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Il filosofo naturale

Ne parlava su Facebook Enrico Battocchi e allora ho letto casualmente la recensione di un libro che non sarò mai in grado di capire: la mia formazione va tutta da un’altra parte e mi mancano troppe basi. Ma l’articolo, che parla di scienza, di senso della scienza, di studio della scienza e di… scienziati è davvero molto bello, bello in maniera evidente per chiunque, e quindi ho pensato di tradurlo.

Ho trovato la lettura interessante anche perché da voce, a un certo punto, a un pensiero che mi era presente da tempo ma che non riuscivo a formulare:

ci sono tre possibili “discorsi” che si possono sviluppare: dentro la scienza (opportunamente fatti dagli scienziati); fuori della scienza (opportunamente fatti dai filosofi della scienza); e contemporaneamente dentro e fuori (al quale sono invitati sia scienziati inclini alla filosofia che filosofi inclini alla scienza).

Un pensiero che ha a che fare con il disagio che provo quando sento scienziati che discutono di argomenti esterni alla scienza con la presunzione (che è in sé una fallacia logica) di trattarli come interni (soprattutto come interni alla propria singola disciplina, oltretutto, e spesso con grande spregio di ciò che non è hard science).

La fonte dell’articolo è il sito Scientia Salon, che ha nel frattempo cessato le pubblicazioni (la recensione che sto traducendo è di un anno fa). L’autore è Massimo Pigliucci, un biologo e filosofo del quale, lo ammetto, non avevo mai sentito parlare. Pigliucci ha scritto moltissimo non solo da punto di vista accademico ma anche nel dibattito pubblico, soprattutto come esponente del movimento scettico/ateo, anche se si è ora almeno in parte distaccato dalla corrente (e forse il suo disagio e il mio – che al contrario di lui sono notoriamente credente – è ciò che ci fa incontrare nell’apprezzamento di questo testo).

Dimenticavo: non ho tradotto le note bibliografiche che trovate alla fine, non solo per motivi di tempo ma anche per non correre il rischio di confondere i riferimenti dall’inglese all’italiano: laddove mi pareva che certi testi citati nella recensione fossero stati tradotti in italiano ho messo il link alla pagina di ibs.it (se poi li comprate in una libreria indipendente è meglio) ma ho lasciato la nota com’era. Ho anche controllato se il libro di cui si fa qui la recensione sia stato pubblicato in Italia e la risposta a quanto pare è no. C’è però facilmente disponibile un testo (divulgativo) di fisica di Smolin e uno di politica di Unger.

Infine, sono stato attento ma è possibile che abbia fatto degli errori di traduzione legati alla mia ignoranza della fisica e di specifici argomenti a cui si fa riferimento (per esempio per domain ho usato indifferentemente “campo” e “dominio”, senza badare al fatto che ho tradotto con “campo” anche field): se ci fossero e volete farmeli notare io sono qua (e vi ringrazio).

L’universo singolare e la realtà del tempo

di Massimo Pigliucci

Singular universe Smolin UngerHo dedicato una notevole quantità di tempo alla lettura del nuovo libro di Roberto Mangabeira Unger e Lee Smolin, L’universo singolare e la realtà del tempo: una proposta di filosofia naturale[1]. Per la verità questa recensione riguarda effettivamente la prima parte del libro, scritta da Unger, il filosofo della coppia. In seguito ci tornerò sopra con una seconda recensione, focalizzata sulla parte scritta da Smolin, il fisico. Essi sostengono la stessa tesi, ma uno vi arriva da una prospettiva ampia e filosofica e l’altro da un punto di vista più empirico e scientifico.

Si tratta di un libro ambizioso, destinato a essere fonte di controversie sia fra i filosofi che fra gli scienziati, ma vale la pena di fare la fatica necessaria, se non altro per esporre la propria mente a un modo discretamente radicale di concepire la metafisica, la fisica e la matematica – e questo nonostante il fatto che la prima parte, scritta da Unger, sia piuttosto lenta e ripetitiva in confronto al contributo di Smolin.

