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A Montecitorio

Questo rivangare nei ricordi risale a tre anni fa, sulla lista del gruppo La Pira: l’ho trovata un po’ perché recentemente mi è capitato di pensare alle mie vecchie esperienze da obiettore, un po’ perché Banca Etica si avvicina di nuovo all’Assemblea, un po’ perché cercavo altra roba sull’hard disk. La ripubblico perché comunque è in tema con alcune altre cose, e poi perché il finale, ancora a distanza di tre anni, mi ha fatto ridere.

***

Era la primavera dell’87, credo. Io e Mauro Scano, tutti e due obiettori della Caritas di Cagliari, stavamo seduti con una trentina di altri ragazzotti pacifisti nell’ufficio centrale della Caritas, davanti alla Basilica di San Paolo. In piedi, con l’aria molto carismatica, don Bruno Frediani ci disse papale papale che era impossibile che la Caritas appoggiasse la campagna nazionale per ridurre la durata del servizio civile equiparandola a quella del servizio militare. «Se lo facessimo», disse, «Spadolini ha minacciato di far saltare la firma del Concordato». Roberto Falciola, massimo esperto vivente della vita di Alberto Marvelli e futuro vicepresidente nazionale dei giovani di AC, che tutti riconoscevamo come leader degli obiettori Caritas, fece un sospiro disilluso. Sono sicuro che mentalmente fece alcune considerazioni su Frediani, ma Roberto era un gentiluomo e non disse niente.

Alla fine della riunione io e Mauro Scano ci alzammo, uscimmo e, alla prima cabina telefonica, chiamammo Giovanni Berlinguer per un consiglio, che ricevemmo. Riattaccammo e andammo difilato a Montecitorio, dove il segretario di Edo Ronchi, allora semi-sconosciuto deputato verde, era il segretario della LOC, la lega nazionale degli obiettori di coscienza – e un amico.

Io ero vestito in giacca e cravatta, non il modo migliore di vestire per chi viaggia in nave, con un orrendo panciotto cammello che è sempre piaciuto molto al mio amico Giuseppe Puddu, per motivi incomprensibili; Mauro aveva il chiodo e la kefiah. Giuseppe, che ci aveva raggiunto, era vestito un po’ da paninaro. I commessi di Montecitorio ci guardarono male ma non sollevarono obiezioni su nessuno di noi.

Montecitorio ci apparve un labirinto. Nella nostra ingenuità credevamo si entrasse dalla porta principale: in realtà uffici, sedi e sale sono sparsi su diversi isolati, collegati da un intrico di gallerie, sottopassaggi, cortili, quindi facemmo dei bei giri. Era sporco e fumoso (nei miei ricordi tutti gli anni ’80 sono sempre sporchi e fumosi), e lo scenario della nostra piccola congiura fu una saletta del gruppo Verde, con gente che passava da tutte le parti. La LOC fece uscire un velenoso comunicato stampa, Ronchi fece, credo, una interrogazione parlamentare, Spadolini smentì senza troppa convinzione, la Caritas smentì con molta indignazione, e la vicenda della durata del Servizio Civile fece l’ennesimo giro di valzer – di fatto, venne risolta non in via politica ma giudiziaria, da una sentenza epocale della Corte Costituzionale… ma quella è un’altra storia.

Essendo quindi stato a Montecitorio in quella occasione, confesso che il luogo non rappresentava per me nulla di speciale; è stato quindi con una certa sorpresa che, annunciando in famiglia di dovere andare a un seminario di Banca Etica alla Sala delle Colonne della Camera, ho notato un’agitazione imprevista. Mia mamma si è raccomandata che mi vestissi bene, mi rasassi e mi tagliassi i capelli; mia zia ha telefonato, prima per sapere se era vero e dopo per sapere come fosse andata… altri soggetti vari si sono raccomandati sul fatto che mi portassi la giacca e la cravatta. Io osservavo questa ansia con una certa incomprensione, come la volta che ho viaggiato a fianco a Pieraccioni in aereo. «E com’è?», mi chiedevano tutti. «E come doveva essere? Uno così, uno normale…», mi veniva da rispondere.

