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La dirittura morale di Google

Il mio amico Domenico Licheri mi manda spesso autentiche perle della stampa inglese, che io non riesco mai a passare qui sul blog (è da maggio scorso, per esempio, che sto preparando il racconto di una storia bellissima di integratori energetici e femminismo).

Quella che segue è la traduzione di un articolo dell’Independent che commenta satiricamente un accordo fra Google e il governo inglese che pone termine a una controversia su una possibile evasione fiscale del colosso americano: Google ha accettato di pagare 130 milioni di sterline (più o meno 170 milioni di euro) che non è proprio pochissimo: ma i laburisti ritengono che sia pari più o meno al 3% di quel che si poteva esigere, e quindi sostanzialmente un accordo di favore. Vedo che un’organizzazione indipendente sostiene che Google dovrebbe pagare più o meno duecento milioni di sterline all’anno e considerato che questo accordo copre una decade, forse qualche ragione c’è.

Ho tradotto l’articolo perché ha un’ironia irresistibile che va molto oltre Google e e riguarda il potere delle grandi multinazionali e le complicità dei governi, ma quello che fa più ridere è uno dei commenti: siamo i pagliacci d’Europa: gli italiani si sono fatti pagare molto di più, loro sì che sono gente seria.

Gli italiani. Loro sì che… Ho le vertigini.

Nella traduzione ho sostituito alcuni riferimenti tipici della cultura inglese con altri nostrani: non si citava “birra e patatine” ma una roba di cavolo fritto ripieno, per esempio, e mi sembrava lungo spiegare ogni volta. Si cita anche una coraggiosa famiglia inglese che ha portato il governo in tribunale e ha vinto: vi ho messo il link per farvi un’idea della storia. L’immagine sotto il titolo è quella usata dall’Independent e ritrae l’amministratore delegato di Google (in realtà Alphabetic).

Google ha un dovere morale, direi spirituale, di pagare il meno tasse possibile

di Mark Steel

Google CEOQuanto è semplice il nuovo sistema di imposizione fiscale escogitato dal Governo. Invece di compilare moduli complicati, i dirigenti di multinazionali come Google vanno a cena con dei ministri alla vigilia dell’accordo con i funzionari del Tesoro e buttano là come per caso quanto gli piacerebbe pagare. Una volta che questo procedimento sarà esteso al resto di noi sarà assolutamente efficiente. Lavavetri e idraulici incontreranno l’ispettore al bar di Harry per birra e patatine, gli daranno ottanta sterline in pezzi usati da cinque e gli diranno: «Tieni, tesoro: prenditici quello che vuoi».

Poi potremo provarlo per tutte le transazioni economiche. Potrete andare al negozio di bricolage, prendervi un po’ di assi di legno e un paralume che vi piace e un paio d’anni dopo restituirgli un KitKat.

Non possiamo sapere esattamente ciò che il Servizio Tasse e Dogane di Sua Maestà ha concordato con i capi di Google perché il Governo si rifiuta di dirlo, perciò può darsi che gli abbiano ceduto un frigo che dovevano buttare perché aveva bisogno di una nuova maniglia o una collezione di almanacchi di Topolino che avevano scovato in uno sgabuzzino. Forse hanno anche dato agli esattori gli spaghetti alla carbonara [in italiano nel testo, vi ricordo che in Inghilterra li fanno con la panna, mio Dio, NdRufus] avanzati da martedì scorso che dovrebbero essere commestibili se si grattano via i pezzetti verdi, e così sono a posto anche per il prossimo anno fiscale.

Gli ispettori hanno ammesso che Google non aveva granché da pagare in Inghilterra perché non possiede, qui, una «sede permanente». Ha uffici con più di mille impiegati, dotati anche di un cinema e di orti urbani, ma questo certo non indica permanenza – tutti ci portiamo dietro roba del genere anche quando stiamo solo facendo un giretto. Anche dopo che i dirigenti hanno fatto costruire tutto il complesso quando gli si chiedeva se volevano una tazza di the rispondevano: «No grazie, mi fermo solo un momento».

Quella inglese, dicono, è solo una sede sussidiaria, mentre la vera sede è in Irlanda, cosa che gli permette di iscriversi all’albo della aziende delle Bermuda, dove le compagnie a malapena pagano le tasse. Sebbene forse hanno solo registrato la compagnia nelle Bermuda perché sono ben dotate d negozi. Potrebbe anche essere che si siano decisi per le Bermuda per mettere alla prova per bene il loro motore di ricerca. Dato che nelle Bermuda spariscono perfino navi e aerei se Google può scoprire da là chi ha vinto il Gran Premio di trotto del 1965 questo prova che i suoi sistemi reggono nelle peggiori condizioni.

L’amministratore delegato di Google, Eric Schmidt, ha mostrato perché gli uomini d’affari moderni sono adatti a essere i personaggi di riferimento della società quando ha dichiarato di essere «orgoglioso» del modo con il quale la sua azienda evita di pagare le tasse, spiegando: «Si chiama capitalismo. Noi siamo orgogliosamente capitalistici» e ha aggiunto di avere «un dovere morale nei confronti degli azionisti».

Quindi Google ha un dovere morale, quasi spirituale, di pagare meno tasse possibile. È rincuorante vedere uomini di potere rimanere fedeli ai loro principi, a differenza di quella gentaglia che paga le tasse tutte intere e della feccia che dà il proprio totale contributo per finanziare le scuole e gli ospizi per gli anziani, o i monaci francescani e quegli altri sociopatici che vivono la loro intera vita senza mai trasferire qualche miliardo alle Bermuda per i propri azionisti. Casomai Google è stata un po’ timida, perché avrebbe potuto iscriversi al registro delle aziende di quel nuovo pianeta appena scoperto, dove – almeno per ora – non c’è nessun sistema fiscale.

Il ministro del Tesoro George Osborne ha definito l’accordo un «enorme successo» poiché ha portato nelle casse dello Stato più denaro di prima, quando era nulla. Si tratta di un approccio economico innovativo da parte di un ministro del Tesoro: qualunque accordo finanziario è un enorme successo fin tanto che porta a incamerare qualcosa in più di nulla. Se lavorasse da un concessionario d’auto potrebbe dire al proprietario: «Ho avuto un altro enorme successo. Ho venduto una Aston Martin per una sterlina, che è sicuramente meglio di niente».

Avendo rivendicato l’accordo con Google come un trionfo per il Governo, Osborne è parso cambiare idea più tardi, quando ha insistito che questo non aveva niente a che far con il Governo essendo stato gestito completamente da funzionari fiscali e «non da ministri». È pertanto un enigma perché Google abbia avuto ventiquattro incontri con ministri del Governo, compresi Jeremy Hunt, Theresa May, metà del Governo e Osborne stesso.

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