Prima di addentrarci in ciò che gli autori si propongono di compiere, vale la pena di discutere un presupposto più basilare del libro: essi lo vedono come un esercizio in ciò che chiamano (una forma rinnovata di) filosofia naturale. Ovviamente filosofia naturale era il termine che si utilizzava per la scienza prima che divenisse un campo di indagine indipendente dalla filosofia in se stessa. Cartesio, Galileo, Newton e perfino Darwin consideravano se stessi come filosofi naturali (la parola scienziato, di fatto, fu inventata dal mentore di Darwin, William Whewell, nel 1832[2]). Ma qual è il senso di tornare all’antico termine, a parte un pizzico di nostalgia storica e forse di presunzione intellettuale?

In realtà Unger & Smolin (d’ora in poi U&S) argomentano in modo molto convincente a suo favore, a partire dall’osservazione che molti loro colleghi si sono in effetti cimentati, spesso furtivamente o forse senza accorgersene, esattamente in questo tipo di attività. Può darsi che abbiate notato nel corso degli anni recenti la comparsa di un certo numero di libri, scritti da scienziati e apparentemente indirizzati al grande pubblico, che a un esame più attento si rivelano essere un po’ come quei deliziosi film di questi tempi della Pixar o della Disney: produzioni con un doppio registro, nelle quali il più immediato e facilmente accessibile è indirizzato al pubblico infantile, inframezzato da battute più sofisticate che solo gli iniziati (cioè gli adulti, per quel che riguarda i film) capiscono e apprezzano. Queste incursioni nella filosofia naturale, secondo U&S, sono state scritte da scienziati che non vogliono rivolgersi solo a un pubblico non specialistico ma anche ai propri colleghi, fuori dal formalismo rigido e vincolante delle peer review. Pensate a questi libri come a dei lunghi editoriali che gli scienziati (in parte) si rivolgono gli uni gli altri per influenzare l’ordine del giorno dei propri rispettivi campi.

Il punto mi colpisce come assolutamente preciso e mette in una nuova luce un certo numero di libri che ho letto (e forse alcuni che ho scritto?) lungo gli anni. Per esempio, posso considerare esponenti di questo nuovo genere Not even wrong di Peter Woit (sulla teoria delle stringhe)[3]; The mating mind di Geoffrey Miller (sulla selezione sessuale umana)[4]; Capital in the twenty-first century di Thomas Piketty (sull’economia)[5]; Guns, germs, and steel di Jared Diamond (sull’evoluzione sociale)[6]; The plausibility of life, di Marc Kirschner e John Gerhart (sull’evoluzione della teoria evoluzionistica)[7], fra molti, molti altri. Addirittura si potrebbe sostenere che l’approccio risalga addirittura allo stesso L’origine delle specie di Darwin, che ebbe la gradevole sorte di essere scritto per altri naturalisti e tuttavia di andare a ruba presso il grande pubblico fin dal primo giorno di uscita.

Unger descrive il fenomeno in questo modo:

Oggi la filosofia naturale non è completamente scomparsa. Vive sotto mentite spoglie. Gli scienziati scrivono libri di larga diffusione per il grande pubblico istruito, ufficialmente per rendere le proprie idee riguardanti la scienza che praticano accessibili ai non scienziati. Essi usano questi libri per interrogarsi a proposito del significato più ampio delle loro scoperte riguardo alla nostra comprensione dell’universo e del nostro posto in esso. Tuttavia hanno anche un altro pubblico: i loro colleghi nella scienza, a cui si rivolgono col pretesto della divulgazione (pag. 82)

È opportuno chiarire che U&S (come anche io) non pensano nemmeno per un attimo che gli scienziati in questione stiano facendo qualcosa di losco o intraprendendo una campagna pubblicitaria mascherata. Al contrario ciò che gli autori vogliono fare è rendere la tendenza evidente e approfittarne per promuovere la loro propria agenda a proposito di fisica e cosmologia. Trovo l’intera idea molto corroborante, a prescindere dal fatto che io finisca o meno per concordare con le specifiche opinioni di U&S.

