e di ambientazione (perfino il Giappone Meiji, figuriamoci) e i due film non funzionano, grosso modo. Non a caso Branagh per un bel po’ ha lasciato da parte Shakespeare e quando ci si è riavvicinato ha scelto di rigenerarsi in teatro (col Macbeth, guarda caso).
Macbeth (Justin Kurzel, UK/FR/USA, 2015)
Kurzel si muove apparentemente per il suo Macbeth sul solco di una scelta intermedia fra Branagh e Luhrmann: l’ambientazione è una Scozia medievale realistica – o almeno credibile – e la vicenda e l’ambientazione sono raccontate attraverso scelte che sono cinematografiche, traendo il massimo beneficio dall’immedesimazione dello spettatore e dalle opportunità fornite da uno schermo panoramico.
Il tutto con un linguaggio che, più ancora di quello del Branagh di Molto rumore per nulla, che era molto sexy, è pienamente da XXI secolo: un linguaggio visivamente adatto a un pubblico che ha visto Game of thrones oppure Spartacus; in questo senso sono magnifiche le scene della battaglia iniziale e l’incendio della foresta, per esempio. Va in questo senso anche, credo, il lavoro sugli attori, soprattutto sul piano fisico: Fassbender è molto bravo e lavora, o viene fatto lavorare, sulla presenza più ancora che sulla capacità di porgere il testo – ne emerge come un personaggio colossale e, direi, come il nuovo Russell Crowe (se questo sia un merito o meno lo lascio a voi: per me lo è).
Il problema è che si tratta di una interpretazione della vicenda che è tutta estetica, e che entra poco nella interpretazione dei significati della storia raccontata da Shakespeare. Macbeth è tutto giocato sull’ambiguità – a partire dallo scherzo atroce che le streghe giocano a Macbeth – e sulle transizioni dei personaggi: da Furia a donna tormentata, da vassallo fedele a traditore, e un’altra dozzina di evoluzioni dei personaggi che non sempre è facile capire fin dove arrivino. A teatro lo spettatore è informato di quale interpretazione dell’ambiguità diano regista e attori dalle scelte di recitazione che sono immediatamente visibili, al cinema servono strumenti diversi, che qui non vengono messi in campo: sembra che Kurzel si accontenti di lavorare sulla confezione, e non sul contenuto.
E sebbene lavori anche sul testo, tagliando qui e là, accorpando alcune cose e, se non ho sbagliato, anche posponendo alcuni passaggi, rimane sostanzialmente fedele all’originale, quando forse una scelta di lavoro così caratterizzata sui linguaggi espressivi avrebbe richiesto più di fare un lavoro “ispirato a Shakespeare” che non di portare al cinema “il Macbeth di Shakespeare”.
Non averlo fatto vanifica, alla fine, la scelta apparentemente realistica dell’ambientazione scozzese: se lo spettatore deve provare la solita dissonanza cognitiva tanto valeva ambientare il Macbeth fra i marine spaziali, per dire (ehi, questa sì che sarebbe un’idea…).
I nodi vengono al pettine nelle scene finali del duello fra Macduff e Macbeth: meravigliosa scelta estetica del sangue che viene versato, rosso, in mezzo al rosso dell’incendio. Bellissimo. Ma gli attori dicono cose che non corrispondono a ciò che fanno, come burattini, e davvero pensi: «Gli bastava così poco, che peccato».
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