Sempre a proposito di miserie
Ho finito ieri un nuovo corso on line dopo quello bellissimo sul game design del quale vi ho già parlato (e un altro, sempre di game design, che è ancora in fase di valutazione): questo era dedicato alla teoria dei giochi in senso economico e ai comportamenti strategici nel campo aziendale.
Il corso era interessante, aveva un’ottima didattica (con una marea di quiz) e un simpatico professore dell’Università di Monaco, Tobias Kretschmer, amante di Guerre Stellari e con un certo gusto per la gag.
Con tutto questo al termine del corso, però, non posso nascondere un certo grado di insoddisfazione. In parte dipende dal fatto che dopo due settimane di teoria dei giochi standard (dilemma del prigioniero, giochi ripetuti, sequenziali, finiti e infiniti… tutta roba studiata ai tempi dell’esame di microeconomia) la terza settimana era nooooiosissima e tutta giocata sulle definizioni e durante le settimane successive, nelle quali avremmo dovuto secondo Kretschmer mettere le mani in pasta in questioni interessanti (ingresso in un mercato e di converso difesa contro le invasioni di campo, ricerca e sviluppo, differenziazione dei prodotti), il corso non acchiappava granché, nel senso che descriveva strategie ma non forniva strumenti di riflessione né, tanto meno, insegnava a ragionare in senso strategico, per esempio fornendo strumenti concettuali trasversali ai vari argomenti; alla fine, insomma, era un discreto corso di microeconomia o di economia aziendale, ma certo non un corso di teoria dei giochi.
Può essere, naturalmente, che la mia insoddisfazione dipenda dall’approccio di Kretschmer, che dopo tutto è un professore di business economics, ma non lo credo. Sono andato per controllo a rivedermi il mio vecchio e ottimo Io vinco, tu perdi (purtroppo è fuori catalogo, ma si trova ancora in giro, usato) e la mia impressione è stata confermata: il libro di Dixit e Nalebuff, che partono dalla stessa impostazione di Kretschmer, presenta una varietà di casi e applicazioni molto maggiore del corso che ho seguito, ma alla fin fine quello che emerge è che la teoria dei giochi, quella di Nash e von Neumann, ha certamente delle applicazioni molto interessanti in campo economico e magari in qualche altro caso ma è, alla fin fine, estremamente limitata, prigioniera delle sue stesse formulazioni matematiche. Dopo che uno ha esplorato il dilemma del prigioniero, si è appropriato del concetto di posta in gioco, conosce i giochi a ripetizione finita e infinita e qualche altro concetto base, c’è ancora da studiare modelli matematici sempre più complicati ma, sostanzialmente, si è già imparato tutto quel che c’è da sapere (per non parlare del fatto che l’esperienza empirica spesso smentisce la teoria) e il resto è grosso modo una casistica divertente e anche stimolante (come gli infiniti problemi su come dividere un dollaro fra diversi giocatori) ma spesso abbastanza priva di senso.
E la cosa è tanto più sorprendente quando si considera che tutti i campi nei quali si fa game design, oggi, stanno sviluppando delle proprie epistemologie o almeno dei tentativi molto robusti di riflettere e catalogare le conoscenze che sviluppano – che si tratti di tentare di descrivere le transazioni in termini di potere e libertà fra arbitro e giocatori nei giochi di ruolo o l’attitudine lusoria e i vari tipi di giocatore e di divertimento dei vari modelli teorici della scrittura dei videogame. Per non parlare di una riflessione teorica amplissima sulla identità dei giochi, da Huizinga a Caillois, da Bateson a Suits, che in buona parte non incrocia mai il modo di ragionare degli economisti, i quali si confermano, insomma, esponenti di una scienza grama e di una visione un po’ misera.
Nel campo, naturalmente, sono un dilettante e quindi può darsi che il mio giudizio derivi da una conoscenza imperfetta della letteratura più avanzata in materia, ma francamente non lo credo: mi sono guardato l’indice di Game Theory: A critical text, il libro in materia di teoria dei giochi di Yannis Varoufakis, che come è noto è stato “economista residente” a Valve e quindi ha fatto una robusta esperienza sul campo all’interno dell’industria ludica, e per quanto pensi che sia probabilmente un libro bellissimo e anche pieno di implicazioni di politica sociale continuo a ritenere il suo orizzonte teorico davvero molto limitato. C’è solo un altro ambiente nel quale è altrettanto sorprendente una così profonda ignoranza della teoria ludica, ed è lo sport – tutti sanno che è un gioco, ma nessuno lo analizza come tale.
Detto questo, martedì ero a un incontro di Banca Etica e improvvisamente mi sono trovato di fronte a una applicazione di una cosa appena studiata nel corso di Kretschmer, cioè la cosiddetta judo economics, una tecnica per entrare in un nuovo mercato rivolgendo la forza di chi domina già quel campo contro lui stesso. Mi è sembrata una coincidenza straordinaria e, un po’, mi sono riconciliato con la teoria dei giochi (e magari sull’argomento tornerò in maniera più precisa fra qualche giorno).