Unger identifica quattro indicatori di filosofia naturale (pagg. 75-7)

La sua prima caratteristica è di considerare la natura come il proprio argomento: non la scienza, ma il mondo stesso. Si cimenta nel dibattito riguardante le direzione e la pratica della scienza solo come parte di un più ampio dibattito sulla natura. L’oggetto prossimo della filosofia della scienza, così come oggi è compresa e praticata, è la scienza. L’oggetto prossimo della filosofia naturale è, ed è sempre stato, la natura. … Una seconda caratteristica della filosofia naturale è di mettere in discussione gli obiettivi del momento o i metodi comunemente accettati delle specifiche scienze. Fa così da una certa distanza piuttosto che dall’interno della scienza. … Un terzo elemento della filosofia naturale, così come la descriviamo qui, rappresenta una rottura con la gran parte del modo con il quale i filosofi naturali consideravano il proprio lavoro quando la filosofia naturale era un genere generalmente accettato. Noi affrontiamo problemi che sono sia di base che generali. Lo facciamo, tuttavia, senza dipendere da idee metafisiche all’esterno o al di sopra della scienza. … Una quarta caratteristica della filosofia naturale, così come qui la interpretiamo e tentiamo di ristabilirla, è che, dato che si intromette nella discussione sugli obiettivi della scienza naturale, essa attenua la chiarezza del confine fra un discorso dentro la scienza e un discorso circa la scienza.

Io penso che qui Unger sia un tantino ottimista circa la possibilità di non dipendere da idee metafisiche all’esterno o al di sopra della scienza ma in altre parti del suo contributo al libro sembra sostenere un obiettivo più modesto (e sicuramente raggiungibile): evidenziare gli (inevitabili?) appoggi metafisici di una scienza e ridurli al puro e giustificabile minimo.

Mi piace la distinzione che qui si traccia fra filosofia naturale e filosofia della scienza, basata sull’idea che ci sono tre possibili “discorsi” che si possono sviluppare: dentro la scienza (opportunamente fatti dagli scienziati); fuori della scienza (opportunamente fatti dai filosofi, della scienza); e contemporaneamente dentro e fuori (al quale sono invitati sia scienziati inclini alla filosofia che filosofi inclini alla scienza). Potrei dover cambiare la targa sulla porta del mio studio con Filosofo Naturale.

Ammesso tutto quanto precede come premessa, che cosa è esattamente che U&S sostengono, e su quali basi? Qui utilizzerò ampiamente l’introduzione del libro, comune a entrambi i separati contributi di Unger e Smolin, e inserirò le mie osservazioni dove mi sembra opportuno.

U&S presentano tre idee fondamentali all’attenzione dei loro lettori:

La prima idea è la singolare esistenza dell’universo. … C’è un solo universo alla volta, con le precisazioni che presentiamo. La cosa più importante riguardo al mondo naturale è che è ciò che è e non qualcos’altro. Questa idea contraddice la nozione di un multiverso – di una pluralità di universi contemporaneamente esistenti – che è stata talvolta utilizzata per far passare l’incapacità della fisica di spiegare certe cose come la sua capacità di spiegarle (pag. X).

Tutto quel che ho da dire, con buona pace del mio amico Sean Carroll e di un certo numero di altri fisici e cosmologi, è: amen! U&S spiegano che non c’è nessun particolare motivo per credere nel multiverso, che l’idea è empiricamente non verificabile e perciò non scientifica (si, sono consapevoli delle pretese in senso contrario, e le affrontano) e che l’intero concetto è una copertura metafisica (nel senso negativo del termine) di ciò che considerano l’attuale fallimento dei modelli cosmologici.