Embé, mi sarebbe venuto voglia di dire, ma alle mamme e alle zie non ci si può rivolgere così, no? Però l’enfasi un po’ mi è rimasta addosso, e la mia giornata romana di martedì alla fine è rimasta molto segnata dalla curiosità di vedere come mi sentissi a Montecitorio, e che sensazioni provassi. Non dirò che fosse il pensiero dominante, ma certo, fra un intervento del seminario e l’altro, un colloquio e l’altro (Banca Etica si avvicina all’Assemblea elettiva, per cui c’era molto da dire e da fare), insomma, ci sono stato attento.

E quindi posso dirvi questo: quel che colpisce della Camera è l’estremo formalismo. Anni fa l’avrei preso come segno dell’importanza del luogo (allo stesso modo dell’idea che non si parla a voce alta in chiesa), avant’ieri mi ha dato fastidio. Non è tanto l’idea che alla Camera si possa entrare solo in giacca: è l’eccesso, il fatto che il poliziotto di guardia che ti controlla i documenti sia vestito come un prefetto al culmine della carriera… infatti io, ingannato, ci ho imbastito una discussione “fra impiegati pubblici” sulla validità dei documenti d’identità, per essere rapidamente rimbalzato su livelli più adatti alla discussione a un posto di blocco (dove, come è noto, NON ci si deve mettere MAI a discutere). Il formalismo è persino imbarazzante: una povera addetta è stata tutto il seminario vicino alla porta, con l’unica funzione di aprirla quando qualcuno doveva uscire: e, come in tutti i convegni, telefonini, andate in bagno e colloqui da fare al volo in corridoio hanno prodotto un via vai non da poco. E lei è stata lì assai affaccendata, sebbene la porta avesse due belle maniglie e un ottimo sistema per evitare che sbattesse, dando fastidio. Altro esempio: a un certo momento, due persone del pubblico hanno fatto domande ai relatori, a voce, stando nelle loro sedie; istantaneamente un’altra commessa si è precipitata nella saletta del service ed è tornata con un microfono per gli interventi dal posto; compito inutile, perché la sala permetteva benissimo di sentirsi e nessuno ha richiesto il suo aiuto: ma lei è rimasta là, per tutto il resto del tempo, pronta.

I luoghi, peraltro, sono bellissimi a livello commovente, molto più belli di quanto sia funzionale: non so chi sia l’architetto che ha disegnato l’arredo della Sala delle Colonne, che d’altra parte era in quell’occasione, capiamoci, una saletta che viene affittata per conferenze, ma la sala era bellissima. Bellissima. Corridoi e retroscala, viceversa, per niente. E la sensazione è che ci sia, dietro questi luoghi bellissimi, un universo di luoghi abbandonati, il cui senso si perde, luoghi di mezzo annidati negli interstizi. Fate voi, se volete, le necessarie equiparazioni: io non me la sento di spingermi fino a vedervi una metafora della politica o del potere, o, almeno, non me la sento del tutto.

Per l’ultima delle mie impressioni, che come vedete sono abbastanza peculiari, devo raccontarvi che a un certo punto ho voluto andare in bagno. Mentre scendevo le scale mi sono chiesto (lo giuro!): «E se adesso trovo i segni che qualcuno in bagno si è fatto un pistino di cocaina?». A parte il fatto che in realtà non saprei identificare i segni di consimile attività neanche se qualcuno me li sbattesse in faccia, ho avuto paura di me stesso: perché per quanto abituato a pesare le informazioni, evidentemente degli stereotipi passano e sedimentano in maniera inconsapevole. Il bagno comunque era confortevole sebbene niente di speciale; mentre sedevo lì, peraltro, ho notato una cosa che non avevo mai visto in nessun altro bagno: il sostegno per la carta igienica conteneva, allineati e perfetti, ben cinque rotoli.

La ricerca che veniva presentata e che faceva da base al seminario è pubblicata qui.

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