La seconda idea è la realtà inclusiva del tempo. Il tempo è reale. Addirittura, è la dimensione più reale del mondo, con cui intendiamo che è l’aspetto della natura del quale abbiamo più motivo di dire che non emerge da nessun altro aspetto. Il tempo non emerge dallo spazio, sebbene lo spazio possa emergere dal tempo (pag. XI)

Essi spiegano che questo convincimento deriva dal prendere con serietà ciò che essi considerano (giustamente, credo) la scoperta più fondamentale della cosmologia nel ventesimo secolo: che l’universo ha una età. Questa scoperta, sostengono, è incompatibile con l’idea spesso ripetuta che il tempo è relativo e che non vi è alcuna sua misura privilegiata. Prima che mi lanciate addosso la relatività generale, pensate che questi due sanno quel di cui stanno parlando. Sono perfettamente  a conoscenza della teoria di Einstein e la affrontano coerentemente, da un punto di vista filosofico nella prima parte del libro e scientifico nella seconda. Non rifiutano la relatività generale, respingono semplicemente ciò che pensano siano estrapolazioni metafisiche non necessarie di ciò che i fisici hanno preso per assodato me che può essere messo in discussione alla luce dei dati empirici che vanno apparendo nella cosmologia.

La terza idea è il realismo selettivo della matematica (usiamo “realismo” qui nel senso di di relazione con l’unico mondo reale, in opposizione con ciò che è spesso descritto come Platonismo matematico: una credenza nell’esistenza reale, separata dalla natura, di entità matematiche). Attualmente le concezioni dominanti di ciò che la più basilare scienza naturale è e può divenire sono state formate nel contesto di credenze riguardanti la matematica e le sue relazioni con sia la scienza che la natura. Le leggi di natura, la scoperta delle quali è stato il supremo fine della scienza, si suppone siano scritte nel linguaggio della matematica (pag. XII)

Ma non lo sono, perché non ci sono “leggi” e perché la matematica è una (molto utile) invenzione umana, non un misterioso sesto senso capace di investigare una realtà più profonda di quella empirica. Naturalmente questo richiede di essere sbrogliato un po’. Inizierò con la matematica per poi spostarmi al problema delle leggi naturali.

Io stesso, fino a tempi recenti, sono stato stuzzicato dal Platonismo matematico[8]. È un’idea avvincente, che dà un senso alla «irragionevole efficacia della matematica» come disse in maniera indimenticabile Eugene Wigner[9]. È una posizione condivisa da un buon numero di matematici e di filosofi della matematica. È basata sulla forte sensazione istintiva che i matematici hanno che loro non inventano le formalizzazioni matematiche, ma le scoprono, in un modo analogo a ciò che fanno gli scienziati empirici con le forme del mondo esterno. È inoltre sostenuto da un’argomentazione analoga alla difesa del realismo a proposito delle teorie scientifiche e proposta da Hilary Putnam: sarebbe poco meno che miracoloso, ha suggerito, se la matematica fosse la creazione arbitraria della mente umana e tuttavia una volta dopo l’altra si dimostra spettacolarmente utile agli scienziati[10.]

Ma ci sono, naturalmente, anche (più?) potenti controargomentazioni, che sono in parte discusse da Unger nella prima parte del libro. Tanto per cominciare, l’intera questione puzza un po’ troppo scomodamente di misticismo: dove, esattamente, si trova il reame degli oggetti matematici? Qual è il suo stato ontologico? A maggior ragione, e in collegamento, com’è che gli esseri umani hanno in qualche modo sviluppato questa sconcertante abilità di accedere a quel reame? Noi sappiamo come possiamo avere accesso, sebbene imperfettamente e indirettamente, al mondo fisico: abbiamo sviluppato una batteria di capacità sensoriali di orientarci nel mondo per poter sopravvivere e riprodurci, e la scienza è stata una continua cerca per espandere il potere dei nostri sensi per via di strumenti sempre più sofisticati, per avere accesso a sempre più (e in maniera crescente sempre meno rilevanti alla nostra idoneità biologica) aspetti del mondo.

In realtà è precisamente questa analogia con la scienza che suggerisce con molta forza una interpretazione alternativa di taglio naturalistico della (ir)ragionevole efficacia della matematica. Anche la matematica è partita come un modo di fare cose utili nel mondo, principalmente per contare (aritmetica) e misurare il mondo e dividerlo in pezzi maneggevoli (geometria). Poi i matematici hanno sviluppato i propri attrezzi (concettuali, nel senso opposto a empirici) per capire sempre più numerosi e più sofisticati e meno immediati aspetti del mondo., in un procedimento che alla fine si è astratto totalmente da quel mondo per rispondere a domande internamente generate (ciò che oggi chiamiamo pura matematica).

U&S non negano in alcun modo la potenza e l’efficacia della matematica. Ma ci ricordano anche che esattamente ciò che la rende così utile e generale – la sua astrazione dalle particolarità del mondo, e specificamente la sua inabilità di gestire asimmetrie temporali (le equazioni matematiche in fisica fondamentale sono simmetriche rispetto al tempo, e le asimmetrie devono essere importate come vincoli imposti esternamente) – è anche ciò che la rende subordinata alla scienza empirica quando si tratta di comprendere l’unico mondo reale.

Forse il miglior esempio di questa tensione è fornito dalla retroestensione delle equazioni di campo della relatività generale, che e la base per l’affermazione – respinta da Unger e Smolin – che l’universo è iniziato con una singolarità caratterizzata da infinita massa ed energia. Essi rivoltano la cosa, sostenendo che l’impossibilità logica, così come la completa mancanza di prove empiriche, di qualunque forma di quantità infinite in natura deve invece avere la precedenza. Se la relatività generale predice quantità infinite tanto peggio per la relatività generale: vuol dire semplicemente che quella particolare teoria, come tutte le teorie scientifiche, ha uno specifico dominio di applicazione (ammettiamolo: piuttosto ampio: la maggior parte dell’universo conosciuto per la maggior parte della sua storia), oltre il quale si va in crisi (di più in seguito). Alcuni fisici, secondo U&S, commettono invece lo stesso errore degli autori (di finzione) della Guida Galattica per Autostoppisti Spaziali, che avvisano i loro lettori che in caso di conflitto fra la Guida e la Realtà, è la Realtà che ha torto…

È interessante che in altri campi della fisica sono gli stessi fisici che ben volentieri seguono il consiglio di U&S. Prendiamo, per esempio, il fenomeno emergente delle transizioni di fase[11]. Si scopre che le curve che descrivono le transizioni fra gli stati della materia sono le stesse indipendentemente dalle specificità della sostanza, che indica un fenomeno universale sottostante a questi processi. Inoltre, il trattamento matematico delle transizioni di fase di gran lunga migliore (sebbene, in maniera cruciale, non l’unico) fa riferimento, ve lo immaginate?, alle singolarità! Cioè il fisico matematico elabora le cose come se il numero delle molecole coinvolto nelle transizioni di fase fosse infinito, il che gli permette di impiegare dei formalismi matematici molto eleganti e molto maneggevoli per descrivere il fenomeno fisico. Ma naturalmente tutti sanno che è solo una idealizzazione: il numero di molecole non è mai una quantità infinita, solo molto grande. Perché, allora, fare una inversione a U nel caso specifico del Big Bang? Io penso che Einstein stesso avrebbe apprezzato un po’ più di rispetto per il dato empirico, in questo caso.

E ora passiamo alla questione delle leggi di natura. L’intera idea ha una storia controversa[12], ed è di un’annata sorprendentemente recente. Fra i primi filosofi naturali Cartesio, e poi Newton, erano sostenitori entusiastici della teoria, che naturalmente essi riferivano direttamente all’esistenza di un Dio creatore: dopo tutto se ci sono Leggi abbiamo bisogno di un legislatore di un qualche tipo. Hobbes e Galileo, al contrario, erano decisamente freddi in proposito, preferendo invece parlare di approssimazioni empiriche e generalizzazioni. Sebbene il campo cartesiano-newtoniano abbia il predominio nella fisica moderna un certo numero di filosofi prima di U&S hanno fatto notare che si tratta probabilmente di un errore che introduce un enigma (da dove vengono le leggi?) per spiegare un mistero (alcune regolarità osservate nel modo col quale l’universo funziona).

Due di questi filosofi sono Nancy Cartwright e Ian Hacking. Essi hanno pubblicato indipendentemente due libri seminali sull’argomento già nel 1983: How thelaws of physics lie (questo sì che è un titolo polemico)[13] [sarebbe La menzogna delle leggi della fisica, NdRufus] e Representing and intervening[14], rispettivamente.

In particolare secondo Cartwright le leggi della natura non sono vere descrizioni generalizzate del comportamento delle particelle, diciamo, ma piuttosto affermazioni su come le particelle si comporterebbero sulla base di modelli idealizzati. Il suo punto cruciale è che le teorie devono essere re-interpretate come modelli (empirici) idealizzati della realtà, non come (vere) mappe più o meno isomorfiche del mondo.

Cartwright distingue fra leggi fondamentali e fenomenologiche: le leggi fondamentali sono quelle postulate dai realisti, e (si suppone) descrivono la vera struttura profonda dell’universo; le leggi fenomenologiche, al contrario, possono essere usate per fare previsioni e funzionano abbastanza bene, ma sono, a rigor di termini, false.

La meccanica newtoniana è quindi interpretata come una legge fenomenologica: è una idealizzazione che funziona bene per certi fini pratici. In maniera cruciale, per Cartwright, tutte le leggi sono così (e così è anti-realista in materia di leggi), il che vuol dire che nella fisica, invece di cercare una fondamentale “teoria del tutto” noi dovremmo invece sforzarci di mettere insieme un mosaico coerente di teorie e leggi (fenomenologiche) locali, ciascuna caratterizzata da un certo limitato campo di applicazione.

Nelle sue parole:

Né la teoria dei quanti ne quelle classiche sono sufficienti da sole per fornire descrizioni accurate dei fenomeni del proprio dominio. Alcune situazioni richiedono descrizioni quantistiche, alcune classiche e alcune in misto delle due.

Dire qualcosa del genere di: «Si, ma in linea di principio potremmo usare la meccanica quantistica per ogni cosa» è, secondo Cartwright, spingersi oltre l’empirico e strascinarsi su un terreno metafisico malfermo. Sebbene Unger e Smolin non si spingano così avanti, lo spirito della loro critica è simile. Tuttavia, in maniera interessante, essi la derivano da un’analisi delle leggi fisiche che inizia con un altro classico del dibattito filosofico: la causalità[15].

L’idea base proposta da U&S è semplice, profonda e eminentemente ragionevole: noi usualmente spieghiamo i processi e le interazioni causali facendo riferimento a delle leggi. Ma di fatto, sostengono, è più plausibile che siano le (apparizioni delle) leggi che emergano da interazioni causali. Cioè i processi causali sono primari, e quando avvengono con una regolarità prevedibile noi definiamo lo schema risultante una legge. Questo, in a sua volta, deriva dal loro trattamento del tempo come non emergente: se c’è una cosa che definisce la causalità è l’asimmetria atemporale, e infatti il tempos tesso può essere definito in termini di causalità:

Se il tempo non fosse reale, non ci potrebbero essere relazioni causali per il fatto che non ci sarebbe il prima (la causa) e il dopo (l’effetto). … Niente distinguerebbe le connessioni causali, che sono vincolate al tempo, dalle relazioni logiche o matematiche di implicazione, che stanno fuori dal tempo (pag. 7)

E anche:

All’interno di questa visione, il tempo è intimamente e internamente connesso al cambiamento. Il cambiamento è causale. Il tempo è cambiamento. Nello spirito di queste affermazioni noi dovremmo trarre ispirazione, e non scoraggiamento, dall’osservazione di Mach: «È del tutto oltre il nostro potere misurare il cambiamento delle cose col tempo. Esattamente al contrario, il tempo è un’astrazione a cui arriviamo col cambiamento delle cose» (pag. 22)

Ma, un attimo, so che state per dire, non è forse vero che noi abbiamo moltissime prove empiriche del fatto che il tempo cambia a seconda delle condizioni locali, come la velocità alla quale ci muoviamo, o gli effetti gravitazionali? Unger (e Smolin, nella seconda metà del libro) hanno ovviamente considerato la questione:

Nessuna relazione necessaria, diretta, essite fra l’ontologia di Einstein-Riemanne e il solido contenuto empirico della relatività generale. Possiamo tenere il resto empirico se pure ci liberiamo dell’ontologia (pag. 232).

La soluzione pratica qui è quella di pensare al tempo assoluto non in termini di unità standardizzate, come secondi, oscillazioni di atomi di riferimento o simili. Il tempo è, se capisco correttamente U&S, semplicemente la successione di connessioni causali fra gli eventi. La successione può aver luogo localmente a un passo differente, ma questo non invalida il fatto universalmente vero che certe cose (come, per dire il più ovvio, il Big Bang) sono avvenute prima di (nel senso che sono state casualmente antecedenti a) altre.

Ci sono due conseguenze cruciali di questo modo di considerare le cose: tanto per cominciare, che le leggi della natura stesse possono cambiare nel corso del “tempo”. Addirittura, lo hanno già fatto. U&S pensano che l’universo sia passato attraverso almeno due fasi, e forse molte prima di quelle. Una fase è stata il Big Bang e ciò che è avvenuto immediatamente prima e dopo. Durante questa sequenza di eventi causali (cioè “tempo”) sono avvenute cose che non rispettano nulla di simile alla prevedibile regolarità che noi vediamo all’opera adesso, perché i processi causali stessi stavano cambiando. La seconda fase è quella dell’universo raffreddato, che è andata avanti ora per miliardi di anni e che può (con buona approssimazione, come direbbe Cartwright) essere descritta come rispettosa delle leggi, perché la natura delle interazioni causali che la caratterizzano non sta cambiando o non cambiando percettibilmente. Ma questo stato di affari può non durare all’infinito, e l’universo può attraversare un’altro periodo di sconvolgimento, e così via e così via, indefinitamente.

La seconda conseguenza cruciale è che i fisici dovrebbero considerare seriamente la cosmologia come una scienza fondamentalmente storica, da modellare sulla base di alcune delle scienze “speciali” come la geologia e la biologia, non nel modo via via più singolare col quale la fisica fondamentale procede. In effetti l’idea che proprio quelle regolarità che governano l’universo possano cambiare con le condizioni causali appare strana solo nella fisica fondamentale, perché essa è stata così influenzata dall’astratta (e necessariamente indipendente dal tempo!) matematica. Tutte le altre scienze hanno da molto tempo riconosciuto l’emergere di nuovi schemi di comportamento  (cioè nuove regolarità) fatti scattare da mutate condizioni causali. Per esempio le principali transizioni dell’evoluzione biologica (per esempio dalla vita unicellulare a multicellulare) hanno reso possibili interi nuovi modi di cambiamento evolutivo (un concetto conosciuto come evolvibilità[16]) che semplicemente non erano sostanziati precedentemente. L’apparizione di esseri senzienti capaci di ragionare ha fatto scattare nuovi tipi di interazioni causali che semplicemente non erano accessibili all’universo prima di un certo punto. Questo porta con sé un quadro affascinante di possibilità aperte, dove il futuro non è fissato nel passato, ma dipende da come cambierà la causalità e quali nuove forme prenderà.

A costo di prolungare ulteriormente questa già considerevole mezza recensione, per così dire, lasciatemi segnalare anche che Unger incornicia chiaramente il progetto del libro nel contesto di due ampie tradizioni filosofiche:

l’approccio relazionale alla natura e la priorità del divenire sull’essere… L’idea relazionale è che noi dovremmo comprendere tempo e spazio come ordinamento di eventi o fenomeni piuttosto che come entità in se stesse… Nella storia della fisica e della filosofia naturale le due principali affermazioni della visione relazionale sono state quelle formulate da Gottfried Leibniz nel tardo diciassettesimo secolo e da Ernst Mach nel tardo diciannovesimo secolo… Una seconda fonte di ispirazione filosofica di questo libro è meno facile da associare a una singola dottrina, una descrizione già pronta, o pochi nomi. È la tradizione di pensiero che afferma il primato del divenire sull’essere , del processo sulla struttura, e perciò anche del tempo sullo spazio. Essa insiste sulla impermanenza di tutto ciò che esiste (pagg. XIII-XV).

Bene, quanto meno in termini di nomi potrei suggerire Eraclito e Fu Hsi (l’autore de I Ching, opportunamente noto come Il libro dei cambiamenti).

Queste sono, naturalmente, idee ben lungi dall’essere non controverse, ma sono strutture filosofiche eminentemente difendibili: tempo e spazio non sono entità, ma modi di ordinare eventi e l’universo non è organizzato secondo leggi senza tempo (ah), ma ogni regolarità che lo caratterizza emerge dallo svolgersi delle cose.

Questo è come le cose stanno al momento. Ora datemi un paio di altri mesi per arrivare alla fine della parte di Smolin del libro…

_____

Massimo Pigliucci è un biologo e filosofo alla City University di New York. I sui interessi principali sono nella filosofia della scienza e pseudoscienza. È il direttore di Scientia Salon e il suo ultimo libro (pubblicato insieme con Maarten Boudry) è Philosophy of Pseudoscience: Reconsidering the Demarcation Problem (Chicago Press).

[1] The Singular Universe and the Reality of Time: A Proposal in Natural Philosophy, by R.M. Unger and L. Smolin, Cambridge University Press, 2014.

[2] Scientist, voce di Wikipedia.

[3] Not Even Wrong: The Failure of String Theory and the Search for Unity in Physical Law, by P. Woit, Basic Books, 2006.

[4] The Mating Mind: How Sexual Choice Shaped the Evolution of Human Nature, by G. Miller, Doubleday, 2000.

[5] Capital in the Twenty-First Century, by T. Piketty, Belknap Press, 2014.

[6] Guns, Germs, and Steel: The Fates of Human Societies, by J. Diamond, W. W. Norton & Company, 1999.

[7] The Plausibility of Life: Resolving Darwin’s Dilemma, by M.W. Kirschner and J.C. Gerhart, Yale University Press, 2005.

[8] On mathematical Platonism, by M. Pigliucci, Rationally Speaking, 14 September 2012. Vedi anche: Mathematical Universe? I ain’t convinced, by M. Pigliucci, 11 December 2013.

[9] The Unreasonable Effectiveness of Mathematics in the Natural Sciences, by E. Wigner, Communications in Pure and Applied Mathematics, vol. 13, No. I (February 1960). Anche qui, vedi per esempio questa confutazione di Steven French: The Reasonable Effectiveness of Mathematics: Partial Structures and the Application of Group Theory to Physics, Synthese 125:103-120, 2000.

[10] Platonism in the Philosophy of Mathematics, by Ø. Linnebo, Stanford Encyclopedia of Philosophy.

[11] Essays on emergence, by M. Pigliucci, part I, part III and part IV, Rationally Speaking, 11 October 2012, 22 October 2012, and 25 October 2012.

[12] Are there natural laws?, by M. Pigliucci, Rationally Speaking, 3 October 2013.

[13] How the Laws of Physics Lie, by N. Cartwright, Oxford University Press, 1983.

[14] Representing and Intervening: Introductory Topics in the Philosophy of Natural Science, by I. Hacking, Cambridge University Press, 1983.

[15] Causal Processes, by P. Dowe, Stanford Encyclopedia of Philosophy.

[16] Is evolvability evolvable?, by M. Pigliucci, Nature Reviews Genetics 9:75-82 (2008).

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